Gobetti è interessato all’attività traduttoria nella sua interezza e complessità, dalla funzione socio-culturale (il progetto editoriale) alla prassi linguistico-stilistica (è egli stesso traduttore e fine lettore dello stile), dall’analisi critica alla riflessione estetica. Per questo sono particolarmente ampi i riflessi e le risonanze dei suoi ragionamenti, che, seppur non discussi esplicitamente, vanno a situarsi nel centro di un dibattito filosofico vivacissimo. Soprattutto, Gobetti dimostra di aver chiaro – assai modernamente – il carattere provocatorio del ragionamento intorno alla traduzione, utile ad esempio a rimettere in discussione il pensiero estetico idealista.
Partiamo dalla traduzione come operazione culturale, carica di responsabilità civili e sociali, sociolinguistiche, e, in epoca moderna, strettamente legata all’attività editoriale e quindi alla libera iniziativa imprenditoriale:
La storia della nostra lingua presenta, proprio nel periodo di formazione della letteratura nazionale, il fenomeno d’una fioritura copiosa di traduzioni, di riduzioni, di “volgarizzamenti”. La lingua appare nascente sboccia con intimo fervore; sente il bisogno di esperimentare la sua capacità d’assimilazione e a tutte la difficoltà si cimenta. Dal Duecento al Cinquecento gli italiani traducono tutti i classici: traducono i latini in volgare, i greci in latino e in volgare. E troviamo in relazione con questo fenomeno gli ultimi fiori di letteratura umanistica e assistiamo al formarsi rigoglioso della nostra letteratura italiana. Accanto al Novellino trovi i molti “volgarizzamenti del buon secolo”, accanto alla Cronica di Dino, l’umile riduzione dei Fatti di Enea di Frate Guido da Pisa, accanto a Poliziano, Ficino e poi Bembo, accanto all’Ariosto il Caro.
L’umile parlare fiorentino si viene ripulendo, arricchendo, ricreando sul latino e sul greco; con la lingua, con lo stile tutta una traduzione, tutta una cultura si conquista, si assimila, si rifà.
Per l’ardore e la vitalità di ciò ch’è giovane non si conoscono ostacoli: Davanzati s’impegna a combattere, sicuro della vittoria, con Tacito; già prima di lui la modestia d’una lingua che ancora non s’è elevata a dignità letteraria affronta filosofia, storia, scienza. Tanta fecondità di creazione, tanto coraggio che sa ispirare e far operoso tutto un popolo più non conoscemmo, anche se dopo il Quattrocento si ebbe maggior copia di opere e mercato di libri: s’era perduta la verginità.
Oggi la letteratura è bottega, il libro Mario Mariani, le eccellenti traduzioni del buon secolo XX formano tutta una “Biblioteca amena”.
“La Voce” promette qualcosa di meglio con una sua nuova collezione [N. d. A.]. Senza pretese o grosse affermazioni promuove di fatto, silenziosamente, un ritorno alla tradizione. Presenta delle traduzioni oneste, serie.
(P. Gobetti, Nuove traduzioni, «Poesia ed Arte», II, 6-7, giugno-luglio 1920, pp. 147-50, poi in Id., Scritti storici cit, pp. 477.)
Come ha scritto Franco Brioschi, «L’editore può essere considerato come il simbolo del pensiero di Gobetti; la sua opera mette infatti in comunicazione il mondo della libera iniziativa economica con il mondo della libera iniziativa culturale». E Gobetti studia gli editori, li osserva, li giudica, anche in relazione ai libri che fanno tradurre. Il livello delle traduzioni è uno degli indici della serietà d’un paese: «Le traduzioni sono speculazioni commerciali e ci dànno non Andreiev [il riferimento è all’autore russo Leonid Andreieff], ma dei libri vuoti, senza carattere, dove l’originalità dell’autore si perde in un francesismo internazionale da romanzo d’appendice, che naturalmente resta nelle versioni italiane: mirabile documento d’impotenza culturale latina». Ancora sulla traduzione in Italia leggiamo da una nota del 5 maggio 1919, su «Energie Nove», «Il libro [E. Barret-Browning, Sonetti dal Portoghese] è di settant’anni fa, ma abbiamo voluto accennarvi, raccomandandolo, perché la traduzione di C.[ino] Chiarini è una delle poche coscienziose che possono sostenere il confronto con l’originale. È una cosa rara in Italia»; e sul medesimo fascicolo della rivista troviamo la prima parte del saggio La cultura e gli editori, dura requisitoria contro l’editoria italiana e contro Treves in particolare:
La cultura generale in Italia è patrimonio e deposito esclusivo della casa editrice Treves. Il nome è un simbolo […] di tutta la vuotezza italiana. Non dico che Treves sia l’origine di questa vuotezza. Dico semplicemente che i due fenomeni sono concomitanti, che Treves rappresenta la degenerazione culturale italiana e viceversa che l’Italia che legge è degna di Treves. Il catalogo d’un editore in questo caso serve a dare il giudizio di tutta una civiltà. […]
Noi in Italia non abbiamo ancora delle buone traduzioni dalle opere più importanti delle letterature straniere. E infatti badate: gli “Antichi e moderni” di R. Carabba, le traduzioni della Libreria della Voce e qualche altra iniziativa sono stati tentativi sporadici: il campo è occupato dalla “Biblioteca amena”. Il pubblico ha l’editore che si merita e viceversa. Il primo è fatto pacifico su cui è inutile discutere, più importante il secondo, che l’editore si crea lui il suo pubblico cioè che può influire lui sulla cultura generale.
(P. Gobetti, La cultura e gli editori I, «Energie Nove», s. II, 1, 5 maggio 1919, pp. 14-15, sotto lo pseudonimo di «Rasrusat», poi in Id., Scritti storici, letterari e filosofici, a c. di V. Spriano, Einaudi, Torino 1969 pp. 458-61)
Non è solo una questione di scelta delle opere da pubblicare, ma anche, se non soprattutto, di scelta delle traduzioni, che devono essere oneste, serie, buone, coscienziose, e, come dirà altrove, dirette (ovvero condotte senza la mediazione d’una terza lingua, solitamente il francese) e impeccabili. Tradurre è una pratica linguistica i cui risultati e le implicite premesse agiscono direttamente nel tessuto sociale, per questo dovrà essere giudicata nelle sue peculiarità linguistico-stilistiche e quindi, inevitabilmente, messa in qualche rapporto con l’originale, il testo di partenza.
Da queste premesse, e non dalla domanda filosofica sull’essenza della traduzione, Gobetti arriverà a confrontarsi col pensiero crociano. Col presupposto implicito che la traduzione esercita un ruolo fondamentale nella cultura d’un paese, Gobetti affronta il problema filosofico allo scopo di giustificare e trovare un terreno solido alla sua critica della traduzione, esercizio giudicante necessario allo sviluppo del pensiero e della civiltà.
Non è qui il luogo, né io m’arrogherei la capacità, d’indagare il concetto di traduzione. Che, se non m’inganno, è anche uno dei punti men chiari dell’estetica crociana. E deriva, a mio debole avviso, dalla mancata spiegazione del concetto di lingua – come formazione, oltreché individuale, nazionale – e dalla mancata indagine delle relazioni tra le lingue. Problema che ci riporta insomma a quello della giustificazione della personalità individuale e delle distinzioni sociali.
Senz’entrare in questi argomenti dirò (se si vuole, con termini abbastanza imprecisi) che io intendo la traduzione come sforzo di chiarire a se stessi la creazione fantastica dell’autore e di rifarla sviluppandone le caratteristiche (è chiaro che qui bisognerebbe indagare la realizzazione di questo sforzo e precisamente le relazioni tra le lingue, come formazioni storiche). Dare l’opera originale come la sentiamo noi, ma in modo che si riconosca anche l’autore. Opera d’attività creativa nel senso di creazione di una relazione di simpatia (in senso etimologico) tra due stati d’animo e due intuizioni. La negazione assoluta della traduzione è dunque legittimata nelle estetiche mistiche e trascendentali; ma logica ne è invece l’affermazione quando si ponga l’identità d’espressione e intuizione (altrimenti verrebbe tolta insieme alla traduzione anche ogni possibilità di comprensione) e specialmente quando si sviluppi il carattere dialettico d’attività che c’è nell’identità, quando s’intenda insomma l’identità crociana come identificarsi progressivo.
(P. Gobetti, Leonida Andreiev in Italia, «Energie Nove», s. II, 8. 30 sett 1919, pp. 166-168, poi in Id., Scritti storici, letterari e filosofici, a c. di V. Spriano, Einaudi, Torino 1969, pp. 345-50.)
Insomma, Gobetti non vorrebbe osare, poi osa e si spinge in una critica audacissima alla dottrina crociana, nella convinzione, come ebbe a dire all’inizio del 1919, che Croce presenti «il suo sistema come strumento di lavoro, come punto di partenza per nuove ricerche, e gli incoscienti [i crociani] accettano pigramente il suo sistema per fermarvici. Negano ciò che nel sistema è tutto: lo svolgimento». E se il filosofo napoletano, nella sua Estetica come scienza dell’espressione, aveva chiaramente sostenuto, a corollario dell’inesistenza dei differenti modi dell’espressione, l’impossibilità delle traduzioni, «in quanto abbiano la pretesa di compiere il travasamento di un’espressione in un’altra, come di un liquido da un vaso in un altro di diversa forma», Gobetti compie un deciso spostamento di prospettiva, osservando il fenomeno non tanto dal punto di vista “creativo” del traduttore come scrittore, quanto semmai da quello ermeneutico del traduttore come interprete. Laddove Croce concepiva la traduzione o come commento o come nuova creazione (secondo la dicotomia “brutte fedeli” o “belle infedeli”), in modo che intatta rimanesse comunque l’unica l’intuizione-espressione dell’originale, Gobetti argomenta un’idea di traduzione come commento e creazione ad un tempo, sforzo di chiarire a sé stessi la creazione fantastica dell’autore, per poi rifarla «sviluppandone le caratteristiche».
La contestazione principale a Croce è proprio sul mancato riconoscimento dell’importanza della comprensione, individuata invece da Gobetti come momento centrale d’un’estetica che si fondi sull’identità di espressione e intuizione. Da una parte c’è l’interesse a giustificare un legame responsabile tra testo di partenza e testo d’arrivo, dall’altra l’interesse a far stare in piedi un sistema filosofico del quale la traduzione, o meglio l’intraducibilità, è uno dei pilastri. Nell’estetica dell’intuizione la traduzione non può che essere esperienza non estetica («Si può elaborare logicamente ciò che prima era stato elaborato in forma estetica, ma non ridurre ciò che ha avuto già la sua forma estetica ad altra forma anche estetica», si legge nell’Estetica), oppure nuova esperienza estetica, di fatto staccata dall’originale. Idea ulteriormente chiarita nel Breviario di estetica del 1913, dove si legge che «perfino una bella traduzione è originale quanto un’opera originale!», nel senso che essa vale in quanto originale, come opera dell’intuizione e non in rapporto con il testo di partenza, col quale il testo d’arrivo manterrebbe al massimo un rapporto di somiglianza:
Ma sono somiglianze quali si avvertono tra gl’individui, e che non è dato mai fissare con determinazioni concettuali: somiglianze, cioè, alle quali mal si applicano l’identificazione, la subordinazione, la coordinazione e le altre relazioni dei concetti, e che consistono semplicemente in ciò che si chiama aria di famiglia, derivante dalle condizioni storiche tra cui nascono le varie opere, o dalle parentele d’anima degli artisti. | E in siffatte somiglianze si fonda la possibilità relativa delle traduzioni; non in quanto riproduzioni (che sarebbe vano tentare) delle medesime espressioni originali, ma in quanto produzioni di espressioni somiglianti e più o meno prossime a quelle. La traduzione, che si dice buona, è un’approssimazione, che ha valore originale d’opera e può stare da sé.
(B. Croce, Estetica, Sandron, Palermo 1902, pp. 81-82)
Così Croce riesce a negare il concetto di traducibilità – poiché, come scriverà nel 1936, «L’impossibilità della traduzione è la realtà stessa della poesia nella sua creazione e nella sua ricreazione» –, per poi recuperare parzialmente le traduzioni come fatto storico e come innegabile esperienza quotidiana. Recupero che non può bastare alle esigenze interpretative di Gobetti, il quale, come vedremo, cerca di dare una base solida ad una vera e propria critica della traduzione fondata su rilievi di tipo stilistico. In questo senso si fa fondamentale il rapporto tra testo d’arrivo e testo di partenza, così come è importante preservare il ruolo del traduttore come interprete oltre che scrittore, come artista piuttosto che come poeta, scrive Gobetti, reintroducendo una distinzione del De Sanctis già messa al bando nella prima Estetica crociana:
Tra i volumi che ho dinanzi, qualcuno (le versioni di Linati e di Rebora) vale anche qualcosa di più: c’è lo sforzo di rivivere la poesia, di ricreare l’arte e non solo di tradurre meccanicamente. Giungono all’intimo problema del loro artista; e il loro travaglio è inteso a mantenere la continuità e l’equilibrio della conquista stilistica: per essi, conquista stilistica significa far diventare intimità espressiva la parola astratta, che nel vocabolario ha il suo valore e la sua realtà in un’identità materiale, ma nell’atto creativo è un organismo poetico sempre nuovo.
Chi apra i Poeti d’oggi trova far parte dei quarantasei il nostro Rebora e il nostro Linati. Ma io li ritrovo per ora meglio a posto qui in questo loro ufficio di traduttori coscienti e quindi artisti. La limpida espressione che ha davvero forza e compiutezza espressiva nelle opere tradotte, è invece troppo spesso dilettantismo e quasi ricerca meramente linguistica nelle loro opere originali. (Penso specialmente a Linati: ai suoi due più nitidi tentativi: Nuvole e paesi e Sulle orme di Renzo). Molti dei nostri poeti d’oggi dovrebbero acquistare questo senso del loro limite. Se Monti è anche per noi poeta vero lo deve certo alla traduzione dell’Iliade più che ai molti Bardi della Selva Nera e Mascheroniane e Pellegrini apostolici. Non indago le ragioni del fatto: lo constato. Ci sono degli artisti (per riprendere la vecchia antitesi desanctisiana) che non sono poeti. E di essere artisti farebbero opera saggia a contentarsi.
(P. Gobetti, Nuove traduzioni, «Poesia ed Arte», II, 6-7, giugno-luglio 1920, pp. 147-50, poi in Id., Scritti storici cit, pp. 477-81)
Anche Gobetti, come Croce, parla di «rivivere la poesia», di una ricreazione da contrapporre alla traduzione meccanica, ma poiché egli tenta in primo luogo di dar ragione d’un fenomeno attuale di cui percepisce la novità e la rilevanza (siamo in un momento decisivo per il rinnovamento della lingua letteraria, ma anche per l’affermarsi d’un primato del poeta-traduttore che troverà il suo massimo sviluppo negli anni Trenta), non ha nessuna esitazione a collocare la traduzione su un gradino inferiore alla poesia, purché sia possibile conservarne intatto il carattere di “conquista stilistica”, di “travaglio” che nasce da un atto di comprensione.
Croce tornerà nel 1922 sui suoi vecchi pensieri proprio per ribadire l’insussistenza della distinzione artista/poeta, da sostituire semmai con la più netta dicotomia oppositiva, inutile al critico torinese, di Poesia e oratoria. Ma è l’apertura ‘ermeneutica’ proposta da Gobetti a diventare impraticabile e indiscutibile al Croce fin dal 1920, ovvero dall’uscita di un articolo di Giovanni Gentile volto a colpire, attraverso la traduzione, il cuore dell’estetica crociana. Da questo momento la posta in gioco del dibattito si fa altissima e la traducibilità ne sarà il punto dirimente.
La tesi gentiliana – non a caso recuperata da George Steiner nel suo fondamentale Dopo Babele – è articolata in due momenti diversi; prima viene spiegato il torto delle traduzioni, e s’illustra per questo la tesi dell’Estetica in modo tale che, dirà Croce nei giorni seguenti, «sulla questione del tradurre non c’è luogo a dissenso, perché il Gentile riconosce e ribadisce l’impossibilità di riprodurre in altra forma ciò che già ha avuto la sua forma»; poi, dopo aver affermato che «il concetto dell’impossibilità del tradurre si lega perciò [per quanto affermato nella prima parte] col concetto della spiritualità della lingua», giunge alla conclusione estrema dell’identificazione della traduzione con la comprensione, sostenendo che «noi traduciamo sempre, perché la lingua, non quella delle grammatiche e dei vocabolari, ma la lingua vera, sonante nell’animo umano, non è mai la stessa, né anche in due istanti consecutivi; ed esiste a condizione di trasformarsi, continuamente inquieta, viva».
Negare la traduzione, è implicito alla tesi gentiliana, vuol dire negare ogni possibilità di comprensione, come diceva Gobetti, ovvero negare il linguaggio:
E qui spunta il diritto del traduttore. Giacché tradurre, in realtà, è la condizione d’ogni pensare e d’ogni apprendere; e non si traduce soltanto, come si dice empiricamente parlando e presupponendo così lingue diverse, da una lingua straniera nella nostra, ma si traduce altresì dalla nostra, sempre: e non soltanto dalla nostra dei secoli remoti e degli scrittori di cui noi siamo lettori, ma anche dalla nostra più recente, ed usata già da noi stessi che leggiamo e parliamo.
G. Gentile, Il diritto e il torto delle traduzioni, «Rivista di cultura», I, 1, 15 aprile 1920, ora in Id., Frammenti di estetica e di teoria della storia, Le lettere, Firenze 1992, vol. I, p. 112)
La reazione di don Benedetto non poteva che essere determinata e immediata; in una breve nota sulla “Critica” leggiamo la prima contestazione alla tesi appena esposta, della quale si segnala innanzitutto il pericolo d’una sostanziale identificazione del leggere col tradurre, “identificazione che, nelle sue ultime conseguenze, scuoterebbe le fondamenta della critica letteraria ed artistica, sostituendo all’indagine critica sulla verità di una data opera di poesia la serie dei rifacimenti e variazioni poetiche di essa, col conseguente cieco urto tra il “mio” e il “tuo” Dante, il “mio” e il “tuo” Goethe”. Ed è una polemica che continuerà negli anni, a partire dalla replica di Gentile (del 1921), per svilupparsi in una lunga serie di attacchi di Croce all’amico siciliano e ai varî linguisti, storici della lingua e filologi che alle tesi di Gentile si rifanno più o meno esplicitamente (significativa una requisitoria del 1941 contro Giulio Bertone, reo di aver adottato le tesi del «filosofo anestetico» Giovanni Gentile, peraltro mai nominato se non con chiare perifrasi), fino alla definitiva presa di posizione nel volume La poesia del 1936, in cui l’autore ribadisce la sostanziale estraneità del suo sistema filosofico a ogni idea di traducibilità.
Così, mentre Gentile sostiene un’idea di traduzione come lettura, comprensione, interpretazione, ribellandosi ad una concezione statica dell’opera d’arte come «cosa in sé noumenicamente pensabile», Croce viene a ribadire che la traduzione, fermo restando il principio dell’intraducibilità, è una reazione all’opera d’arte originale; una reazione che, nel migliore dei casi, può portare alla creazione di una nuova opera, la quale «presuppone nondimeno la rievocazione che dell’opera originale si sia fatta nello spirito del traduttore». Questa rievocazione, che vede rivivere nel lettore l’atto creativo, è – continua Croce – «il punto di partenza del lavoro del critico, la cui particolare reazione è filosofica e discriminatrice, quanto del traduttore, la cui reazione è invece poetica e artistica ed appartiene, come la poesia, alla sfera estetica», col risultato finale di una dichiarata impossibilità di giudicare le traduzioni se non attraverso il gusto.
Gobetti, che non avrebbe trovato appiglio né giustificazione alcuna del proprio operato nelle parole di Croce, difficilmente avrebbe potuto aderire alle tesi di un ministro fascista con cui chiuderà presto i suoi conti sul piano etico-politico. Ma è naturalmente inutile ragionare su ipotesi del genere, anche perché il fondatore della «Rivoluzione liberale» brucia i tempi e, senza aspettare risposta o avallo di critici o filosofi di sorta, negli stessi saggi in cui esprime i suoi dubbi teorici affronta l’analisi critica dei testi. Egli sceglie e giudica, perché, lo abbiamo detto, ha bisogno di scegliere e di giudicare.
Nel saggio su Leonida Andreiev in Italia (pubblicato nel settembre del 1919), prendendo le mosse dal ragionamento che abbiamo osservato sul rapporto simpatico che dovrebbe instaurarsi tra traduttore e tradotto, la prospettiva ermeneutica di Gobetti trova la sua massima espressione. Egli sa affondare lo sguardo come nessun altro contemporaneo nello stile reboriano, rilevato qui nella sua capacità a“strumentale” di rendere i medesimi effetti, i risultati espressivi della scrittura del russo:
Tale esigenza [di “dare l’opera originale come la sentiamo noi, ma in modo che si riconosca anche l’autore”] ha visto il Rebora e l’ha soddisfatta come non si sarebbe potuto meglio. L’ineguaglianza, le sovrapposizioni, le ricreazioni audaci pur lasciano alla fine un’idea completa dell’autore russo.
E, quando s’è ricreata un’individualità nelle sue linee, è assolto il compito principale. Ma noterò ancora per la comprensione di tutti che anche i tratti lievi, episodici, le sfumature sono rese con una fedeltà delicata e impeccabile.
Confrontino i lettori, per esempio, la traduzione del Rebora di Cristiani con quella pubblicata quasi due anni or sono dalla “Biblioteca Universale” del Sonzogno (ch’era un miracolo quando sorse ed era fatta con criteri di probità letteraria ben superiori a quelli del Treves, ma che oggi occorre rifare). Vediamo insieme le prime righe: p. 43 dell’edizione Vallecchi, p. 49 dell’edizione Sonzogno, p. 111 del III volume delle opere complete di L. Andreiev, Pietroburgo 1913.
Edizioni Sonzogno: “Al di fuori cadeva un nevischio leggero e quasi liquido come in novembre, ma nel Palazzo di Giustizia faceva caldo; c’era animazione e allegria tra coloro… ecc. ecc.”.
Sentiamo Rebora e il russo:
“Dietro le finestre cadeva novembrina neve dimoiata, ma nell’edificio del tribunale c’era invece tepore, animazione e buonumore tra quelli…” |
“sa ocnami padal mocri noiabrschi cniegh, a v sdani suda bilo teplo ojivlenno i veselo dlia tiech…” |
C’è qui una corrispondenza intima di pensiero e di costruzione del periodo, persino armonica. I due aggettivi che nel testo russo precedono il sostantivo hanno importanza plastica centrale e dànno a tutto il quadro un sapore d’umidezza, d’oscurità e di novembre ch’è come lo sfondo di un’altra oscurità negli animi degli uomini. Il traduttore francese da cui è stata fatta la versione del lavoro (che, caso incredibile!, traduce tutte le parole del testo russo) non ci ha capito nulla e ha spiegato (secondo lui!) con una perifrasi banale. Rebora invece mantiene il colore con il meraviglioso: novembrina, e poiché il far seguire subito il secondo aggettivo avrebbe attenuato il valore del primo, lo fa precedere da neve, ma non tradisce la potenza plastica del russo perché lo rende rafforzato con dimoiata (umida) che molti troveranno di cattivo gusto, ma che corrisponde al pensiero di Andreiev perché ci obbliga a fermarci e sentirne l’efficacia mentre per solito i nostri aggettivi noi li lasciamo come riempitivi ad accarezzar l’orecchio. A questo modo il quadro è chiaro e caratteristico, d’una potenza espressiva che ricorda certi versi di Virgilio. Non posso continuare l’analisi che mi porterebbe troppo lungi. Provi da sé il lettore nel confronto e sentirà anche senza testo russo la potenza espressiva del Rebora a ogni istante.
(P. Gobetti, Leonida Andreiev in Italia cit., pp. 347-48).
Non solo c’è un’idea forte di traduzione come interpretazione (senza che ad essa venga attribuita alcuna valenza negativa, come sarebbe in Croce), ma, soprattutto, si manifesta appieno la predilezione per una traduzione straniante, non addomesticante, capace cioè – contro ogni koiné traduttiva e contro le traduzioni “francesizzanti” – di restituire lo stile dell’originale anche a costo di forzare le potenzialità della lingua d’arrivo, che sotto i colpi del traduttore può e deve sottoporsi a cambiamenti funzionali allo scopo. Sono così tollerati, se non invocati, i neologismi, le infrazioni sintattiche e semantiche. Purché servano ad avvicinare il lettore italiano allo scrittore russo, ma senza abolire lo spazio che li separa, senza finzioni di sorta, senza l’adozione di una lingua franca che nasconda le differenze tra le due lingue, tra i due scrittori, che lasceranno anzi le loro tracce visibili nel testo d’arrivo. Idee che verranno chiarite nell’articolo sulle Nuove traduzioni della Libreria della «Voce», nel 1920, per poi venire abbandonate al loro destino, non particolarmente felice in anni di crocianesimo imperante e di anticrocianesimo strisciante, opzioni entrambe sgraditissime all’eretico Gobetti e al suo coerente pensare.
Clemente Rebora traduce per comprendere, e sa pure far comprendere ai lettori il suo autore. Trattata da lui la lingua nostra s’adatta plasticamente alle nuove sensazioni: sapienti disposizioni d’aggettivi, l’intonazione del periodare singolarissima, qua e là parole vecchie ravvivate, e altre coniate di nuovo t’allontanano dalla convenzionalità e ti fanno pensare: subito ti trovi vicino allo scrittore russo. Di proposito Rebora rende sensazioni e sviluppi e modi d’espressione straniera con procedimenti italiani analoghi, e dove non gli riesce, si crea l’espressione adatta, anche a costo di sforzare la vecchia lingua e la comune stilistica. Egli ha dinanzi un’opera d’arte e vuol farla sentire: il resto non importa e se anche per dare ciò che sente gli è necessaria una lingua nuova, non se ne sgomenta. Anzi qua e là non nasconde i suoi propositi di rinnovatore, conscio che l’artista ha la sua lingua per sé, e che deve crearsela intima e profonda nello sforzo continuo di nuove espressioni e di nuova chiarezza.