Gli animali di Dante

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Nell’estate del 2020 sono stato contattato da una sede del WWF. In un empito di ottimismo, la responsabile mi ha chiesto se ero disponibile per una serata su “Gli animali nella Divina Commedia” all’inizio dell’anno dantesco 2021: a gennaio, abbiamo concordato, la pandemia sarebbe stata ormai un ricordo… Le cose, come sapete, sono andate un po’ diversamente. Intanto però avevo cominciato a raccogliere alcune idee. Le ripropongo qui, sperando che possano risultare utili ai colleghi insegnanti – e che l’occasione da cui sono nate faccia perdonare almeno in parte l’eccessiva schematicità del discorso.
Inf., I, illustrazione Gustave Doré

1.

Ricordo lo stupore che provai a sedici-diciassette anni quando mi venne spiegato che Cartesio considerava gli animali come pura res extensa, ovvero meccanismi senz’anima, materia priva di vita interiore. Non c’è dubbio, mi dicevo, che Cartesio abbia avuto l’occasione di osservare da vicino dei cani, dei cavalli, forse dei gatti… Si sarà accorto che sognano, che provano vergogna, che manifestano gioia e tristezza? Com’è possibile non riconoscere nei loro comportamenti emozioni, passioni, pensieri?

I miei rapporti con la filosofia, come si vede, non erano molto promettenti. Ma, lasciando da parte le ingenuità forse un po’ eccessive dei miei sedici anni, resta il fatto che ciascuno di noi, anche un grande filosofo come Cartesio, vede solo quello che può vedere, cioè coglie la realtà attraverso schemi, griglie mentali, idee, parametri, categorie – chiamateli come preferite. La realtà non ci si rivela per forza intrinseca, in maniera immediata, se non in casi rarissimi e fortuiti; di norma, siamo ciechi a tutti gli aspetti che non siamo già pronti a riconoscere e a interpretare. I nostri “occhiali culturali” da un lato ci limitano, dall’altro sono l’unico strumento che abbiamo a disposizione – tanto più utile e fecondo quanto più ampio e diversificato è lo sguardo che ci consentono.

Il primo argomento che vorrei affrontare si può dunque riassumere nella domanda: «Quali sono gli schemi, i modelli culturali attraverso cui Dante legge il mondo animale nella Commedia?» L’analisi critica ne ha ampiamente sviscerati tre, vale a dire la Bibbia, la cultura classica e la tradizione dei bestiari. A me pare che nel poema dantesco emerga anche una lezione più recente, quella di Francesco d’Assisi, che all’inizio del Duecento aveva introdotto una vera e propria rivoluzione nel modo di considerare i rapporti tra gli esseri umani e le altre creature.

2.

Il concetto fondamentale che si ricava dalla Bibbia, riguardo agli animali, è che esiste una differenza radicale tra gli esseri umani e tutti gli altri esseri viventi: gli esseri umani sono gli unici fatti a immagine e somiglianza di Dio e sono perciò in una posizione di superiorità. Tale superiorità si manifesta nella capacità, che è esclusiva dell’essere umano, di usare la parola: Adamo è chiamato da Dio, con un gesto altamente simbolico, a dare il nome a tutte le altre creature. Tale superiorità viene confermata anche dopo la Caduta: gli animali continueranno ad accompagnare l’uomo al di fuori dell’Eden, pur essendo innocenti – e non come compagni, ma per servirgli di nutrimento o per aiutarlo nel suo lavoro.

La parola è la conseguenza della razionalità: gli esseri umani sono dotati di ragione perché partecipano del Logos divino (in questo consiste in buona sostanza il loro essere fatti «a immagine e somiglianza» di Dio). Dante si era posto il problema del linguaggio animale nel De vulgari eloquentia, perché nel libro sacro vi sono due episodi famosi di animali parlanti: quello del serpente che tenta Eva e quello dell’asina di Balam. Dante nega che questi episodi vadano presi alla lettera: in entrambi i casi, dice, gli animali erano strumenti di entità spirituali (il diavolo e l’angelo, rispettivamente) che parlavano attraverso di loro.

Nella Commedia, l’elemento animalesco si presenta quindi, in numerose occasioni, accompagnato da una connotazione negativa.

Man mano che si scende nell’inferno, i demoni che Dante incontra sono segnati da una progressiva perdita di capacità razionali (dalle minacce rabbiose, ma non insensate, di Caronte alla vana astuzia e alla violenza autodistruttiva dei Malebranche, alla perfetta imbecillità di Lucifero, ridotto a un enorme marchingegno privo di coscienza – e di parola) e da una sempre più accentuata mescolanza di elementi umani e ferini (dalla coda di Minosse ai serpenti delle furie alla molteplice natura di Gerione).

Se la parola “animale” si può considerare sinonimo di “essere vivente” (cioè di essere dotato di animus, di respiro), e in questo senso lo usa Francesca (Inf., V) rivolgendosi a Dante: «O animal grazioso e benigno…», i termini «bestia», «bruto», «fiera» sono usati per sottolineare comportamenti irrazionali e perciò stesso peccaminosi: Virgilio rimprovera la «viltade» di Dante paragonando i suoi dubbi al «falso veder» di una «bestia» (Inf., II); Ulisse, nel famoso discorso ai compagni, sintetizza l’incommensurabile distanza che separa la natura dei «bruti» da quella umana, fatta per «seguir virtute e canoscenza» (Inf., XXVI: nell’episodio appena precedente, Vanni Fucci si è definito da sé «bestia» e «mulo»). Nell’ultimo cerchio, i traditori sono paragonati a caproni (Inf., XXXII) e a cani (Inf., XXXIII), Lucifero ha le ali simili a quelle del pipistrello (Inf., XXXIV).

Inf., VI, illustrazione Gustave Doré

3.

La mitologia classica è il secondo grande serbatoio a cui Dante attinge per la rappresentazione del mondo animale.

Innanzitutto la classicità gli offriva numerosi esempi di commistione fra umano e ferino. L’unione di nature opposte era considerata di per sé mostruosa e infatti, come gli scrittori latini a cui in maniera esplicita o implicita si richiama, Dante mescola elementi difformi per caratterizzare in senso orrorifico le creature demoniache del suo inferno, da Minosse a Cerbero, dal Minotauro alle Arpie, fino a Lucifero.

Ai modelli classici si ispira dichiaratamente anche uno degli episodi decisivi dell’Inferno, quello dei ladri, tormentati da serpenti di ogni tipo (canti XXIV e XXV). Episodio decisivo perché Dante, dopo aver descritto varie metamorfosi “semplici”, nel canto XXV descrive la metamorfosi “doppia” di un essere umano in serpente e viceversa, accompagnandola con il famoso “vanto”: «Taccia Lucano… Taccia… Ovidio». A me pare che in questo passo il poeta non stia indulgendo al gusto del meraviglioso fine a sé stesso, e tanto meno che voglia calcare la mano, sfidando i suoi modelli sul piano per così dire quantitativo. Il vanto serve soprattutto per allertare l’attenzione del lettore: Dante sottolinea la sua superiorità tecnica per farci notare il significato più profondo dell’episodio – se uomini e serpenti possono trasmutarsi, assumendo ora l’uno ora l’altro aspetto, la rigida divisione fra regno umano e regno animale che caratterizza la cultura biblica evidentemente viene meno. Si parla di anime dannate, certo, che hanno «perduto il ben dell’intelletto» (cioè Dio, da cui sono per sempre lontane, escluse); anime che, fin dal secondo cerchio, ci è stato detto che hanno sottomesso la ragione (il proprium dell’uomo) al talento (oggi diremmo all’istinto animalesco: e se ci restasse qualche dubbio, nel Purgatorio ci verrà chiarito: i lussuriosi sono proprio coloro che hanno seguito «come bestie l’appetito»). Però resta il fatto fondamentale che esseri umani e animali sono posti sullo stesso piano, non attraverso similitudini o metafore, ma in termini di concretezza fisica, materiale.

Alla letteratura antica Dante attinge anche per un altro aspetto fondamentale della sua rappresentazione del mondo animale. Accanto al filone fantastico e orroroso, infatti, la letteratura latina (e Virgilio in particolare) metteva a disposizione del poeta medievale una straordinaria ricchezza di descrizioni naturalistiche. È vero che, nell’aldilà dantesco, le presenze animali sono pochissime, tanto da potersi contare sulle dita di una mano: nell’Inferno, gli insetti e i vermi che tormentano gli ignavi nel canto III e le cagne che straziano gli scialacquatori nel XIII; nel Purgatorio, il serpente tentatore nella valletta dei principi, canto VIII, e gli «augelletti» del paradiso terrestre, canto XXVIII. Viceversa, sono numerosissime le similitudini con animali, spesso minuziosamente descritti nei loro comportamenti. Le «colombe dal disio chiamate» che raggiungono il dolce nido «con l’ali alzate e ferme» (Inf., V); il «toro» colpito dal macellaio che «saltella», già cieco, prima di cadere (Inf., XII); il ramarro che «sotto la gran fersa / dei dì canicular» attraversa la via veloce come un lampo (Inf., XXV); le «pecorelle» che «escon del chiuso / a una, a due, a tre» mentre le altre ancora stanno «timidette atterrando l’occhio e ’l muso» (Par., III); le api che tornano più volte sul fiore «là dove suo laboro s’insapora» (Par., XXXI); e poi le formiche che si ammusano incontrandosi, i pesci che scompaiono affondando lenti nell’acqua, le gru che volano in fila nel cielo gridando lamentose, la rondinella e l’allodola – tutti esempi di cui le note indicano giustamente i modelli antichi e moderni a cui Dante ha attinto.

Rispetto al naturalismo dei suoi modelli, tuttavia, Dante attribuisce a queste descrizioni una funzione didascalica e un significato morale che il suo lettore era in grado di cogliere senza bisogno di apparati eruditi: valga per tutti l’esempio famoso delle colombe a cui sono paragonati Paolo e Francesca, simbolo non di tenero affetto, ma di colpevole lussuria per i baci impudichi e gli amplessi sfrenati a cui volentieri si abbandonano.

4.

Siamo così arrivati alla terza tradizione culturale a cui Dante attinge nella rappresentazione del mondo animale, quella dei bestiari. Come è noto, i bestiari fornivano descrizioni di alcuni animali, interpretandone in chiave allegorica i comportamenti, veri o fantasiosamente presunti. Dante condivide questa enciclopedia con i suoi lettori e la richiama spesso: così, per esempio, quando Beatrice definisce Cristo «il nostro pellicano» (Par., XXV), senza bisogno di alcun commento, fa riferimento alla leggenda (ben consolidata nella tradizione della letteratura allegorica e didattica) secondo cui il pellicano si beccava il petto fino al sangue per nutrire i figli – come Cristo si era sacrificato fino alla morte per la salvezza degli esseri umani.

Questo modo di rappresentare gli animali, che affrontiamo per ultimo, è in realtà il primo che ci viene proposto, all’inizio dell’Inferno, con la lonza, il leone e la lupa, e torna in episodi ampi e articolati come la processione che Dante vede nel paradiso terrestre e l’aquila formata dalle anime dei beati nel cielo di Giove. Ho lasciato questi esempi per ultimi perché ci offrono l’occasione per due riflessioni conclusive, o quasi.

La prima è che, rispetto all’orizzonte di attesa dei suoi lettori, Dante si muove spesso con estrema libertà: basti pensare alla cornice dei lussuriosi, in Purg., XXVI, dove Dante per descrivere le anime che si purificano tra le fiamme accumula ben tre similitudini con animali (le formiche, le gru e il pesce), ma evita quelle che tutti si aspetterebbero con la salamandra e la fenice, che al fuoco erano immediatamente collegate.

La seconda è che questi animali-allegorie hanno spesso un significato ambivalente: il leone di Inf., I è un’immagine di rabbia e violenza, ma lo stesso animale è usato per nobilitare la figura di Sordello in Pg VI, che attende Dante e Virgilio silenzioso, limitandosi a guardarli «a guisa di leon quando si posa»; la similitudine con le colombe introduce i lussuriosi Paolo e Francesca, ma anche l’affettuoso saluto tra san Giacomo e san Pietro in Par., XXV è paragonato a quelli che si scambiano i colombi; il cane è usato spesso in similitudini degradanti (quella già ricordata con Ugolino su tutte), ma è anche il Veltro salvifico evocato da Virgilio nel I canto dell’Inferno; e così via.

Del resto, a fronte di esempi in cui il significato allegorico consolidato viene riproposto senza esitazioni, ve ne sono altri in cui Dante sembra chiedere al suo lettore un di più di attenzione. Se la rappresentazione della lupa, in Inf., I, non lascia dubbi sul fatto che la fiera simboleggi l’avidità, pare difficile ricondurre a un significato predeterminato anche la lonza e il leone: le ipotesi interpretative fondate su bestiari e affini non convincono appieno perché il testo di Dante rivela una ricchezza assai maggiore. La descrizione della lonza («pel macolato», «gaetta pelle») e il suo atteggiamento («leggiera», «presta molto», «’mpediva… il mio cammino») non ci inducono a considerarla un semplice equivalente del concetto di lussuria; la lonza rappresenta piuttosto le tentazioni dei sensi nel loro complesso, tutte le dolcezze che distolgono dalla retta via del bene e del vero. Così il leone, che non si limita a ostacolare Dante, ma gli si precipita addosso «con la test’alta e con rabbiosa fame», terrorizzandolo, non può essere tradotto univocamente in orgoglio, perché la rappresentazione dice di più – dice tutti i peccati legati alla violenza e alla sopraffazione e alla rabbia (nonché all’orgoglio, certamente).

Inf., XII, illustrazione Gustave Doré

5.

Queste ultime osservazioni ci costringono a rimettere in discussione almeno in parte quanto abbiamo osservato prima sul carattere non naturalistico delle descrizioni dantesche. Dante in realtà ha a disposizione uno strumento culturale che gli permette di andare oltre la schematicità dell’allegorismo, la contrapposizione binaria di derivazione biblica e l’erudizione libresca classicheggiante. E questo strumento è la creaturalità francescana, l’amore per tutti gli aspetti del creato, dagli astri agli elementi ai fenomeni atmosferici elencati nel Cantico delle creature, agli animali protagonisti di tanti episodi fra i più popolari della leggenda francescana.

In Francesco l’atteggiamento che chiamo creaturale nasceva innanzitutto da un’esigenza teologica: in polemica con le correnti ereticali che svalutavano la materia tout court, Francesco ribadisce la sostanziale bontà della realtà naturale, ordinata da Dio per la felicità dei suoi figli. Dante, come è noto, di questo Francesco non parla, nella Commedia: quando fa raccontare a Tommaso d’Aquino la biografia del santo (Par., XI), evita accuratamente sia ogni accenno alle sue opere, e in particolare al Cantico, sia gli aneddoti della sua biografia dove gli animali avevano un ruolo da protagonisti – la predica agli uccelli, il lupo di Gubbio, l’invenzione del presepe con bue e asinello e pecore sparse. Il racconto di Tommaso-Dante è tutto concentrato sulle mistiche nozze con la Povertà del “secondo Cristo” di Assisi. Ma questo silenzio è di per sé significativo, in quanto Dante si rivolge a un lettore che non poteva mancare di cogliere l’originalità del suo ritratto rispetto alla vulgata francescana.

Senza dubbio il progetto culturale dantesco è ben diverso da quello perseguito da Francesco un secolo prima: non si tratta più di riportare le frange dei potenziali esclusi nell’ambito dell’ortodossia; soprattutto nel Paradiso, Dante si rivolge a un pubblico colto, presso il quale è ormai egemonica la mentalità mercantile contro cui già Francesco aveva combattuto. La sua battaglia culturale non può servirsi di forme popolareggianti come la lauda, né di uno strumento linguistico come il volgare umbro. Non è un caso che, fra i tanti poeti che Dante richiama, il francescano Jacopone da Todi non venga mai preso nemmeno in considerazione. E tuttavia altri aspetti del francescanesimo sono ormai parte della visione del mondo che Dante condivide con i suoi lettori, e fra questi senza dubbio l’attenzione per i vari aspetti della realtà naturale, al cui studio proprio i filosofi francescani si erano dedicati.

Si spiegano dunque le molte similitudini che nascono effettivamente da un’osservazione minuta e analitica della realtà animale; e più in generale, mi sembra, il fatto che il discorso di Dante proceda spesso per similitudini: Dante pensa la realtà come un’immensa riserva di potenziali paragoni proprio perché alla base della sua visione del mondo c’è un principio francescano, e cioè l’idea che tutti gli aspetti della realtà siano significativi e degni di far parte del suo poema sacro, dalle bestemmie dei dannati alla preghiera di san Bernardo, dalle trombette dei diavoli alle lezioni astronomiche di Beatrice. In questo, e non solo nell’amore per la Povertà, Francesco si confermava alter Christus: se Gesù aveva espresso i suoi insegnamenti sotto forma di parabole, chiamando in causa granelli di senape, fichi, tranci di vite, nonché pecore e capri, l’autore della Commedia si sentiva autorizzato a spiegare Gerione (Inf., XVII) con il castoro e lo scorpione e l’anguilla e il falcone, ad assomigliare l’“ardente affetto” con cui Beatrice aspetta il trionfo di Cristo (Par., XXIII) a quello dell’«augello» che aspetta il sorgere del sole per mettersi alla ricerca del cibo con cui nutrire i «dolci nati».

E qui però dobbiamo fermarci, perché le similitudini dantesche meriterebbero un discorso a sé, che va ben oltre quello sugli animali.

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Alberto Cristofori

ha organizzato nel 2015 “Milano per Dante”, una lettura integrale della Commedia affidata a 100 esponenti della società civile milanese. È autore di manuali scolastici e traduttore. Ha pubblicato con Bompiani un romanzo e una raccolta di racconti, e dirige una casa editrice per bambini e ragazzi (Albe
Edizioni).

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