È più facile che i dispettosi siate voi

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Di fronte alla difficile definizione di un concetto complesso come quello di merito, il sistema d’istruzione tende a scegliere la comoda strada di una valutazione che rischia di impoverire i processi di insegnamento e apprendimento e di riprodurre le disuguaglianze esistenti. Dal numero 24 de La ricerca, “Nel merito”
Immagine: Archivio fotografico Indire

Cosa significa merito? Rispondere a questa domanda non è affatto facile. Secondo Amartya Sen1, come già ha ricordato chi mi ha preceduto su questo numero, tra le molte virtù che possono essere riconosciute all’idea di merito sicuramente non rientra la chiarezza. Come evidenziato in diversi lavori2, il termine si presta a molteplici interpretazioni, dato che in esso tendono a convergere, in maniera poco trasparente e spesso confusa, aspetti assai diversi tra loro e non facilmente definibili. Tra questi, vale la pena citare la competenza, l’intelligenza, la perseveranza, il talento, le difficoltà superate.

L’opacità del merito

A dispetto della sua opacità (o forse a causa di essa), il ricorso al termine, da sempre piuttosto frequente, è andato via via intensificandosi nel corso dell’ultimo quindicennio, ovvero nel lasso di tempo trascorso dalla grande crisi economico-finanziaria del 2007 al 2022, anno in cui il Ministero dell’Istruzione diventa dell’Istruzione e del Merito (MIM). Con la crisi, l’ulteriore contrazione di investimenti e opportunità si è accompagnata, nel discorso pubblico, all’urgenza di premiare individui e contesti meritevoli o eccellenti, in modo da evitare di sperperare preziose risorse. Si sono così consolidati, in campi come l’istruzione e la ricerca, meccanismi di rendicontazione e controllo della qualità del lavoro svolto da scuole e università, con lo sviluppo delle funzioni assegnate a INVALSI e ANVUR.

Pertanto, sebbene l’opacità del significato di “merito” nel corso di questi anni non si sia affatto attenuata, il fatto che la parola nel 2022 sia stata impiegata per definire il Ministero dell’Istruzione non appare affatto casuale. Infatti, i legami tra merito e educazione e, in particolare, tra merito, apprendimento e valutazione, giocano da sempre un ruolo rilevante nel ricorso al termine. Va considerato che in campo educativo assume una particolare importanza l’elemento che è impiegato più spesso per definire il merito, ovvero la performance, intesa come dimostrazione di capacità, abilità, padronanza e, dunque, avvenuto apprendimento. In parole povere, a misurare il merito in ambito scolastico e universitario sono sostanzialmente i voti, ovvero le sintesi ordinali (generalmente numeriche) che esprimono la valutazione delle conoscenze messe in mostra e consentono di stabilire una gerarchia all’interno di individui o contesti.

È vero che, considerato quanto evidenziato rispetto alla complessità del concetto di merito, il ricorso alla mera prestazione non può bastare a definire più o meno meritevole un individuo, dato che quella prestazione andrebbe associata alla storia personale, all’impegno profuso, alle difficoltà superate ecc. Tuttavia, la tendenza a schiacciare sulla valutazione della performance la definizione di merito ha indubbiamente i suoi vantaggi. In primo luogo, questa ipersemplificazione consente di risparmiare risorse cognitive. Infatti, prendere in considerazione altre dimensioni – come l’impegno profuso, le condizioni di partenza, le difficoltà incontrate – renderebbe molto più articolato il processo di valutazione. In secondo luogo, la definizione performativa di merito, presentandosi come chiara, immediata e oggettiva, consente di attribuire esclusivamente ai singoli individui le responsabilità di ineguaglianze3 che in realtà agiscono a livello più generale, finendo con l’assolvere il sistema sociale ed economico. D’altro canto, i numeri permettono di posizionare individui (il singolo studente) o contesti (la singola scuola nel ranking Eduscopio, il singolo dipartimento universitario nelle classifiche di eccellenza ANVUR) entro graduatorie percepite come oggettive e, dunque, indipendenti da altri fattori che non siano sotto il controllo degli individui e dei contesti sotto esame.

Merito e educazione

Don Lorenzo Milani e alcuni dei ragazzi di Barbiana.

L’identificazione “educativa” tra prestazione e merito, incentrata sul ricorso a una valutazione espressa numericamente, è un elemento centrale nella costruzione dell’ideologia meritocratica. Non è un caso che nel 1958 Michael Young, uno dei primi a usare il termine meritocrazia, assegni nel titolo originale del suo lavoro The Rise of the Meritocracy (1870-2033). An Essay on Education and Equality alla valutazione in ambito educativo un ruolo fondamentale nella costruzione di una società distopica (meritocrazia è un termine che nasce con un significato negativo). Nel testo, infatti, il merito trova una compiuta misura solo dopo che vengono applicati anche in campo sociale ed economico metodi di selezione impiegati dalle scuole, dove grazie all’uso dei test gli esami sono percepiti come oggettivi e dunque più affidabili delle vecchie forme di valutazione. Nella distopia di Young è dunque l’istruzione che impone un modello di accertamento selettivo alla società, e lo fa per mezzo di una definizione di merito incentrata su meccanismi di misurazione e valutazione che agiscono in ambito scolastico. Appena tre anni prima dell’uscita di The Rise of the Meritocracy, Aldo Visalberghi, in Misurazione e valutazione nel processo educativo, un saggio pubblicato presso Edizioni di Comunità (la casa editrice di Adriano Olivetti, la stessa che avrebbe tradotto, nel 1962, il lavoro di Young), mette in guardia da un uso dei test e della misurazione in ambito educativo mirante a «istituire una sorta di classismo o castalismo aggiornato»4. Più recentemente, le analisi empiriche condotte nel già citato lavoro di Benadusi e Giancola evidenziano come, mentre l’eguaglianza e il bisogno determinano cosa è giusto nelle relazioni docenti-studenti (attenzione e cura), il concetto di merito tende a stabilire cosa sia giusto e ingiusto in ambito valutativo.

La misurazione del rendimento scolastico è dunque considerata il fattore determinante, se non quello esclusivo, per stabilire chi è meritevole e chi no. Questo processo impedisce di pervenire a una valida ed equa definizione operativa del merito. Sul fronte della validità, come indicato, siamo di fronte a un’evidente ipersemplificazione, un tradimento della complessità e della multidimensionalità del merito. Dal punto di vista dell’iniquità, in una società caratterizzata da forti disuguaglianze, l’identificazione tra merito e livello degli apprendimenti tende inevitabilmente a premiare chi parte da una condizione privilegiata. La correlazione tra livello degli apprendimenti e stato socio-economico non è certo un fenomeno nuovo5 e rappresenta la dichiarazione di resa di un sistema che, di fronte alla difficoltà di rintracciare l’archè del merito, preferisce rifugiarsi nel kratos, finendo col legittimare le disuguaglianze esistenti per mezzo di una misurazione apparentemente oggettiva. Oggi come ieri non è difficile concordare con quanto rilevato dai ragazzi di Barbiana: «Voi dite d’aver bocciato i cretini e gli svogliati. Allora sostenete che Dio fa nascere i cretini e gli svogliati nelle case dei poveri. Ma Dio non fa questi dispetti ai poveri. È più facile che i dispettosi siate voi»6.

Merito e valutazione degli apprendimenti

In campo educativo, la scelta di valutare per stabilire il merito di individui e contesti imbroglia non poco un’operazione che è già ingarbugliata di suo. Va considerato infatti che valutare gli apprendimenti è un processo articolato, nel quale, non avendo a che fare con misure dirette, siamo costretti a cercare indizi svolgendo prove. Pertanto, la tendenza a complicare ulteriormente le cose per esprimere approssimativi giudizi moralistici sul merito di una studentessa o di uno studente può essere a buon diritto considerato uno dei disturbi specifici dell’insegnamento più diffusi.

La storia della docimologia riporta numerose testimonianze sulla difficoltà di pervenire a valutazioni valide e affidabili. Tra le più note, spicca senza dubbio la sintesi offerta nella prima età del Novecento da Henri Piéron sulle differenze nei voti assegnanti da membri delle commissioni degli esami di Stato in Francia. Il lavoro sottolineava come, per tutti gli ambiti disciplinari, membri diversi della commissione giungessero a esprimere sullo stesso e identico elaborato valutazioni tra loro estremamente distanti. Come sappiamo, tali scarti possono essere dovuti sia alla tendenza ad attribuire diverso valore allo stesso elemento della prestazione (un determinato errore di grammatica o di calcolo può essere considerato più o meno importante a seconda di chi valuta), sia alla propensione a cogliere con maggior frequenza un certo elemento (un determinato errore di grammatica o di calcolo ha maggiori possibilità di essere percepito e rilevato dal docente che attribuisce a esso maggiore importanza). Sappiamo che lo sguardo di chi misura e valuta è uno sguardo orientato e, in assenza di una chiara e trasparente esplicitazione dei criteri che guidano la rilevazione, il processo ha notevoli probabilità di risultare inaffidabile e, dunque, iniquo. Ma, come abbiamo sottolineato, nel merito di chiaro e trasparente v’è davvero ben poco. E allora non stupisce come nel corso degli anni la ricerca docimologica abbia prodotto una tassonomia di distorsioni, errori e dinamiche da tenere in debita considerazione nel processo valutativo. La classificazione riportata nella tabella seguente è proposta da Guido Benvenuto7 e restituisce elementi che si condizionano e si rafforzano tra di loro.

Una parte di questi elementi è legata alla tendenza a considerare naturali determinati risultati. Così, per anni s’è fatto ricorso alla biologia per rendere conto di prestazioni divergenti tra ragazzi e ragazze in matematica, scienze o lettura. Abbiamo ancora docenti che considerano “naturale” che le studentesse vadano peggio degli studenti in scienze o matematica. Eppure, sappiamo, dati comparabili alla mano8, che in determinati contesti le ragazze ai test OCSE-PISA e IEA-TIMSS non ottengono punteggi inferiori ai ragazzi (ma conservano un vantaggio significativo in lettura). È dunque assai probabile che siano elementi contestuali, fuori e dentro la scuola, a impedire il pieno sviluppo di potenzialità che negli esseri umani si presentano a prescindere dal genere, così come dal gruppo etnico o dalla classe sociale.

Più in generale, il problema è che, nelle questioni educative, il riferimento alla natura tende a essere più ideologico che descrittivo. Per esempio, dare per scontati certi risultati considerandoli naturali attiva meccanismi di legittimazione e di riproduzione e consente di estroflettere ogni responsabilità individuale e sistemica rispetto a essi. Non stupisce dunque che l’ideologia delle doti naturali9 rappresenti un ostacolo all’uguaglianza delle opportunità di apprendimento. In ambito scolastico e universitario, la valutazione troppo spesso agisce come dispositivo ideologico che maschera i rapporti di potere e finisce col consolidare – occultandole – dinamiche sessiste, classiste, razziste e abiliste. La valutazione riproduttiva si fonda e rafforza stereotipi diffusi tanto nell’opinione pubblica quanto nelle scuole e presenta l’indubbio vantaggio di sollevare chi insegna dalla fatica di mettere in discussione le proprie prassi didattiche. Questo processo, tuttavia, viene messo in crisi se la valutazione è incentrata non più su un’opaca e riproduttiva sintesi ordinale, ma su una trasparente descrizione dei punti di forza e di debolezza delle diverse prestazioni, volta non a stilare classifiche di merito ma a fornire concrete indicazioni di miglioramento10.

Merito e voti

Valutare è un’operazione difficile, e lo è ancor più se si hanno classi numerose e non si concepisce la valutazione come strategia utile per migliorare insegnamento e apprendimento, ma come incombenza burocratica da espletare o come strumento di controllo. In tal caso, piuttosto che prendersi la briga di restituire una descrizione dei punti di forza e di debolezza di una prestazione, assegnare un voto rappresenta un ottimo escamotage. D’altro canto, una sintesi ordinale è apparentemente autoevidente. È vero che di un 7 (o di un discreto) non sappiamo nulla di più che è più di un 6 (o un sufficiente) e meno di un 8 (o un buono), ma spesso nulla più è richiesto da quello studente o dalla sua famiglia.

Il voto, assegnato nel corso (valutazione in itinere) o al termine (valutazione sommativa) del processo di insegnamento, gioca un ruolo essenziale nella costruzione e nell’attuazione dell’ideologia meritocratica, che necessita di un elemento apparentemente oggettivo per legittimare le graduatorie di merito che produce. Così, dal punto di vista della valutazione sommativa, è sulla base dei voti ottenuti all’Esame di Stato che studentesse e studenti ottengono, in quanto meritevoli, l’esenzione dal pagamento delle tasse universitarie, ed è sulla base dei voti che, troppo spesso, si stabilisce se uno studente “merita” di essere orientato verso un liceo classico, un liceo scientifico o verso istituti ritenuti, più o meno esplicitamente, di ordine inferiore. Dal punto di vista della valutazione in itinere, tralasciando i casi più estremi (istituti che organizzano “feste del merito”, premiando i soggetti coi voti più alti; istituti nei quali solo chi ha una media elevata può partecipare a viaggi d’istruzione all’estero), è possibile registrare come, nonostante decenni di ricerca empirica abbiano dimostrato che la valutazione descrittiva, a differenza del voto, ha un’incidenza positiva sullo sviluppo degli apprendimenti11, sia spesso il ricorso al voto a farla da padrone. Non a caso, le scuole secondarie che non assegnano voti in itinere rappresentano un’eccezione tanto clamorosa da essere accolte col malcelato sospetto di violare la legge, e vengono spesso definite in negativo (scuole “senza voto”, talvolta “senza valutazione”) sebbene, in realtà, lavorando su una valutazione descrittiva in itinere, applicano una strategia coerente non solo con la ricerca pedagogica, ma anche con la normativa, che non prescrive alcun “congruo numero di voti” e impone (“Statuto delle studentesse e degli studenti”, 199812) una valutazione trasparente e tempestiva, volta ad attivare un processo di autovalutazione che conduca studentesse e studenti a individuare i propri punti di forza e di debolezza e a migliorare il proprio rendimento. Si segnala a tal proposito come, secondo l’indagine OCSE-TALIS13, la percentuale di docenti di scuola secondaria di primo grado che in Italia sostiene di ricorrere all’autovalutazione è inferiore al 30%.

Merito e valutazione degli istituti scolastici

I rapporti sin qui delineati tra merito e valutazione consentono di far emergere alcune caratteristiche proprie della valutazione meritocratica. Si tratta di caratteristiche che, come vedremo, si applicano tanto alla valutazione degli apprendimenti quanto a quella delle istituzioni scolastiche.

In primo luogo, la valutazione meritocratica è di tipo normativo e non criteriale. La valutazione normativa si basa sul confronto tra i risultati di individui e contesti con quelli ottenuti da un gruppo di riferimento (il resto della classe o la media di scuola se parliamo di apprendimenti, la media regionale o nazionale se parliamo del punteggio raggiunto da un istituto). La valutazione criteriale rende invece conto dei processi da sottoporre a valutazione per mezzo di livelli stabiliti a prescindere dal rendimento medio della popolazione. Un criterio viene infatti definito in base alle dimensioni da considerare nella valutazione di una prestazione (indicatori) e alle indicazioni che consentono di riconoscere tali dimensioni (descrittori), in modo da associare la prestazione a livelli di apprendimento.

In secondo luogo, la valutazione meritocratica tende a mascherare con l’impiego di indicatori numerici l’inaffidabilità dei riscontri che propone. Essa infatti, non essendo vincolata, a differenza della valutazione descrittiva, a un’esplicitazione criteriale degli esiti, è maggiormente soggetta all’incidenza delle distorsioni sopra richiamate. Una valutazione criteriale e descrittiva, in forza del carattere analitico e progressivo del riscontro che offre, se supportata da strumenti adatti (griglie, rubriche) per il controllo della soggettività dell’accertamento, perviene a livelli di affidabilità preclusi a quella normativa.

In terzo luogo, la valutazione meritocratica non offre indicazioni di miglioramento, ma mere informazioni sul posizionamento in una graduatoria di merito.

Queste tre caratteristiche accomunano l’approccio meritocratico alla valutazione degli apprendimenti a quello delle scuole. Le graduatorie Eduscopio della qualità delle scuole secondarie, stilate sulla base dei voti e dei crediti ottenuti in università, non offrono alcuna indicazione sui processi organizzativi e didattici che sarebbero accompagnati all’ottenimento di certe posizioni in classifica. D’altro canto, lo stesso indicatore di “Effetto scuola” elaborato da INVALSI, basato sul rendimento alle prove standardizzate nazionali, non esplicita alcuna associazione tra le caratteristiche di una scuola efficace e i punteggi ottenuti. Come evidenziato in un lavoro condotto in Puglia14, le scuole con i valori più elevati nell’indicatore tendono a risultare “selettive” delle altre. Il rischio, dunque, è che una simile valutazione individui non gli istituti migliori, ma quelli più esclusivi, presumibilmente perché spinge scuole e docenti a selezionare la popolazione studentesca per ottenere risultati migliori alle prove o per rientrare nel podio nelle classifiche Eduscopio.

D’altro canto, questa è probabilmente la caratteristica più preoccupante della valutazione meritocratica: essa tende ad avere un’incidenza negativa sui processi ai quali si applica. Non che si tratti di una novità. Sappiamo da decenni che studentesse e studenti15 oggetto di una valutazione meritocratica tendono a manifestare un peggioramento negli apprendimenti e nella motivazione ad apprendere. E da tempo Campbell16 aveva ammonito sulle conseguenze negative sul piano della qualità dei processi di insegnamento e apprendimento di una accountability test based per scuole e docenti.

Se si è deciso di riproporre un simile approccio nella declinazione del merito non è dunque per mancanza di conoscenze sui suoi esiti, ma perché una simile valutazione, oltre a costare minore fatica, non comporta alcuna messa in discussione dello stato di cose esistente: in effetti, è più facile che i dispettosi siate voi.


NOTE

  1. A. Sen, Merit and Justice, in K.J. Arrow, S. Bowles, S. N. Durlauf (a cura di), Meritocracy and Economic Inequality, Princeton University Press, Princeton 2000
  2. Vedi, tra gli altri, L. Benadusi, O. Giancola, Equità e merito. Teorie, indagini empiriche, politiche, FrancoAngeli, Milano 2021; C. Xodo, Merito, meritocrazia e pedagogia, in «STUDIUM EDUCATIONIS», XVIII (1), 2017, pp. 10-36.
  3. S. Cingari, La meritocrazia, Ediesse, Roma 2020.
  4. A. Visalberghi, Misurazione e valutazione nel processo educativo, Edizioni di Comunità, Milano 1955, p. 12.
  5. Insieme hanno scritto La reproduction. Eléments pour une théorie du système d’enseignement, del 1970, edizione italiana La riproduzione, sistemi di insegnamento e ordine culturale, Guaraldi, Rimini 1972.
  6. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, LEF, Firenze 1967, p. 53.
  7. G. Benvenuto, Mettere i voti a scuola, Carocci, Roma 2003.
  8. Eurydice, Differenze di genere nei risultati educativi: studio sulle misure attuate e sulla situazione attuale in Europa, 2013. https://eurydice.indire.it/wp-content/uploads/2017/06/Gender_IT.pdf (ultimo accesso: 01/03/2020)
  9. A. Ciani, L’insegnante democratico. Una ricerca empirica sulle convinzioni degli studenti di Scienze della Formazione Primaria dell’Università di Bologna, FrancoAngeli, Milano 2019.
  10. C. Corsini, La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto, FrancoAngeli, Milano, 2023.
  11. B. Wisniewski, K. Zierer, J. Hattie, The power of feedback revisited: A meta-analysis of educational feedback research, in «Frontiers in Psychology», 10 (22), 2020.
  12. Consultabile all’indirizzo https://bit.ly/statuto1998.
  13. Consultabile all’indirizzo https://www.oecd.org/education/talis/TALIS2018_CN_ITA_it.pdf.
  14. L. Perla, V. Vinci, P. Soleti, L’impatto delle variabili didattiche e organizzative sull’Effetto-Scuola INVALSI: le risultanze pugliesi, in «Giornale Italiano della Ricerca Educativa», XIV, 26, 2021, pp. 67-87.
  15. Cfr., tra gli altri, C. Ames, Classroom: Goals, structures and student motivation, in «Journal of Educational Psychology», 84, 1992, pp. 261-271.
  16. D. T. Campbell, Assessing the impact of planned social change, in «Evaluation and Program Planning», 2, 1979, pp. 67-90.
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Cristiano Corsini

è professore ordinario di Pedagogia sperimentale all’Università Roma Tre. Si occupa di valutazione in campo educativo e di indagini nazionali e internazionali sull’efficacia e sull’equità di scuole e sistemi d’istruzione. Tra i suoi lavori: “La valutazione che educa” (2022, in pubblicazione), “Evaluating educational quality” (2021, con C. Tienken e M. Tomarchio ), “Valutare scuole e docenti” (2015), “Il valore aggiunto in educazione” (2009).

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