Dov’è la Vittoria? Le porga… la statua

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Da un paio d’anni la Vittoria alata di Brescia – statua notissima, amata tra gli altri da Carducci e D’Annunzio – era in restauro presso l’Opificio delle pietre dure di Firenze. Ora il monumento bronzeo, “rimesso a nuovo”, è stato collocato all’interno del locale Capitolium in un allestimento suggestivo, realizzato dall’architetto spagnolo Juan Navarro Baldeweg, in cui la scultura emerge in tutta la sua magnificenza.
La Vittoria alata di Brescia, Fotostudio Rapuzzi.

La presentazione al pubblico è fissata per il 16 gennaio 2021, ma è davvero impossibile ipotizzare oggi quando avverrà la riapertura degli spazi museali italiani a causa dell’emergenza Covid19. Ne scriverò adeguatamente, spero, quando potrò rivederla di persona: per aggiornamenti (e non solo) invito comunque i lettori alla consultazione del sito vittorialatabrescia.it, che ricorda anche numerose iniziative collaterali che la città lombarda ha programmato per celebrare l’evento.

L’occasione mi consente però di fare qualche considerazione sul culto della Vittoria in età romana, che – come si può immaginare – era carico di forti valenze ideologiche. Comincerò la mia riflessione da un’epoca tarda, quando tale divinità non godeva più del favore collettivo; e in particolare dalla celebre querelle che ha visto nel 384 d.C. il senatore pagano Simmaco e il vescovo cristiano Ambrogio “duellare” sulla legittimità o meno della rimozione di una statua e di un altare dedicati alla dea Vittoria e custoditi nel senato di una Roma ormai cristianizzata. E da lì à rebours arriverò a parlare anche delle straordinarie storie di due altre antiche statue della Vittoria (una è proprio quella bresciana), per fortuna giunte fino a noi, al contrario di quella oggetto della disputa senatoria. Ma cominciamo proprio da Roma.

La Curia Iulia, Foro Romano

Nel senato di Roma: statua e altare della Vittoria

Nella Curia Iulia di Roma, venerabile sede del senato, venivano conservate due importanti (e complementari) simboli dei destini dell’impero: si trattava di una statua e di un altare dedicati alla dea Vittoria. Si può ben capire come questa divinità (versione romana della Nike greca) fosse la personificazione di un concetto politico-militare di grande rilevanza per l’imperialismo romano. Tra l’altro era stato proprio Ottaviano Augusto (anch’egli divinizzato post mortem) a collocare lì la statua nel 29 a.C., proprio per celebrare la “sua” vittoria su Antonio e Cleopatra (ad Azio, nel 31 a.C.); e, secondo Cassio Dione (Storia romana, 51, 22, 1-2), non scelse un oggetto qualunque, ma un prezioso trofeo di guerra sottratto ai Tarentini nel 272 a.C. al tempo della vittoria romana contro Pirro. Dunque una Vittoria (con la V maiuscola) per celebrare vittorie (con la v minuscola) passate e presenti.

Sull’altare, collocato ai piedi della statua, i senatori offrivano sacrifici e giuravano fedeltà agli imperatori; anche a quelli megalomani come Eliogabalo, che nel 218 d.C. cercò di oscurare la Vittoria con un enorme quadro che lo raffigurava nell’atto di fare libagioni alla divinità solare siriaca di cui era sacerdote (Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, 5, 5, 6-7).

384 d.C.: la disputa tra Simmaco e Ambrogio

Con l’avvento del cristianesimo, però, statua e altare ebbero vita difficile. Infatti furono rimossi da Costanzo (357 d.C.), ripristinati da Giuliano l’Apostata (361-363 d.C.), fatti portar via nuovamente da Graziano nel 382 d.C.

Rilievo eburneo con possibile ritratto di Simmaco, British Museum, Londra

Nel 384 d.C., al tempo di Valentiniano II (Augusto d’Occidente) e Teodosio (Augusto d’Oriente), scaturì una vivace polemica sulla possibilità di un ripristino di quei simboli pagani; ripristino invero difficile, dopo l’Editto di Tessalonica (380 d.C.) che, di fatto, aveva fatto del cristianesimo l’unica religione di Stato.
Ma il senato, organo conservatore, contava ancora numerosi pagani, tra i quali il nobile Quinto Aurelio Simmaco, potente prefetto della città.
E fu proprio Simmaco a scrivere a Valentiniano II per convincerlo a tale gesto, immaginando che fosse la stessa Roma, personificata, a chiederlo con queste parole:

Ora, se Roma stessa fosse qui accanto a noi, con queste parole, certo essa vi invocherebbe: «Ottimi príncipi, padri della patria, portate riverenza alla tarda età, alla quale son pervenuta grazie all’osservanza dei santi riti! Consentite ch’io continui a praticare il culto avito: culto, di cui non ho a pentirmi! Fate che continui a vivere libera, nel rispetto delle mie tradizioni e delle istituzioni religiose che mi detti! È grazie ad esse che ridussi l’orbe terrestre sotto le mie leggi, che ricacciai Annibale dalle mie mura, i Senoni dal Campidoglio». (Relatio de ara Victoriae, 9; trad. F. Canfora).

Il vescovo di Milano Ambrogio, con alcune lettere rivolte allo stesso Valentiniano, replicò con fermezza all’ipotesi di Simmaco, rifiutando l’idea che un imperatore cristiano dovesse onorare un’ara pagana, dopo le enormi sofferenze che i pagani avevano provocato ai seguaci di Cristo.
Scrisse infatti:

Un imperatore cristiano non può onorare che l’altare di Cristo. Perché vogliono costringere mani pie e labbra fedeli a porsi a servizio dei loro sacrileghi culti? La voce del nostro imperatore faccia risuonare solo il nome di Cristo, pronunzi solo il nome di colui in cui egli crede; per ciò ch’è «il cuore del re nella mano di Dio». Vi sono forse imperatori pagani che hanno innalzato altari a Cristo? Proprio nel loro chiedere che si torni alle passate usanze indicano i gentili, col loro stesso esempio, agli imperatori cristiani quanta riverenza debbano avere solo per la propria religione; dal momento ch’essi l’ebbero solo per i loro culti superstiziosi. (Epistulae, 18, 10, trad. F. Canfora).

Ambrogio affermava inoltre l’inutilità di mantenere fede alle tradizioni patrie, al mos maiorum, poiché l’avvento del cristianesimo rappresentava un’inevitabile, positiva, evoluzione nella storia dell’uomo alla ricerca della propria realizzazione e della verità assoluta.

La ragioni di Simmaco non furono ascoltate, né allora né in seguito, tant’è che nel 392 d.C. i culti pagani vennero addirittura messi fuori legge. Inoltre, seppur dopo qualche tentennamento, sappiamo della definitiva distruzione dell’altare e della statua nei primi anni del secolo successivo.

Tra religione, politica, ideologia

Il trionfo del futuro santo non fu solo di natura religiosa, ma si può inserire in una più vasta operazione teologico-politica – recepita dall’autorità imperiale – di cui lui fu uno dei più lucidi “ideologi”. Il cristianesimo, infatti, aveva a suo avviso dentro di sé quegli elementi di novità, di freschezza, moralità che – soli – potevano provare a salvare un impero da tempo in gravissima crisi (politico-militare, socio-economica, demografica, valoriale…).
Il filosofo Massimo Cacciari sintetizza così il pensiero di Ambrogio e degli imperatori cristiani:

Roma… è davvero decrepita, e con lei sono destinati a morte tutti i suoi ciechi fedeli. Solo la novitas cristiana può salvarla. Se Simmaco vincesse, se avesse vinto Giuliano, Roma sarebbe perduta. L’unica via cristiana è anche l’unica via per la salvezza dell’Urbe. L’imperatore deve riconoscerlo e trarne le sue conseguenze, spietatamente, come chirurgo che asporta un membro in cancrena. Se Roma vincerà, sarà soltanto e per grazia del Segno cristiano. (M. Cacciari, I. Dionigi, A. Traina, a cura di, La maschera della tolleranza. Ambrogio, Epistole 17 e 18, Simmaco, Terza relazione, BUR, Milano 2006).

In realtà l’impero d’Occidente non resisterà ancora a lungo, neppure sotto la protezione della croce di Cristo, poiché cadde «senza rumore» – come ha scritto il grande storico Arnaldo Momigliano – nel 476 d.C.; e più che altro, il connubio strettissimo tra cristianesimo e impero prefigurò scenari che condizioneranno l’età medievale.
Insomma, la rimozione e la distruzione di statue e altari e l’impedimento al povero Simmaco di praticare i culti aviti si sono rivelati atti dalle conseguenze assai rilevanti per la storia dell’Occidente, meno per quella dell’istituzione imperiale che li aveva promossi.

Tempio Capitolino di Brescia, Fotostudio Rapuzzi

La Vittoria alata di Brescia

A proposito della dea Vittoria, farò ora un breve cenno a due statue bronzee che hanno invece – pur con peripezie incredibili, talora rocambolesche – attraversato la Storia (con la S maiuscola) e sono giunte fino a noi.

Vittoria alata nel Capitolium di Brescia dopo il restauro. Fotostudio Rapuzzi

La prima è quella bresciana, alta quasi due metri, con la quale ho aperto questo articolo: fu trovata nel 1826, insieme ad altri oggetti metallici accuratamente nascosti in epoca tardo-antica per evitare le razzie dei barbari invasori. Ne parlerò più diffusamente – come promesso – quando la rivedrò nel Capitolium, dopo averla incontrata più volte in passato al Museo di Santa Giulia.
Posso però anticipare che dalle più recenti indagini svanisce l’ipotesi proposta qualche tempo fa che si tratti in realtà di un’Afrodite di produzione greca, “taroccata” con l’aggiunta delle ali in occasione della vittoria di Vespasiano su Vitellio nel 69 d.C. La figura, infatti, sembra avere avuto le ali fin dalla sua origine (metà del I sec. d.C.) ed essere pertanto nata già come Vittoria.
Non sappiamo quale evento celebrasse, ma non vi è dubbio che le spettasse un posto di rilievo nella Brixia del tempo, collocata forse nel Campidoglio eretto da Vespasiano, o nel teatro, oppure nel foro.

La Vittoria di Calvatone, Museo Ermitage, San Pietroburgo

La Vittoria da Calvatone a… San Pietroburgo

La seconda Vittoria di cui voglio parlare venne trovata nel 1836 lungo il corso dell’antica via Postumia a Calvatone1 – l’antica Bedriacum, oggi in provincia di Cremona –, proprio dove gli ufficiali di Vespasiano sconfissero Vitellio nella battaglia del 69 d.C. cui ho appena accennato.

Possibile, dunque, che si tratti davvero di un oggetto celebrativo di quell’evento vittorioso, svoltosi mentre il contumace quanto prudente Vespasiano indugiava ancora in Oriente dopo l’acclamazione imperatoria. Tra l’altro, la Vittoria era divinità assai cara a questo principe, come attesta l’iconografia di molte monete fatte da lui coniare.

Asse di Vespasiano, che reca sul verso la Vittoria

Anche in questo caso, la statua ha avuto vicende incredibili. Fu infatti acquistata nel 1841 dai Musei di Berlino, e lì venne restaurata. Scomparve però durante la Seconda guerra mondiale, e si pensava che fosse poi giunta a Mosca (in particolare al Museo Pushkin, dove si conserva il Tesoro di Priamo) dopo essere stata predata dall’Armata Rossa: ma al Pushkin se ne conserva in realtà solo una copia.
Nel 2016, però, c’è stato il “colpo di scena”, con il suo ritrovamento in un magazzino dell’Ermitage di San Pietroburgo, dove era stata riposta già nel lontano 1946, erroneamente catalogata come scultura francese del Seicento: «ecco il giudicio uman come spesso erra», avrebbe detto l’Ariosto!

Nike di Samotracia, Museo del Louvre, Parigi

Le statue e la Storia che riemerge

Una Vittoria romana occultata ai barbari predatori, un’altra creduta opera del XVII secolo… storie avventurose, al pari di quella della loro “sorella maggiore”, cioè la Nike di Samotracia del Louvre, che sparì per secoli, dopo l’antica permanenza nel Santuario dei Grandi dei di Samotracia. Fu poi ritrovata – assai malconcia – in Turchia nel 1861, trasferita a Parigi e quindi collocata al Louvre, sede dalla quale fu temporaneamente rimossa solo durante la Seconda guerra mondiale, per preservarla da bombe o razzie.

Le statue dunque scompaiono e poi spesso riemergono, e con loro la Storia che esse esprimono. E della Storia e dei suoi documenti abbiamo sempre bisogno: pertanto noi moderni malediciamo la damnatio memoriae che ha colpito alcuni imperatori romani, privandoci dei loro ritratti e delle loro epigrafi.

Insomma, a me le statue piacciono, e a costo di dar torto ad Ambrogio, venerando e dottissimo patrono della mia città natale (delle cui reliquie ho pure scritto con commozione su queste colonne), ai tempi della disputa mi sarei schierato con Simmaco, chiedendo che l’altare e la statua della Vittoria fossero mantenuti in loco. Ma Voltaire non era ancora nato, e per l’idea di tolleranza si doveva aspettare ancora qualche secolo; per vedere la statua di Brescia, spero, invece di dover aspettare molto, molto meno!


NOTA

1. La “Vittoria di Calvatone” mi porta a menzionare gli scavi da anni qui condotti dagli archeologi dell’Università degli studi di Milano: utile la consultazione di questo portale, a cura di Lilia Palmieri, dove si illustra il “Progetto Calvatone” e dove sono reperibili anche ulteriori notizie sulla nostra statua. Calvatone, per chi scrive, si identifica però con una persona, e cioè Maria Teresa Grassi, docente di Archeologia delle Province Romane alla “Statale” e responsabile per anni degli Scavi di Bedriacum, oltre che della Missione italo-siriana di Palmira. Maria Teresa – che conoscevo da quarant’anni, cioè dai tempi dell’Università – è purtroppo precocemente scomparsa il 25 gennaio 2020, annus horribilis anche per questo: dedico pertanto alla sua memoria questo modestissimo articolo.

L’archeologa Maria Teresa Grassi, recentemente scomparsa
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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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