Dieci proposte per la scuola che verrà

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Trasvalutazione semiseria dei 10 comandamenti della scuola italiana.

 

I. Non avrai altro Professore al di fuori di me

Il docente è la vera fonte del sapere. Imparare significa ascoltare ciò che Lui dice e ripeterlo.

La centralità del docente è il baluardo inamovibile della scuola italiana, fondata stabilmente sul modello “trasmissivo” del sapere. Nel lessico scolastico italiano la parola più utilizzata è “spiegare”: l’insegnante entra in classe e “spiega” e ciò viene percepito come prassi normale, mentre è un approccio superato nella maggior parte del mondo occidentale, dove prevale una dimensione più laboratoriale e partecipativa del processo di apprendimento. La centralità dello studente, cuore della pedagogia attivistica da oltre due secoli, è nella sostanza ancora negletta nell’ordinamento italiano.

Pensiamo (con Perrenoud) a un docente “allenatore” che “resta per principio fuori dal gioco”, il coordinatore (non il dominus) di un processo di apprendimento che riesca a integrare virtuosamente le conoscenze disciplinari con situazioni-problema percepite autentiche e quindi significative.

II. Non nominare il nome di Hegel e Manzoni invano

Gli “Autori” sono il vero contenuto dell’insegnamento di ogni disciplina umanistica. Essi riassumono “la storia della civiltà” e quindi rappresentano il canone culturale ufficiale. Bisogna conoscere la loro vita e il loro sapere in pillole. Così è sempre stato e sempre sarà.

Sacralità degli auctores quindi, ma il discorso potrebbe estendersi all’autoreferenzialità dei “contenuti” in ogni disciplina scolastica. Il valore cognitivo e culturale delle scienze è spesso soffocato da una valanga di conoscenze e procedure scisse da un orizzonte problematico che conferisca senso e (quindi) passione allo studio.

Noi chiediamo che le “due culture” in Italia comincino finalmente a dialogare, che gli studia humanitatis smettano di essere un pantheon che raccoglie le autorità del passato, per mettersi in comunicazione con altre culture e con le forme espressive del presente. Le scienze fisico-matematiche-naturali a loro volta devono superare un ristretto orizzonte tecnicistico ed enciclopedico per mostrare pienamente la loro dimensione cognitiva e culturale, nonché il loro valore d’uso in ambito tecnologico e sociale.

III. Ricordati di santificare il Programma

Per ciascuna disciplina e per ciascun anno scolastico, vi è un (immutabile) elenco di argomenti che vanno “svolti” in classe entro i primi giorni di giugno. I consigli di classe durante l’anno devono verificare “a che punto” è il loro “svolgimento” e in quella sede gli insegnanti comunicano se sono “in pari” con il programma.

Nonostante dal 2012 siano scomparsi i “programmi ministeriali” (sostituiti da “Indicazioni nazionali” orientate su traguardi formativi generali), gli insegnanti si ostinano a concepire il curricolo come un capitolato oneroso di argomenti da portare a termine a qualsiasi costo. Sull’altare del programma vengono così sacrificati i processi d’apprendimento e l’interazione con/tra gli studenti, l’approfondimento dei problemi, l’esercizio calibrato sul linguaggio delle discipline.

La scuola italiana deve superare in fretta la visione cumulativa del sapere e il correlato impianto trasmissivo dell’insegnamento su cui si fonda; per orientarsi verso una progettazione didattica centrata sui processi di apprendimento degli studenti e sulla trasformazione delle conoscenze-procedure disciplinari in saper fare e saper essere spendibili nei diversi contesti della futura vita sociale e professionale.

IV. Onora il tuo Libro di testo

La verità si trova in un manuale, che l’insegnante deve necessariamente adottare e lo studente deve comprare e portare a scuola ogni mattina nel proprio zaino. Tale oggetto, anche laddove dovesse rimanere chiuso tutto l’anno, ha un’incontestabile capacità di trasmettere allo studente “il sapere ufficiale”.

La crisi del libro scolastico si inquadra sistemicamente nel declino degli altri capisaldi della scuola italiana (la centralità del docente, il primato degli autori/conoscenze, il programma come mero palinsesto di contenuti). Il libro di testo, non conoscendo il fascino problematico di un saggio o la suspence accattivante del romanzo, rischia spesso di apparire agli studenti come un contenitore di conoscenze scarsamente significative, un compagno di viaggio ingombrante nella mente e nello zaino. L’importante vocazione didattica del libro va quindi ripensata in una scuola più aperta alla dimensione problematica e culturale dei saperi e in un ambiente di apprendimento più dinamico, flessibile e partecipativo.

Le case editrici sensibili a questo nuovo orizzonte dell’insegnamento e alla rivoluzione tecnologica in atto dovranno indirizzarsi verso testi che coniugano efficacemente rigore scientifico e attenzione per i problemi culturali e le competenze degli studenti, diventando, nello stesso tempo, aziende culturali multitasking, capaci di trovare una mediazione virtuosa tra il testo scolastico e le risorse didattiche offerte dalle piattaforme digitali.

V. Non desiderare troppo alcune materie

La possibilità di scegliere quali materie scolastiche studiare, costruendo così il proprio personale curriculum, è assolutamente esclusa. Lo studente deve portare avanti contemporaneamente una dozzina di discipline. Il grosso delle “verifiche” si svolge per lo più nello stesso periodo per tutte le materie, a ridosso della fine dei due quadrimestri. L’ingorgo di impegni sofferto dagli studenti è un sacrificio necessario, a cui ci siamo piegati tutti e che sempre ci sarà. Amen.

La scuola secondaria italiana è afflitta da un format generalista che è nemico dell’approfondimento e della sedimentazione consapevole delle conoscenze. Il volume di informazioni prevale sulla qualità dell’apprendimento, la vita scolastica si risolve, dopo un breve periodo a inizio scuola di “strana guerra” o calma priva di impegni, nella corsa affannosa a “finire” il programma ed acquisire tutti i voti previo “congruo numero di verifiche”.

Di fronte a questo scenario si prospettano due strade alternative:

  1. Superare l’impianto generalista della scuola italiana riducendo drasticamente il numero di discipline scolastiche e rendendo possibile (sul modello anglosassone) l’opzionalità per alcune materie.
  2. Non portare più avanti in parallelo tutte le discipline da settembre a giugno, sostituendo il format tradizionale con una full immersion per blocchi di materie, mantenendo fisse le discipline d’indirizzo, e ruotando le altre nel corso dell’anno scolastico.

Ma, a monte rispetto queste due opzioni, vi deve essere un cambio di paradigma nel concepire il curricolo scolastico, promuovendo una radicale semplificazione-essenzializzazione dei programmi scolastici imperniata sui “nuclei fondanti” delle discipline e sulla centralità dei processi di apprendimento.

VI. Non commettere atti (di condotta) impuri

L’insegnante ha il compito di sorvegliare costantemente il discente (pena la “culpa in vigilando”) e di valutare l’integrità della sua condotta scolastica-morale. Il voto di condotta deve essere deciso collegialmente da tutti i componenti del consiglio di classe, che dedicheranno a tale questione cruciale (sic) i quattro quinti del tempo a disposizione per lo scrutinio finale.

Il voto di “condotta” è uno dei cascami ideologici più resistenti della scuola gentiliana. Dopo aver perso gradualmente valore pedagogico e docimologico in età repubblicana, è tornato in auge con la riforma Gelmini del 2008 all’insegna del motto “legge-ordine-grembiuli-divise nelle scuole” e fa media esattamente come le altre materie. Elenchiamo di seguito le contraddizioni in cui si avvita la valutazione della condotta nella scuola italiana:

  1. Non è mai esistito uno studente “bravo a scuola” che contemporaneamente difetta nel “comportamento” (e se esiste… è solo da ammirare): ergo il “voto di condotta” è un semplice doppione della valutazione curricolare, privo però di una reale consistenza docimologica.
  2. Non esistendo una tassonomia credibile per la misurazione della condotta, il voto viene dato “a spanne” e oscilla tra l’8 e il 10, premiando studenti dormienti (ma che “non disturbano”) e alzando la media a studenti “mediocri” (che ringraziano!).
  3. Il voto di condotta, anche quando è severo, non funziona come deterrente e si limita a rispecchiare un profilo scolastico “scadente” (vedi punto 1).

Noi pensiamo, sopra ogni altra considerazione, che il voto di condotta sia uno degli architravi obsoleti su cui poggia la scuola italiana, con gli studenti (anzi “alunni”) relegati ancora a terminale diligente della lezione “impartita” dal docente, per questo sempre passibili di sanzione se riottosi di fronte alla “disciplina” (polisemia non casuale di “materia scolastica” e “ordine” pubblico).

Il “Patto Educativo di Corresponsabilità” e il collegato Regolamento d’Istituto (2008) non rappresentano un progetto di riforma che promuove l’autonomia e l’iniziativa degli studenti, ma una sorta di burocratico codice civile che impegna giuridicamente le “parti sociali”, quanto più lontano dal profilo culturale, pedagogico e dialogico di una scuola democratica.

Per questo insieme di ragioni noi chiediamo l’abolizione del “voto di condotta” e la sua eventuale sostituzione con un giudizio sintetico sul profilo culturale e le “competenze sociali” dimostrate dallo studente nelle diverse fasi del suo percorso scolastico.

VII. Ricordati di fare i compiti a casa

L’alunno deve seguire diligentemente le spiegazioni a scuola e poi eseguire il lavoro domestico, svolgendo con cura i compiti assegnati dall’insegnante.

Il tema dei “compiti per casa” è uno dei nodi più controversi e discussi nella scuola italiana e investe due criticità (l’una pedagogica, l’altra organizzativa) già toccate nei primi “comandamenti”.

Quella pedagogica. La scuola pensa l’apprendimento sostanzialmente come riproduzione fedele dei contenuti didattici presentati in classe: quindi l’allievo deve esercitarsi a casa per essere pronto a certificare la corretta assimilazione delle conoscenze apprese. Ma il combinato disposto lezione-ripetizione, la serialità routinaria del “compito” come adempimento burocratico, sono nemici del lavoro intellettuale, che è fatto (anche) di curiosità, creatività, pensiero divergente: tendono quindi a spegnere le intelligenze, non ad attivarle-stimolarle in vista di un obiettivo cognitivo gratificante.

Il vulnus didattico-pedagogico fa tutt’uno con quello organizzativo. Il format scolastico mattutino scandito da 5-7 moduli orari consecutivi di lezione frontale in classe non è un ambiente di lavoro e apprendimento efficace, tanto più se abbinato a un pomeriggio di ripetizione-consolidamento in solitaria dell’appreso.

Va quindi sovvertito lo schema didattico tradizionale, basato sulla sequenza lezione in presenza-ripetizione a casa-verifica in presenza: la lezione-trasmissiva può essere comodamente spostata in asincrono grazie alle piattaforme digitali (ampiamente sperimentate durante il lockdown) e i momenti in presenza possono essere utilizzati per esercizi e approfondimenti in plenaria, oltre che per le verifiche, laddove sia opportuno il loro svolgimento in sincrono.

La formula della flipped classroom acquisirebbe finalmente cittadinanza ufficiale nella scuola italiana, accompagnata da momenti seminariali e di confronto a piccoli gruppi in Rete, mentre la didattica in presenza cesserebbe di identificarsi con il rituale e massivo orario scolastico scandito dalla campanella (!) e diventerebbe un momento d’incontro, finalizzato a obiettivi di apprendimento specifici (anche al di fuori delle “quattro mura scolastiche”, in biblioteche, musei, visite storico-culturali).

VIII. Non collegare le diverse materie scolastiche

La scuola insegna i rudimenti delle singole discipline, che hanno oggetti diversi e formano (separatamente) l’enciclopedia del sapere. Ogni cittadino deve avere un’infarinatura di cultura generale e specializzarsi in un settore del sapere che corrisponde a una specifica professione.

La necessaria specializzazione tecnologica e scientifica è in realtà tradita dall’impianto enciclopedico della scuola italiana, che non incoraggia le vocazioni culturali ed è incapace di orientare efficacemente alla scelta universitaria e professionale (cfr. V comandamento).

Ma l’assetto generalista dell’istruzione è anche nemico di un collegamento concettuale e metodologico tra le diverse discipline. La vexata quaestio dell’interdisciplinarietà vede quest’ultima sempre al palo, ritualmente invocata da pedagogisti e ministeriali, mai seriamente cercata, perché richiederebbe un cambio di paradigma epistemologico e didattico che nessuno veramente vuole attuare. E come chiedere ai poveri insegnanti di fermarsi a riflettere e dialogare criticamente sullo statuto delle proprie discipline, se i “programmi” devono essere svolti, acquisiti i voti ecc.?!

IX. Non perdere tempo nei laboratori

La scuola insegna le conoscenze, che rappresentano la base nella scala del sapere e precedono qualsiasi attività di rielaborazione e applicazione ai problemi reali.

La scuola italiana è dominata da una “santa alleanza” idealista-positivista che mette ai margini la sfera del saper fare, visto come dimensione dell’apprendimento residuale, attivabile solo dopo aver acquisito le conoscenze di base (know that). La pedagogia delle competenze insiste al contrario sul primato del problem solving come strada privilegiata per un’acquisizione critica e significativa delle conoscenze. La dimensione dell’azione e il confronto con i compiti di realtà non è un’appendice marginale della didattica, ma il cuore pulsante del processo di apprendimento.

Questo rovesciamento di prospettiva porta ovviamente con sé la rivisitazione profonda del curricolo tradizionale, la forma organizzativa della lezione, il concetto e le forme della valutazione.

X. Non uscire senza permesso dalla tua classe

La scuola è divisa per classi di coscritti, gli allievi vengono assegnati alle rispettive aule e ognuno al suo banco, da cui può muoversi solo previo permesso. La posizione dell’alunno nell’aula è definita da una mappa cartografica posizionata sulla cattedra.

L’assetto topologico dell’aula scolastica è figlia della tradizione gesuitica e poi napoleonica dell’ordinamento italiano, una struttura finalizzata in prima istanza al controllo e alla disciplina dei corpi prima dell’insegnamento vero e proprio. Quanto di più lontano dal concetto e dalla prassi pedagogica di una società democratica, dove lo studente non è il terminale passivo dell’istruzione, ma un soggetto che impara a essere responsabile perché attivo e partecipe nei processi di apprendimento.

La classe dei coscritti non può essere più il format esclusivo di una scuola che premia l’iniziativa e la scelta individuali, la differenziazione dei percorsi di studio, la flessibilità nelle forme organizzative dei tempi e spazi di apprendimento. L’aula fisica con la predella sotto la cattedra, i suoi banchi allineati e gli alunni fissi sul posto «come farfalle infilate in uno spillo» (M. Montessori) è la struttura più anacronistica della scuola italiana, nemica di una didattica laboratoriale che valorizza l’interazione e cooperazione tra studenti e la dimensione “organizzativa”, oltre che scientifica, in cui si esprime il ruolo del docente.

Conclusione

La “Tavola della Legge” su cui si regge (ancora) la scuola italiana deve essere archiviata e sostituita (al più presto) da una Carta Costituente Scolastica che fissi nuovi principi di giustizia didattica e orienti i legislatori in una riforma complessiva dell’ordinamento scolastico.

Per questo motivo e in riferimento a quanto scritto nei punti I-X chiediamo la convocazione immediata degli Stati Generali (!) dell’Istruzione: da essi il Parlamento e il Governo trarranno ispirazione per quella riforma di sistema della scuola italiana da tanti anni attesa, e che sicuramente verrà attuata nell’ultimo scorcio di questa legislatura.


Letto, approvato e sottoscritto

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Dario Siess

È docente e Presidente dell’associazione “Filosofi per Caso”.

Matteo Nascè

È docente e membro dell’associazione “Filosofi per Caso”.

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