Da cosa si vede se una scuola è democratica?
Diversamente dai miei genitori, non ho avuto la ventura di sperimentare sulla mia pelle il passaggio da un regime totalitario a una democrazia, dalla monarchia alla repubblica, dalla guerra alla pace. Non ho provato le bacchettate sulle mani, né le punizioni severissime impartite dagli adulti, non ho dovuto scegliere, a undici anni, tra avviamento professionale o lavoro – subito, senza perdere ulteriore tempo –, e non sono stato costretto a scappare ripetutamente dal collegio o a iscrivermi di nascosto alla scuola che desideravo. C’è stato un tempo, all’incirca nel Secondo dopoguerra, in cui la democraticità della scuola si poteva misurare in base alla quantità e alla forza delle botte ricevute, alla presenza o meno di stanze riscaldate, ai chilometri da percorrere con o senza le scarpe, alla differenza tra la lingua parlata a casa e quella urlata e scritta dallo Stato.
Ma io sono cresciuto in una Repubblica parlamentare, che viene definita con cognizione di causa una “democrazia imperfetta” (una democrazia, cioè, che pur rispettando formalmente i diritti fondamentali ha da sempre dei problemi con la libertà di informazione, con il funzionamento dello Stato, con la cultura politica e i livelli di partecipazione dei cittadini), e forse per questo sento il bisogno di affrontare pubblicamente la questione della democraticità della società, della scuola come servizio pubblico gratuito e dell’istruzione obbligatoria. Da cosa si vede, mi domando, che una scuola, uno specifico istituto scolastico autonomo, dotato di una dirigenza, di un consiglio di istituto, di personale tecnico e amministrativo, e di un collegio composto da decine di docenti, a loro volta distribuiti in consigli di classe che accolgono rappresentanti di studenti e genitori, è in effetti un’organizzazione democratica? E se oggi un’ispettrice o un ispettore dovessero entrare all’improvviso in una classe, cosa dovrebbero osservare per capire se lì dentro si pratica o meno la democrazia? Esiste un modo per misurare e valutare la democrazia in classe e a scuola?
Gli indicatori di democraticità usati dall’«Economist» per il suo Democracy Index – che vede attualmente l’Italia al 31° posto su 167 paesi – sono raggruppati in cinque categorie:
– il processo elettorale e il pluralismo;
– le libertà civili;
– il funzionamento del governo;
– la partecipazione politica;
– la cultura politica democratica.
Proviamo, per cominciare, ad applicare questi indicatori a un istituto scolastico o a una classe, facendo finta che la scuola possa essere considerata un microcosmo dotato di una certa autonomia dal mondo circostante.
Per la prima categoria di indicatori, è sufficiente rilevare che il solo organo politico eletto da tutte le cittadine e i cittadini di una scuola (ma gli studenti votano solo nelle scuole secondarie di II grado) è il consiglio di istituto, il cui potere decisionale si limita ai criteri generali della programmazione educativa, ai regolamenti interni della scuola e all’uso delle risorse finanziarie della scuola, da cui sono tassativamente escluse le spese di personale, che sono regolate da meccanismi che passano sopra la testa dei diretti interessati e rispondono a decisioni politiche prese a livello ministeriale e parlamentare. Per il resto, il potere politico è accentrato nelle mani della dirigenza e soprattutto del corpo docente, che ha il controllo del collegio e dei consigli di classe. Al personale tecnico e amministrativo, ai genitori e agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado spetta un mero ruolo di rappresentanza. Bambine e bambini, ragazze e ragazzi della scuola del primo ciclo sono completamente assenti, esclusi da qualsiasi organo rappresentativo o decisionale.
È probabile che questa situazione – frutto di conquiste politiche che rendono la scuola dell’Italia repubblicana comunque più democratica di quella dei regimi illiberali – influenzi direttamente la partecipazione politica, che di fatto è scoraggiata dallo scarso potere di chi dovrebbe essere coinvolto nel governo della scuola. Manca, inoltre, un vero dibattito politico interno alle scuole su temi come la dispersione scolastica e l’inclusione, ma anche sull’uguaglianza e sul merito, e quindi sul ricorso a strumenti come il voto, la bocciatura e il cosiddetto riorientamento, che tendono a passare per scelte tecniche, come se dietro ogni pratica non ci fosse una precisa visione del mondo. Come se la didattica non fosse anche e sempre politica.
E cosa dire, inoltre, riguardo alla cultura politica democratica, se anche nell’ultimo report del Democracy Index si legge che «una cultura di passività e apatia – una cittadinanza obbediente e docile – non è compatibile con la democrazia»? A meno che non vogliamo usare i numerati casi di disobbedienza che periodicamente vengono proposti all’opinione pubblica dalla stampa locale e nazionale, tutte le indagini sulle pratiche didattiche più usate e sulla percezione del ruolo di docenti e studenti ci parlano di una scuola in cui prevalgono approcci trasmissivi, in cui la valutazione assume una prevalente funzione di controllo e di selezione.
E che dire, infine, delle libertà civili a scuola, in un momento storico in cui l’accesso a internet è considerato uno degli indicatori di democraticità più significativi? (Ma su questo punto, a parte alcune eccezioni, le scuole si presentano come delle oasi di libertà in una società che tende a una progressiva riduzione dei diritti).
Rimane ancora da discutere il funzionamento del governo, che stando al Democracy Index è il punto più debole dell’Italia nel panorama internazionale. La scuola, nonostante la legge sull’autonomia, rimane vincolata alle scelte politiche prese a livello nazionale, mentre è resa ingovernabile dall’assenza di strutture organizzative intermedie (il governo è affidato a una sola persona, che non può avvalersi di un vero e proprio gruppo dirigente) e dall’impossibilità di scegliere il personale. Se poi proviamo a entrare in una classe, domandiamoci quante sono le pratiche didattiche e valutative basate su scelte trasparenti e indipendenti, libere da influenze esterne e legittimate dalla norma.
Per quanto questi indicatori siano inadeguati al caso della scuola, questo piccolo gioco, scaturito da una lettura personale e tutt’altro che filologica del libro Il passero coraggioso di Vanessa Roghi, vuole mettere in luce l’urgenza di individuare dei criteri condivisi per rilevare il tasso di democraticità delle scuole e delle classi della scuola democratica italiana, una scuola che – come lo Stato da cui è stata progettata e realizzata – è uscita ormai da tempo dall’alveo dei “regimi autoritari”, ma che, non avendo ancora raggiunto la condizione di “democrazia completa”, è rimasta allo stadio di “democrazia imperfetta”. Una democrazia in cui le elezioni sono libere e le libertà civili di base sono rispettate, ma in cui permangono problemi relativi alla cultura politica, ai bassi livelli di partecipazione e alle pratiche quotidiane di governo delle istituzioni.
Cominciare dalla pratica: agire in modo democratico
Il libro di Roghi, ultimo di una trilogia dedicata al cammino della scuola democratica in Italia (per cui rinvio alle recensioni uscite su questa stessa testata, La lettera sovversiva di don Milani e Finalmente il futuro), affronta in modo diretto, dal punto di vista storiografico, il problema della didattica democratica in Italia.
Muovendo dalla premessa che la storia della scuola, «lungi dall’essere soltanto una storia politica, legislativa, o una storia culturale, è anche, e soprattutto, la storia di quello che avviene in classe» (p. xiv), l’autrice si propone di ricostruire il cammino intrapreso nell’immediato dopoguerra da un gruppo di maestre e di maestri che presto si sarebbero riconosciuti nel Movimento di Cooperazione Educativa, e che, nell’arco di alcuni decenni, avrebbero contribuito al cambiamento della scuola a partire dalla prassi didattica, ovvero dall’applicazione, in classe, di tecniche didattiche coerenti con teorie pedagogiche e modelli didattici sviluppati e discussi – almeno in una prima fase – con alcuni tra i più illustri intellettuali della loro epoca.
Conoscere la storia delle trasformazioni avvenute dentro la scuola e delle idee che le hanno messe in moto – e poi di quelle che sono nate come reazione a quei cambiamenti – fornisce un contributo fondamentale, oggi, per chi voglia praticare la scuola democratica e per chi intenda parlarne in modo fondato, senza lasciarsi attrarre dalle sirene dei luoghi comuni sul declino, sul “donmilanismo” e sull’impossibilità di attuare qualsiasi riforma nelle classi e negli istituti scolastici, prima ancora che nel sistema dell’istruzione.
Questa – si legge a pagina xxi dell’Introduzione – è la storia del tentativo di rendere concreto un principio astratto come quello dell’uguaglianza, la storia di chi, dentro le aule scolastiche, ha cercato di rimuovere gli ostacoli, di inventare una pratica trasformando l’ideologia democratica in pratica democratica.
Il caso di Mario Lodi, di cui ricorre il centenario della nascita, è l’occasione non tanto per studiare un esempio eccezionale, dai tratti unici e non replicabili perché strettamente correlati alla biografia e alla personalità del maestro, quanto semmai per evidenziare come, in un’epoca pionieristica, quando le norme e il contesto politico e culturale erano ancor meno favorevoli, sia stato possibile praticare collettivamente, da parte di un grande numero di docenti, strategie e tecniche didattiche laboratoriali come il testo libero, la scrittura collettiva, la corrispondenza interscolastica, il giornale scolastico, il “libro di vita” – una raccolta degli scritti della classe, a documentazione dell’attività svolta – e la libera espressione, che consiste nel drammatizzare, giocare a creare situazioni, a cambiare posizioni e ruoli, moltiplicare le rappresentazioni, sperimentarsi in personaggi diversi. Sono pratiche variamente documentate, che testimoniano che ciò che è stato autorevolmente sostenuto in sede scientifica sul valore educativo dell’esperienza e della cooperazione ha conosciuto una grande varietà di applicazioni pratiche.
Come affermato ancora da Roghi, sulla scorta degli studi su Franco Basaglia di John Foot, ragionare sui cambiamenti effettivamente realizzati in passato all’interno delle istituzioni è fondamentale per capire che quelle trasformazioni sono possibili solo attraverso iniziative collettive («nessun carisma individuale o spinta ideologica, seppur potente, è sufficiente a cambiare le istituzioni nella loro sostanza oltreché nella loro forma»), e che una volta che un’istituzione è stata trasformata, anche in profondità, come è stato il caso della chiusura dei manicomi, non è detto che non si possa tornare indietro, ma quel che conta è sapere che è stato già fatto e che quindi, «farlo, sarà possibile ancora una volta, di nuovo, sempre» (p. xxii).
La presa di parola, l’ascolto, la socialità
Dell’esperienza di Mario Lodi, ricostruita puntualmente da Roghi in tutta la sua complessità, tenendo conto della fitta rete di connessioni con altri esponenti del MCE, con il contesto politico nazionale e locale e con le teorie pedagogiche novecentesche, è utile ritenere almeno alcuni aspetti fondamentali, che mettono in luce la straordinaria coerenza tra teoria e prassi, tra una concezione democratica e ugualitaria della vita scolastica e uno stile di vita altrettanto democratico e ugualitario.
Innanzitutto, all’inizio del percorso si colloca la lezione di Mario Bosio, che dando importanza alla “soggettività proletaria” per la ricostruzione della storia delle classi popolari indicava a un’intera generazione la strada da percorrere per allargare la partecipazione democratica alla cultura nazionale, e poi di Danilo Dolci, di Rocco Scotellaro e di tutti quegli intellettuali che, all’inizio degli anni Cinquanta, si impegnano in una lettura originale della realtà del loro tempo ricorrendo allo strumento dell’inchiesta. «Non dare la voce», precisa Roghi, fedele interprete del pensiero di Bosio e anche di Lodi, ma «raccogliere la voce» di coloro che finora sono stati esclusi dal dibattito culturale: i contadini del sud, certo, le prostitute, i minatori della Maremma e le maestre.
Lodi – si legge a pagina 63 – compie il gesto più radicale quando, sollecitato dalla riflessione del MCE, applica questo metodo all’infanzia. Il racconto dell’esperienza in classe così non ha finalità solo didattiche, ma progressive.
Un libro come C’è speranza se questo accade al Vho (1963), quindi, non solo offre una narrazione puntuale di tecniche didattiche e di esperienze di apprendimento che possono essere così diffuse a livello nazionale, ma è anche – secondo la definizione di «folklore progressivo» elaborata da Ernesto De Martino nel 1951 – uno strumento di «avanzamento culturale effettivo delle masse popolari», che può contribuire, raccogliendo la voce dei bambini, alla nascita di una «cultura popolare progressivamente orientata».
Parlare di centralità del fanciullo significa, dunque, partire dall’ascolto e – come messo bene in evidenza da Bruno Ciari all’inizio delle Nuove tecniche didattiche (1961) – accogliere la cultura e la lingua di ogni alunna e alunno, senza dimenticare che non si tratta di espedienti per preparare il terreno alla scolarizzazione o alla successiva acculturazione, ma di creare le condizioni affinché, attraverso la socializzazione e il confronto critico con l’ambiente, un gruppo di persone casualmente riunite in un’aula diventi una comunità capace di cooperare per affrontare problemi comuni e di contribuire attivamente e concretamente allo sviluppo culturale con le proprie idee, con le proprie soluzioni e con le proprie visioni del mondo, che finalmente possono essere espresse indipendentemente dall’età, dalla classe sociale e dalla provenienza geografica.
La rottura tra didattica e politica
Uno dei meriti più evidenti che si possono ascrivere alla ricostruzione di Roghi consiste, a mio avviso, nell’aver fornito un’interpretazione plausibile alla messa in discussione, nel dibattito pubblico e anche all’interno dello stesso Movimento di Cooperazione Educativa, dell’approccio didattico al problema della democraticità della scuola.
Le tecniche didattiche, fin qui ritenute un elemento necessario alla trasformazione rivoluzionaria della vita scolastica, a partire dal Sessantotto vengono percepite dalle nuove generazioni di insegnanti di area comunista come un residuo del riformismo, e pertanto respinte in nome di una più radicale opera di abbattimento delle strutture, da realizzare agendo non più al livello della classe, con il lavoro cooperativo, ma a un livello più alto. Un livello inevitabilmente distante da quelle bambine e quei bambini, ragazze e ragazzi, che ancora negli anni Settanta sono al centro dell’interesse del lavoro di Gianni Rodari.
Grazie al lavoro di Roghi possiamo oggi considerare quest’ultimo il più fedele continuatore del pensiero e dell’opera di Bruno Ciari, che muore già nel 1970, e dello stesso Lodi, che trova in Rodari un fiancheggiatore e promotore instancabile, ma anche un interprete e critico acutissimo: nella Grammatica della fantasia (1973) Rodari promuove i testi prodotti dai bambini alla dignità di opere, da sottoporre a un’analisi semiologica e a un’interpretazione psicanalitica. Così facendo mostra a chi insegna la possibilità di arrivare a un’adeguata conoscenza della cultura e dei processi cognitivi di chi apprende.
Ma sono proposte destinate a non fare breccia tra la massa degli insegnanti, e neanche tra gli intellettuali dell’epoca, che preferiscono mettere da parte la riflessione sul lavoro in classe e la ricerca didattica – un fenomeno che Roghi fa risalire, all’interno del MCE, già al 1966 – per concentrarsi sulla ricerca di senso e sul ruolo dell’insegnamento e della scuola in un momento di crisi che coinvolge soprattutto la cosiddetta scuola tradizionale, fondamentalmente autoritaria e antidemocratica, ma che finisce per travolgere coloro che fin dal primo dopoguerra avevano cercato di praticare la democrazia a scuola.
La lotta contro quella che viene definita la “scuola prigione”, un’istituzione totale considerata irriformabile e quindi da abbattere, non contempla la possibilità di trasformare il rapporto tra insegnanti e studenti attraverso la didattica e mettendo in relazione la scuola e il mondo, come proposto e praticato dall’inesauribile Lodi per tutta la sua esistenza. Accusato di collateralismo al sistema, il riformismo di Lodi – secondo una dinamica che, spiega Roghi, è ancora oggi ben presente nel discorso pubblico sulla scuola – finisce per saldare antiche diffidenze di stampo idealistico con la vulgata marxista, e per oscurare il lavoro didattico di Lodi, pur esaltandone le straordinarie qualità personali di scrittore e di insegnante. A poco valgono i ripetuti richiami di Lodi alla centralità delle tecniche e alla condivisione delle esperienze: pur aumentando il numero degli iscritti al Movimento di Cooperazione Educativa, e proprio nel momento in cui prende forma il dibattito sull’educazione linguistica democratica, si legge nel Passero coraggioso,
la questione del lavoro cooperativo, della riproducibilità dell’esperienza, delle tecniche, insomma, diventa sempre meno importante nelle discussioni fra insegnanti, in favore di una discussione politica più generale.
Convinto fautore di una scuola nuova, da rinnovare attraverso l’azione didattica, Lodi – e con lui una generazione di insegnanti – si trova in minoranza rispetto a chi si è impegna con analoga convinzione nella chiacchiera pedagogica o antipedagogica, preferendo all’azione qui e ora la ricerca delle parole giuste per parlare di scuola o per annunciarne l’imminente palingenesi.
Un libro di didattica militante
La scuola democratica, a differenza di quello che dicono i suoi detrattori, si riconosce dalla preparazione dei suoi allievi, sempre un passo avanti rispetto a chi è abituato a una scuola esclusivamente trasmissiva. La scuola democratica rifiuta la predella, che è tornata di moda, i banchi allineati, la noia come sentimento educativo, il gioco del silenzio. Insegna la collaborazione, il rispetto, l’utilità del sapere e la sua bellezza. Non si nasconde dietro un astratto principio di autorità, non crede che il metodo sia il maestro ma che il maestro debba imparare dal bambino. Perché chi la pratica studia e conosce la centralità dei processi di apprendimento, così come delle procedure dell’insegnamento, e non parla e non ragiona come se il Novecento fosse passato invano.
Non so se questo brano del libro di Roghi (a p. 163) possa costituire un punto di riferimento sufficiente a supportarci nell’individuazione di quegli indicatori di democraticità che dovremmo cercare insieme, ma di sicuro in questo Passero coraggioso c’è abbastanza energia da rimettere in moto un discorso pubblico più audace e sensato di quello che da troppi anni si svolge intorno alla scuola, che ormai sembra aver perso di vista il dettato costituzionale e con esso l’ambizione di contribuire, attraverso la didattica, alla manutenzione ordinaria e straordinaria della democrazia in Italia.