La letteratura in classe – L’educazione letteraria e il mestiere di insegnante di Guido Armellini è un libro complesso, stratificato, che mette insieme, integrandoli con nuovi capitoli, pezzi scritti tra il 1994 e il 2004 e in gran parte già noti a docenti e ricercatrici e ricercatori interessati alla didattica della letteratura.
Preceduto da una fondamentale presentazione di Gianni Turchetta, il volume esce in un momento storico in cui finalmente le proposte dell’autore, che qualche anno prima potevano apparire difficilmente realizzabili a normativa vigente, dovrebbero rappresentare la normalità della didattica e, soprattutto, della valutazione, l’attività scolastica individuata come punto debole del sistema di istruzione e chiave di volta del cambiamento desiderato.
Ma procediamo con ordine, a partire dall’individuazione dei problemi e delle domande di ricerca da cui prende le mosse la riflessione di Armellini, sempre corredata da puntuali riferimenti teorici (rigorosamente inter o transdisciplinari), anche quando scaturisce, come avviene nella grande maggioranza dei casi, dall’esperienza di insegnamento.
La prima parte del libro – “La letteratura a scuola” – si apre con un saggio del 2002 intitolato Si può insegnare il piacere di leggere?, che mette subito sul tappeto le questioni fondamentali:
- il rapporto tra insegnamento e apprendimento, la sua imprevedibilità e reciprocità (chi insegna deve essere disposto a imparare);
- l’insegnamento della letteratura come «scommessa sulla capacità della letteratura di parlare alle ragazze e ai ragazzi di oggi»;
- il ruolo dell’insegnante come mediatore chiamato a creare le condizioni affinché la letteratura possa essere fruita con piacere, e quindi la necessità di aprirsi alla paraletteratura o letteratura di consumo;
- la centralità della cultura, dei valori, delle emozioni e dell’immaginazione degli studenti.
Alla fine del breve capitolo Armellini racconta un’esperienza didattica vissuta in prima persona: un compito in cui gli studenti erano invitati a ricostruire un sonetto di Petrarca i cui versi erano stati precedentemente scombinati e disordinati:
Tutti sono riusciti – chi prima, chi dopo – a ricostruire il sonetto; ma l’esito più sorprendente è stato che si sono dichiarati estremamente divertiti dall’esercitazione, e mi hanno chiesto se potevo fargliene fare altre simili.
La tecnica didattica proposta, che in quel determinato momento e in quella classe aveva prodotto dei risultati eccellenti – ma non generalizzabili, dice l’autore, consapevole che «con altri esseri umani, o gli stessi esseri umani in un altro momento della loro storia, l’esito della medesima tattica poteva rivelarsi nullo» – è usata da Armellini per sottolineare la necessità di mettere gli studenti in condizione di agire, ovvero di «mettere in campo la propria intelligenza e la propria immaginazione» in modo da ottenere quella gratificazione che consente loro di provare interesse per un autore o un’opera. Non importa quale sia il trucco o la tattica più adatta in quel momento, quel che conta è mettersi in ascolto, tentare soluzioni, dare stimoli, creare le condizioni affinché qualcosa accada dalla parte degli studenti, definiti delle «macchine non banali», «con modi di funzionamento imprevedibili», la cui innegabile complessità non può essere elusa o semplificata.
Il capitolo successivo, il più lungo del libro, riproduce un articolo uscito su «Allegoria» nel 2001, che riprende questi nodi problematici spiegandoli e fornendo soluzioni più articolate e diversificate per i vari gradi scolastici. Ricorre anche qui il concetto di «scommessa», usato da Armellini per evidenziare la dimensione ludica, sfidante e perfino rischiosa dell’insegnamento, una pratica che si fonda sull’ambizione di produrre un cambiamento nei soggetti coinvolti, senza avere mai la certezza del risultato.
È proprio per affrontare questa sfida che deve essere possibile, anzi necessario, mettere in crisi i presupposti, i luoghi comuni e perfino gli ambiti disciplinari che fin qui hanno caratterizzato la presenza della letteratura a scuola, ma che d’ora in avanti, in un momento storico in cui si è rotto il rapporto tra il «sapere costituito» (una sorta di corpus di conoscenze comune ai membri di una stessa comunità o, almeno, di una classe sociale, che viene tramandato dall’istituzione scolastica) e la cultura dei destinatari dell’insegnamento, non hanno più ragione di esistere se non per essere discussi e travalicati.
Insegnare letteratura, quindi, significa innanzitutto
emanciparsi dal tradizionale ossequio al sapere accademico per affrontare problemi e accostamenti inediti, in una prospettiva di ricerca che richiede all’insegnante, oltre a un sicuro corredo di conoscenze del suo campo specifico di insegnamento, la disponibilità ad affacciarsi su zone del sapere di cui non ha una conoscenza specifica (p. 31).
L’insegnante ha l’obbligo di “sconfinare”, andando al di là degli steccati disciplinari in direzione di altre forme di esperienza estetica (immagine, musica ecc.) e su altre letterature e culture, «senza farsi paralizzare dallo spauracchio del rigore scientifico», in una prospettiva interdisciplinare e sempre tenendo conto dell’orizzonte d’attesa degli studenti, i “soggetti conoscenti”, i quali si presentano all’insegnante già «imbevuti di un’altra cultura nell’ambito della quale l’esperienza estetica in senso lato ha un ruolo fondamentale: una cultura (o sottocultura) multimediale di cui noi insegnanti non siamo specialisti, e spesso neppure fruitori».
È in questo quadro che si colloca la parte più audace e oggi interessante del libro di Armellini, che per uscire dall’impasse della didattica trasmissiva e di una visione depositaria e patrimoniale della cultura letteraria propone una visione dialogica e negoziale dell’insegnamento che, applicata alla didattica della letteratura, ha conseguenze importanti sull’idea stessa di letteratura, che viene rimessa radicalmente in discussione.
Le stesse opere letterarie, riconosce Armellini, messe a contatto con un pubblico nuovo, «possono caricarsi di significati inattesi, non registrati dalla storiografia letteraria e alle antologie della critica», possono cioè essere modificate dalle attibuzioni di significato operate da chi legge, dando vita a un dialogo “bidirezionale” che può essere accostato al concetto di “transazione” di Louise Rosenblatt, la teorica della letteratura statunitense che, in aperta opposizione al New Criticism e alle pratiche didattiche basate sul close reading, ha illustrato il duplice effetto trasformativo della lettura estetica, che agisce sul soggetto e sul testo stesso, il cui significato è per sua natura negoziale.
A questa concezione dialogica e intersoggettiva dell’educazione letteraria – che, come giustamente nota Gianni Turchetta nella sua introduzione, è in linea con le idee propugnate da Franco Brioschi già alla fine degli anni Settanta, e che molto deve anche al costruttivismo e alle teorie di Maturana e Varela, Bateson, Morin e Watzlawick –, sono necessarie pratiche didattiche di tipo attivo, laboratoriale, basate sull’esperienza estetica e sulla condivisione delle interpretazioni, e, soprattutto, pratiche valutative radicalmente diverse da quelle vigenti, sottoposte da Armellini a una critica severa e martellante in questo capitolo e in due successivi saggi scritti appositamente per questo volume.
L’obiettivo polemico di Armellini, in sintesi, è il nesso che si sarebbe creato durante gli anni Ottanta e Novanta tra strutturalismo e istruzione programmata, ovvero tra le pratiche di analisi del testo di matrice formalista e strutturalista che si sono affermate anche grazie alla manualistica scolastica e le pratiche di programmazione e di valutazione centrate sugli obiettivi. I concetti di unità didattica e di modulo, i test a risposta multipla e in generale le verifiche “oggettive” sono associate da Armellini agli esercizi di metrica, di retorica e di narratologia, con cui condividerebbero un approccio tecnicistico e pseudoscientifico al sapere e al processo di apprendimento e insegnamento.
Il «feticcio dell’oggettività e della misurabilità» e «le metafore di tipo ingegneristico e tecnocratico», si legge alla fine del capitolo successivo, significativamente intitolato Inventare la letteratura (1994), dovrebbero essere accantonati e sostituiti da una visione che potremmo definire radicalmente costruttivista, relazionale, ermeneutica, basata sull’intersoggettività, sulla negoziazione dei significati e sulla metacognizione.
L’insegnante ideale disegnato da Armellini è un membro della comunità-classe e della comunità-scuola, un osservatore partecipe e non un tecnico dell’insegnamento esterno al gioco, una «persona colta», dotata di «passioni culturali» (61) che vanno messe in gioco fin dalla progettazione del percorso didattico, sempre in collaborazione con i colleghi per condividere risorse culturali (p. 62).
Una figura in un certo senso analoga al “lettore comune” delineato da Tzvetan Todorov nel suo pamphlet La letteratura in pericolo (2007), per il quale la lettura delle opere letterarie ha la funzione fondamentale di dare un senso alla vita, aperto all’incontro con l’altro, per il quale ogni lettura è un’apertura sull’ignoto e sull’imprevisto. Non uno specialista della letteratura ma un “giocatore” che, per ricorrere a una metafora cara ad Armellini, si prende il rischio di partecipare al gioco della letteratura, contribuendo attivamente alla sua incessante invenzione.
Ma non per questo dobbiamo pensare a un docente sprovveduto o alieno alle logiche della scuola democratica, che deve in qualche modo progettare l’azione educativa e rendere conto del suo operato alla cittadinanza. Come un attore della commedia dell’arte, questo docente lavora sulla base di un canovaccio, lasciando poi che lo svolgimento dello “spettacolo” sia influenzato dalle interazioni con il pubblico e con gli altri attori e attrici. Un insegnante che rifiuta nel modo più assoluto di avere il controllo totale sulle proprie azioni e sui propri studenti, e che invece è pronto a «considerare l’imprevisto come informazione e lo spiazzamento da esso prodotto come un’occasione per apprendere qualcosa che non sa» (p. 67). Un insegnante che non si rassegna a usare impropriamente i voti per controllare o punire gli studenti, e neanche per misurarne la quantità di conoscenze acquisite in un determinato lasso di tempo, ma che è impegnato in un continuo processo di ricerca di situazioni nuove e complesse in cui calare gli studenti affinché possano agire in modo competente, e di criteri utili a interpretare e valutare la qualità degli apprendimenti (e sarebbe utilissimo, per chi insegna italiano, andare a leggersi gli esercizi assegnati agli studenti e i loro elaborati, riprodotti alle pp. 80-86 e 132-151).
Uno dei capitoli più recenti, Miseria e nobiltà della valutazione, propone una visione chiara di quella che oggi chiameremmo valutazione educativa: un approccio valutativo adeguato a quella didattica centrata sul processo di apprendimento e sul soggetto (seguendo la classificazione dei modelli didattici proposta da Massimo Baldacci) che è il vero punto focale dell’argomentazione di Armellini.
Si legge a p. 171, in conclusione a un ragionamento relativo alla pragmatica della comunicazione:
l’assenza di valutazione è una grave forma di squalifica nei confronti della persona che entra in relazione con noi, è come se le comunicassimo che non ci accorgiamo di lei, che non abbiamo nessun vero interesse per ciò che fa ed è.
Necessaria per la gestione della relazione educativa, fondamentale per dare un senso agli apprendimenti e per ottenere informazioni utili a rimodulare continuamente il percorso di insegnamento, la valutazione è anche un’azione inevitabilmente soggettiva e aleatoria, come avremmo dovuto imparare – sostiene ancora Armellini – quando il paradigma cognitivista è stato messo in crisi, negli anni Novanta, dalla svolta ermeneutica e dall’affermarsi da quei «paradigmi della complessità» che sono stati presi finalmente in considerazione dalle Indicazioni nazionali del 2007.
Malauguratamente, la consapevolezza della complessità non si è tradotta in un salutare atteggiamento di umiltà e di senso del limite, ma ha dato il via a uno smodato ampliamento della presunzione del controllo: oltre a misurare le prestazioni relative alla sfera cognitiva, si è pensato che fosse necessario tenere implacabilmente sotto tiro “tutte” le (infinite?) variabili dell’apprendimento: ne sono scaturiti gli ipertrofici strumenti valutativi che conosciamo, e sulla scuola si è abbattuta una vera e propria ossessione della valutazione (p. 174).
Consapevole dei propri limiti e, in generale, dei limiti di Homo sapiens, Armellini propone una sua idea dialogica e relazionale della valutazione, che, come la sua critica totale e assoluta all’istruzione programmata – il cui carattere rigidamente programmato, che rispondeva a una concezione della mente ormai superata, era funzionale a un’idea di scuola democratica, – non riesce a sfociare in proposte o soluzioni davvero praticabili e condivisibili dalla comunità scolastica.
Armellini, che sviluppa le proprie ipotesi di lavoro a partire dall’interpretazione di esperienze personali e dalle utilissime riflessioni teoriche di Watzlawick e Sclavi, avrebbe forse potuto cercare nella letteratura scientifica dell’area pedagogico-didattica e docimologica più aggiornata, o anche nel contesto della formazione professionale, dell’educazione degli adulti e dell’orientamento, quegli strumenti di programmazione e di valutazione che già all’inizio degli anni Zero mettevano al centro il soggetto e i suoi processi di apprendimento: unità di apprendimento, progetti didattici, programmazioni per sfondo integratore, e poi portfolio, compiti autentici, strumenti osservativi, diari di bordo, autobiografie cognitive eccetera. Tutte soluzioni che avrebbero trovato cittadinanza nelle eccellenti Linee guida per la certificazione delle competenze del 2017 e che possiamo ricondurre ai principi della valutazione educativa.
Rimangono centrali, tuttavia, le riflessioni sulla necessità di una valutazione olistica, capace di educare, ovvero di dare forma e senso all’apprendimento, e, soprattutto, la necessità di cambiare la scuola a cominciare dalla valutazione e dagli strumenti di programmazione, che in effetti rappresentano, ancora oggi, la parte più visibile della scuola, quella che lascia traccia – nelle aule dei tribunali, sui giornali e nei pamphlet – e che viene gestita con minore consapevolezza e competenza da parte di quei docenti che vivono queste pratiche come “burocrazia”: moduli da compilare e griglie tramandate di generazione in generazione da un collegio dei docenti a un altro.
Vale la pena, infine, fare un’ultima considerazione sul ruolo attribuito da Armellini alla didattica della letteratura come campo di ricerca specifico, per la cui costituzione – ancora in via di definizione – questo libro rappresenta una tappa fondamentale. La scelta di chiudere il libro con il capitolo Elogio della scuola e di chi ci vive dentro (1999) chiude un cerchio aperto nella Premessa, laddove Armellini mette subito in chiaro che l’esperienza didattica della figura di docente delineata in questo libro contribuisce attivamente alla «elaborazione cooperativa di un sapere nuovo». Lungi dall’essere un soggetto da formare o istruire da parte di tecnici dell’educazione, chi insegna letteratura può e deve contribuire alla riflessione sulla didattica generale e, anche, sulla teoria della letteratura, che non può fare a meno di rinnovarsi continuamente proprio a partire dalla didattica.
P.S. Ho recensito nel 2001, sulla rivista «Per leggere», uno dei saggi presenti in questo libro, Letteratura e altro. Fra aperture teoriche, artigianato didattico e trappole buro-pedagogiche, uscito all’epoca sulla rivista «Allegoria». Per quanto all’epoca avessi evidenziato la portata innovativa del discorso di Armellini, non avevo colto – soprattutto nel 2008, al momento dell’uscita del libro – l’importanza del quadro generale dei riferimenti culturali di Armellini e del suo modo di procedere, che muovendo da problemi molto concreti come l’assegnazione dei voti e il piacere della lettura riusciva a mettere in discussione sia i modelli didattici dominanti sia la teoria della letteratura. Restituire a questo libro la posizione che merita significa anche dare dignità a chi ancora oggi, in seguito all’abolizione delle Scuole di Specializzazione e in assenza di un quadro normativo stabile sul reclutamento dei docenti, continua a lavorare a scuola – in qualsiasi disciplina – con il desiderio di continuare a imparare a insegnare per continuare a insegnare ad apprendere, rimettendo continuamente in discussione le pratiche didattiche e il ruolo e la funzione degli oggetti culturali.