Dieci, cento, mille meme

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La mommy di Baltimora trasformata in un meme ripetitivo e vuoto: perché ingoiamo le notizie e annesse opinioni senza digerirle.

 

Le foto sui giornali e i video ci hanno impietosamente mostrato l’episodio minuto per minuto: una donna afroamericana si lancia con decisione su un sedicenne afroamericano col volto quasi coperto dal passamontagna e comincia a colpirlo e a trascinarlo via dalla strada. Lo scenario è Baltimora, durante una protesta violenta scaturita dalla morte di Freddy, un venticinquenne afroamericano finito in coma durante un arresto dai contorni ancora poco chiari. Una scena di violenza in mezzo a una rivolta violenta, e un aggettivo che si ripete e che è la chiave di tutto: se queste tre persone fossero state bianche non ne avremmo parlato tanto in questi giorni.
E parlato male.

Ammetto che sia stato divertente vedere osannare la sculacciata pubblica di un adolescente da parte di una società che non riesce a fare in modo che ragazzini delle medie finiscano tutti i compiti. Però all’ennesima evocazione di questa madre che mette in riga il figlio con toni nostalgici da “ce ne fossero di più” ho cominciato a capire che c’è qualcosa che abbiamo perso definitivamente (se mai l’abbiamo posseduta): la consapevolezza che esiste un contesto in cui si verificano i fatti e che quel contesto potrebbe fare la differenza.

La madre di Baltimora non merita di diventare un meme. L’applauso per quello che ha fatto nega la tragicità del gesto. Sarà per la necessaria stringatezza dell’opinione espressa su Twitter o per la velocità con cui si tende a postare su Facebook, ma quello che mi sembra sempre più evidente è che il commento in rete strappa l’evento al suo contesto, lo articola in base a quello che l’autore crede significhi e poi lo rende virale, lo moltiplica facendo di tutto un meme.

Ecco, la madre di Baltimora non merita di diventare un meme. L’applauso per quello che ha fatto non solo rivela il completo fallimento di una certa pedagogia moderna (quel permissivismo irresponsabile che ora per reazione fa apparire due schiaffi ben dati come l’unico modo di recuperare autorevolezza su una generazione con cui non si riesce a interagire), ma nega la tragicità del gesto. Questa signora non ha picchiato il suo ragazzo perché si vergognava che fosse tra i manifestanti, ma per evitargli di finire come Freddy: ucciso senza che nessuno ne risponda.

A Baltimora la vita media di un uomo di colore si attesta intorno ai 69 anni. Un ragazzo senza precedenti può essere fermato e arrestato solo per il colore della sua pelle. Può essere ucciso solo per aver incrociato lo sguardo del poliziotto sbagliato. È tanto difficile capire perché, all’ennesima morte di un giovane afroamericano, la rivolta ha incendiato per giorni le strade? Cercando gli articoli che hanno raccontato la storia, soprattutto sulla stampa americana, nelle interviste alla donna non c’è traccia di un afflato pacifista. Ha picchiato il figlio perché ha avuto paura che glielo ammazzassero. Cosa che a Baltimora, a Ferguson e in mille altri centri in USA, se sei afroamericano capita spesso.

Detto questo, ci auguriamo davvero dieci, cento, mille madri come questa? Una donna spaventata, vittima di una discriminazione che non le consente nessuna scelta. Una donna sola. E invece non solo la società bianca non sta scendendo in piazza con lei e non sta condividendo una protesta che potrebbe essere pacifica e molto più vasta, ma sta applaudendo quella paura e quel bisogno di rientrare tra i ranghi per non subire di peggio.

Si può discutere sulla rabbia sociale che si manifesta in modo violento e preferire la variante pacifica. Quello che mi lascia stupita è vedere come di volta in volta scegliamo la violenza che ci fa stare più tranquilli: quella della sculacciata che mette al suo posto il ragazzino così come quella che darebbe una lezione a qualche incapace versione italiana della black bloc.

L’obiettivo si concentra troppo spesso su quello che susciterà l’emozione più immediata, fornendo l’opinione assieme all’informazione. A questo proposito, siamo stati tutti bombardati dal video del giovanotto di provincia incapace di esprimersi sui danni provocati a Milano durante l’inaugurazione dell’Expo se non ricorrendo alla parola “bordello”. Stordita dagli insulti che hanno accompagnato ogni apparizione del video, è stato difficile chiedermi quale fosse il contesto della vicenda. Mi ha aiutato la condivisione virale dell’intervista: circa duecento identificati come violenti, cinque arresti e una sola faccia disorientata cui offrire il microfono e ripetuta infinite volte. Al netto della mia opinione in merito alla vicenda, il dubbio è che l’obiettivo si concentri troppo spesso su quello che susciterà l’emozione più immediata, fornendo l’opinione assieme all’informazione.

La nostra permanenza sui social ci spinge a esprimerci su quello che ci accade intorno più spesso di quanto sarebbe forse necessario. Di sicuro con un’immediatezza che non sempre ci dà il modo di riflettere su quello che stiamo vedendo e leggendo. La facilità con cui le informazioni ci arrivano ci conferisce un’eccessiva sicurezza di essere in possesso di dati oggettivi su cui esprimerci. E l’atteggiamento opposto, il cosiddetto complottismo, rischia di essere una reazione che ci allontana dalla comprensione dei fatti in modo irrimediabile.

La facilità con cui le informazioni ci arrivano ci conferisce un’eccessiva sicurezza di essere in possesso di dati oggettivi su cui esprimerci. Quello che mi costringo a ripetermi, dunque, è che davanti a una notizia di cui so ancora poco mi serve tempo per riflettere, voci dissonanti da confrontare, articoli stranieri, se possibile. Mi ripeto che le cose sono complesse, che ritenere insensate per partito preso le più di duecento firme contro il PEN a Charlie Hebdo non mi fa ragionare; comprendere le motivazioni che le hanno causate anche senza condividerle invece sì. E pazienza se Facebook ha fretta di sapere cosa sto pensando. Potrei sempre decidere di tenerlo per me.

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Giusi Marchetta

vive a Torino, dove insegna. Ha pubblicato la raccolta di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (Terre di mezzo, 2008), vincitore del Premio Calvino, e i romanzi L’iguana non vuole (Rizzoli, 2011) e Dove sei stata (Rizzoli, 2018). Ha fondato e coordina il podcast del Tavolo delle ragazze (nato da Tutte le ragazze avanti!, Add editore). Per Einaudi ha pubblicato Lettori si cresce (2015) e ancora per Add il saggio Principesse, (eroine del passato, femministe di oggi) sugli stereotipi di genere nella cultura di massa

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