Dentro la scatola nera #10. Perché parliamo ancora di voti a scuola?

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Nel decimo articolo della rassegna Sonia Bacchi intervista Davide Tamagnini: maestro di scuola primaria, attivo nell’MCE e nell’università, impegnato insieme ad altri insegnanti in un progetto di cambiamento della valutazione.

 

Sonia Bacchi: Ci siamo conosciuti qualche anno fa, quando giravi l’Italia per raccontare la tua esperienza di insegnamento alla primaria. Era la fine del 2019 e avevi appena pubblicato il tuo secondo libro, Continuerò a sognarvi grandi. Una rivoluzione tra i banchi di scuola (Longanesi, Milano 2019), in cui ricostruivi i cinque anni di insegnamento vissuto “senza voti”, prima che l’Ordinanza 172 del 4 dicembre 2020 modificasse le modalità di valutazione nella scuola primaria. La tua esperienza era stata il frutto di una scelta ben precisa, di una netta presa di posizione, come appunto affermavi: «Insegnare significa innanzitutto schierarsi. Scegliere questo lavoro vuol dire decidere con quale sguardo interrogare il mondo e tentare di costruire delle risposte di buon senso». Cosa ricordi di quell’esperienza? Cosa ti spinse a schierarti dalla parte di una didattica e di una valutazione profondamente innovative?

Davide Tamagnini: Quella scelta didattica è stata il frutto di una precisa convinzione, maturata nei dieci anni in cui, prima di arrivare alla primaria, ho lavorato nell’ambito della formazione professionale. In quel contesto ho incontrato ragazzi che avevano bisogno di essere accompagnati, e non giudicati: il giudizio espresso su di loro fin dai primi anni delle elementari era stato così pesante da portarli a considerare la scuola come un luogo con cui non avevano nulla a che fare. La scuola li aveva fin da subito fatti sentire diversi, inadeguati, inadatti, li aveva trattati come “quelli che sono più indietro”, che escono dall’aula per fare recupero mentre gli altri sono dentro a seguire le lezioni. La scuola, dunque, come l’avevo conosciuta attraverso le esperienze di quei ragazzi, estrometteva le persone dai processi di apprendimento, le scartava, le escludeva.  Penso che questo sia incostituzionale. Alla luce di questa consapevolezza, arrivando alla primaria mi sono detto: non voglio che nessuno dei miei studenti abbia lo stesso vissuto, non utilizzerò la valutazione con una funzione discriminatoria o di misurazione: anziché misurare il loro apprendimento, vorrei aiutarli a migliorarlo. Poiché la grande livella erano i voti, ho deciso che li avrei eliminati. Così è stato: in quei cinque anni, nessuno dei miei studenti ha ricevuto un voto, né durante l’anno né in pagella.
A fronte di quella decisione e degli gli studi fatti, ho iniziato a documentarmi sulla valutazione, a mettere a punto e sperimentare strumenti che potessero aiutarmi ad aiutare i miei studenti a migliorare il loro percorso di apprendimento.

Sonia Bacchi: Charles Hadji sostiene che valutare significa «operare una lettura orientata della realtà»[1]: in altri termini, valutare significa essere portatori di un progetto rispetto all’oggetto della valutazione, significa porsi il problema del senso di ciò che si fa. Di quale progetto eri portatore in quegli anni?

Davide Tamagnini: Il termine progetto ha innanzitutto a che fare con l’idea di società, con l’idea di mondo che intendiamo costruire, e dentro il mondo lo costruiamo davvero. Il progetto di socieà che tu hai in mente come educatore si materializza nelle scelte che compi a scuola. Se desidero vivere e lavorare in una società in cui sia riconosciuto lo spazio di ciascuno, non posso escludere nessuno: escludere qualcuno significa non riconoscergli il suo spazio, significa privarlo del suo spazio. È ciò che facciamo a scuola, implicitamente e continuamente, ogni volta che mettiamo i ragazzi a confronto fra loro.
L’includere ciascuno passa, invece, attraverso un progetto mirato, individualizzato: conoscendo i tuoi studenti riesci a progettare per ciascuno di loro il miglior percorso possibile. Ovviamente, il progetto non deve nascere sulla base della nostra idea di società o di mondo, per cui ogni docente fa la scuola che vuole, la classe che vuole: le Indicazioni nazionali ci forniscono uno schema di riferimento, degli obiettivi di apprendimento che sono dati per tutti gli studenti d’Italia. La differenza risiede proprio negli studenti: le Indicazioni nazionali forniscono obiettivi potenzialmente validi per tutti, poi sta a noi trovare la strada insieme a ciascuno studente perché quegli obiettivi possano essere raggiunti. Qualcuno non riuscirà a conseguirli, per difficoltà sue, per difficoltà nostre. Di fatto, però, le Indicazioni nazionali costituiscono un progetto chiaro sulla carta, che tuttavia non sempre gli insegnanti conoscono e così restano spesso carta morta. Se non si conosce la normativa, il perimetro all’interno del quale muoversi, il progetto mirato e individualizzato non può essere costruito.
Dunque, un progetto di scuola nazionale esiste nel nostro Paese, almeno sulla carta, e lì resta nella maggior parte dei casi. Occorrerebbe forse chiedersi cosa stiamo facendo per realizzarlo. Se non conosciamo le Indicazioni nazionali non riusciamo a smarcarci dai contenuti predeterminati, dal proporre attività didattiche uguali per tutti, dal libro di testo, che spesso decide cosa si fa e cosa non si fa, indipendentemente da chi c’è in classe, da chi sei tu, dal contesto in cui insegni. Senza questo riferimento generale, non vi può essere una didattica differenziata e la valutazione può dire poco perché ha visto poco del percorso di ciascuno. Non rimane che stendere delle classifiche.
Il paradosso è proprio questo: solitamente, quando esiste un progetto, quando c’è un metodo, si rischia la spersonalizzazione degli attori, poiché il progetto va avanti da solo, indipendentemente dagli attori. In questo caso, è proprio la mancanza di conoscenza del progetto che impedisce di riconoscere lo spazio di ciascuno, non solo dello studente, ma anche e soprattutto dell’insegnante. L’autonomia professionale ha senso nel momento in cui si radica in un percorso di ricerca, altrimenti è un gioco al ribasso.

Sonia Bacchi: Dopo quell’esperienza di insegnamento, hai dedicato del tempo allo studio e alla ricerca, per poi tornare alla primaria nel 2021. A quel punto, la scuola era cambiata: soprattutto, la valutazione scolastica era cambiata. L’Ordinanza Ministeriale numero 172 del 4 dicembre 2020 aveva, infatti, introdotto il giudizio descrittivo al posto dei voti numerici nella valutazione periodica e finale degli apprendimenti delle alunne e degli alunni delle classi della scuola primaria. Come hai vissuto il cambiamento? Quali effetti hai letto nei docenti, nei ragazzi e nelle famiglie, i tre attori del contesto scolastico?

Davide Tamagnini: Sono stato temporaneamente fuori dalla scuola primaria, tuttavia il dottorato in Bicocca non mi ha allontanato o distolto da questo mondo. Al contrario, ho lavorato per costruire un’alternativa: ho incontrato il Movimento di Cooperazione Educativa, ho cercato di riunire attorno allo stesso tavolo università, movimento e altri insegnanti per cooperare a un progetto di cambiamento della valutazione. Attorno a quel tavolo nel 2019 è nato l’evento “Non sono un voto”, a cui hanno partecipato più di mille persone. Quello è stato un chiaro segnale del fatto che c’era una scuola che non aspettava altro che vedere legittimate delle pratiche di valutazione, anche diverse fra loro, ma che condividevano lo stesso orizzonte: l’abolizione del numero, quale numero – è bene sottolinearlo – che non ha un valore numerico, ma è espressione di una scala ordinale. 5, 6 o 10 non sono numeri, ma etichette che corrispondono a delle precise posizioni in una classifica. Non capire questo è un grave errore docimologico che porta a errate scelte educative e didattiche. Una volta rientrato a scuola dopo l’OM 172, il mio primo pensiero è stato: “Non sono più fuori legge. Posso fare quello che ho sempre fatto senza chiedere ulteriori deroghe”. Se la valutazione senza voto non era più fuori legge, allora non era più una questione da eroi, una rivoluzione sui banchi di scuola, come scrisse il mio editore senza accogliere le mie perplessità. Era una pratica che tutti potevano compiere, anzi, che tutti dovevano compiere. Di conseguenza, occorreva fare le cose ancora meglio. Ho trovato un contesto scolastico che aveva voglia di mettersi alla prova e abbiamo intrapreso un percorso di auto-formazione sulla valutazione. La nostra esperienza e la nostra riflessione sull’esperienza hanno così avuto la possibilità di fornire un’occasione di apprendimento e di confronto a più docenti, in tutt’Italia. Sto tuttora lavorando tanto perché sia un diritto di tutti i bambini che frequentano la scuola essere valutati in maniera “corretta”, non solo in senso docimologico, ma etico. C’è grande bisogno di formazione, per i docenti e per le famiglie, dalle Indicazioni nazionali in avanti.

Sonia Bacchi: Sostengono infatti alcuni che la valutazione nella primaria risulti poco chiara: molte famiglie pare non riescano bene a orientarsi in questi giudizi descrittivi, come se fossero di difficile lettura e interpretazione.

Davide Tamagnini: Qui c’è un groviglio di argomenti che andrebbero dipanati per bene. Innanzitutto, l’effetto dell’OM 172 su alcuni colleghi è stato che non si sono documentati, non si sono informati, e hanno talvolta detto alle famiglie che rispetto al voto numerico non era cambiato niente. Certo, è imbarazzante trovarsi a gestire a dicembre un simile cambiamento e spiegarlo alle famiglie. Ma come fai a parlare una lingua diversa, quella delle nuove modalità valutative, se non ne conosci i vocaboli? Le famiglie, infatti, confuse, non sono state adeguatamente informate; di conseguenza, non si sono trovate in condizione di comprendere la nuova normativa, che prevede una maggiore personalizzazione della valutazione per ogni singolo studente. A mio parere, non è vero che le famiglie non capiscono: le famiglie chiedono le cose che conoscono, le cose che non conoscono non possono chiederle. Dunque, si è spesso trattato di un errore di comunicazione: noi docenti facciamo un pasticcio, le famiglie anche. In questo senso dobbiamo assumerci la responsabilità della loro incomprensione: in questi tre anni, nella maggior parte dei casi, non siamo riusciti a mostrare loro la differenza del nuovo linguaggio valutativo.

Il problema di fondo consiste nel fatto –e questo è stato un errore storico – che abbiamo ridotto la valutazione a misurazione: ma la misurazione non spiega niente del processo di apprendimento. La misurazione non parla. Non ha le parole che servono all’individuo per capire cosa ha o non ha funzionato nel suo percorso scolastico e personale. La misurazione è funzionale alla valutazione, ma non è la valutazione. In questo gioca un ruolo fondamentale la gestione differenziata della valutazione in itinere e della valutazione periodica/finale. Se tutto viene trattato e restituito con la stessa scala, se la misurazione finale è semplicemente la somma delle misurazioni fatte nel percorso, allora la valutazione non ha più valore formativo.

Sonia Bacchi: Secondo alcuni pedagogisti, sono tre le grandi intenzioni di chi valuta: pesare o misurare l’oggetto, per cui la valutazione è diretta al quantitativo; apprezzare il valore dell’oggetto in riferimento a determinati obiettivi o criteri (valutazione qualitativa); interpretare, cioè rendere intelligibile l’oggetto, in funzione della regolazione degli apprendimenti. La valutazione desiderabile è, infatti, un’informazione di ritorno che si rivolge all’alunno in merito al risultato delle azioni pregresse e compiute, allo scopo di permettere al soggetto di adattare il seguito delle proprie azioni e il proprio stile in rapporto alle richieste del contesto. Si sente spesso affermare che il voto ha un potere comunicativo maggiore rispetto al giudizio descrittivo.

Davide Tamagnini: Il voto ha forse un impatto comunicativo maggiore, ma ha un minor valore comunicativo: in altri termini, non è portatore di informazioni, soprattutto in termini di retroazione. Il feedback è tale se il destinatario comprende in significato; in termini educativi, il feedback è tale se quelle informazioni che il giudizio veicola diventano strumento di apprendimento, determinando un cambiamento nello stile cognitivo e nel metodo di studio di chi il feedback lo riceve. Se io studente non imparo niente da quello che tu docente mi stai dicendo, la tua valutazione non è un feedback, probabilmente non è neanche un atto comunicativo. Se dico 8 o 4, quel voto non fa diventare chi lo riceve più desideroso, cosciente, consapevole di quello che ne deve fare, quello che gli manca: dunque, non serve a niente.

Sonia Bacchi: Eppure, i sostenitori del numero affermano che i voti motivano allo studio. Fabrizio Butera, professione ordinario di Psicologia Sociale all’Università di Losanna, nel 2011 individua quattro argomenti che solitamente vengono usati a sostegno dell’uso dei voti numerici a scuola, noti come “le quattro M del dibattito sui voti”, e li confuta uno a uno, dimostrandone scientificamente l’infondatezza: M come misura (il voto è una misura chiara e oggettiva degli apprendimenti), M come mercato (i voti attivano una “sana” competizione fra i soggetti valutati), M come merito (i voti rappresentano una giusta ricompensa del merito) ed M come motivazione, appunto (i voti permettono di motivare gli studenti)[2]. Il voto è davvero fonte di motivazione?

Davide Tamagnini: Gli studenti copiano. I bambini imparano a copiare fin dalla primaria. L’attenzione al voto li distoglie dal vero scopo della scuola, imparare: quello che conta è la media. Se il 4 che hai preso fa media con un 8 e ti porta comunque al 6, non è un problema non avere capito, non importa se non hai appreso, se non hai imparato: ciò che conta è ottenere una media sufficiente. L’unico obiettivo degli studenti è avere più di 6, per raggiungere il quale sono disposti a mettere in atto comportamenti formalmente poco accettabili, come il copiare. Abbiamo impoverito il processo di apprendimento: ci siamo focalizzati sul risultato, e non sul processo. Tuttavia, il fine del percorso scolastico non può essere la valutazione, unico scopo per studenti, docenti, genitori. La valutazione, quando è formativa, promuove la crescita personale, è quello di cui abbiamo bisogno per diventare studenti e insegnanti migliori.

Quando ci si interroga sul fatto che gli studenti di oggi comprendano sempre meno ciò che leggono, come affermano alcune letture sui risultati Invalsi, perché non pensiamo alle modalità secondo cui li valutiamo? Probabilmente l’errore sta in quelle modalità. Se lo studente non comprende il senso, se non riesce a compiere l’esercizio che lo porta alla comprensione, è perché le nostre modalità di valutazione hanno completamente aggirato la comprensione: comprendere non è più necessario, necessario è il risultato/voto. Se lavorassimo, invece, per rendere la valutazione ciò che realmente è, ovvero un feedback per migliorare il percorso di apprendimento e di insegnamento? La valutazione formativa proposta dall’OM 172 ci chiede anche un ripensamento della didattica. C’è l’idea che la valutazione non riguardi il docente: anche quando si parla di autovalutazione, ci si riferisce sempre all’autovalutazione degli studenti, si sottolinea l’esigenza di mettere l’alunno in condizione di compiere una riflessione critica sulle sue azioni. A mio parere, anche il docente dovrebbe auto-valutarsi: la valutazione è formativa anche e soprattutto nel momento in cui a te insegnante giungono informazioni su come regolare la tua didattica, il tuo percorso di insegnamento, per adattarlo ai bisogni di apprendimento di ogni tuo studente.

Sonia Bacchi: In conclusione, da dove nasce il desiderio di vedere un processo così complesso come l’apprendimento espresso in un semplice numero? Pensi che il voto sia un po’ il prodotto della società di oggi e viceversa?

Davide Tamagnini: Sicuramente ciascuno chiede quello che conosce, e la nostra società conosce questo modello di comunicazione, ossia la semplificazione. Basta pensare a quante persone oggi leggano un libro e confrontarle con quelle che leggono un post, o leggono soltanto il titolo di un post, o si fermano all’immagine: il numero cambia sensibilmente. Oggi siamo in un’epoca in cui opinioni e teorie sembrano poter avere lo stesso valore. Perché capire la complessità con lo studio e la ricerca se tutti possiamo farci un’idea e portarla grazie ai social nel dibattito pubblico? Sulla valutazione è la stessa cosa. Non esistono soluzioni semplici a problemi complessi e, in termini comunicativi, la semplificazione diventa una banalizzazione. Molte volte le persone parlano senza conoscere i contenuti che criticano. Sembra dunque che la scuola dopo l’OM 172 chieda alle famiglie di compiere uno sforzo: ritengo che le famiglie siano disposte a farla, questa fatica, se vedono che per la scuola è importante, se sentono che il loro modo di pensare e di vedere la valutazione sia importante per il docente. Sono sicuramente meno motivate se nella direzione della superficialità.

Se la valutazione è innanzitutto comunicazione, è necessario “avere le parole”: la comunicazione deve essere chiara ai destinatari, ossia a studente e famiglia. Siamo noi docenti che dobbiamo tradurre, fare da mediatori linguistici, aiutarli a comprendere: occorre trovare le parole giuste. Se voglio comunicare, ho bisogno delle parole: senza le parole, perché mi dici che basta la scala dei numeri o la scala dei giudizi sintetici, se tu mi togli le parole mi togli la possibilità di esprimere, di fare della valutazione un atto comunicativo pertinente ed efficace. L’insegnante deve avere le parole, deve conoscere le Indicazioni nazionali e i suoi studenti, per fare della valutazione un atto comunicativo, educativo, più umano.

Se dovessero toglierci le possibilità nate con l’OM 172 troveremo le risorse per reagire e mantenerci aderenti al valore formativo della valutazione. Se dovremo tornare a trasgredire, lo faremo. Perché la vita di chi abita la scuola e che la scuola contribuisce a far nascere non può essere una merce di scambio elettorale.


Note

Davide Tamagnini è maestro di scuola primaria. Attivo nel MCE; collabora con UNIBIM nei corsi di Didattica generale e Didattica della lettura e della scrittura; si occupa della formazione di insegnanti sui temi della didattica e della valutazione. Sulla sua esperienza a scuola ha già pubblicato Si può fare (La meridiana, 2016), Continuerò a sognarvi grandi (Longanesi, 2019), Essere insegnanti (Carocci, 20239 oltre a vari saggi in volumi collettami e articoli in riviste pedagogiche.

[1] C. Hadji, La valutazione delle azioni educative, ELS La Scuola, Brescia 2017.

[2] F. Butera, C. Buchs, C. Darnon, L’évaluation, une menace?, Presses universitaires de France, 2011.

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Sonia Bacchi

è docente di Lettere presso il Liceo “Vincenzo Monti” di Cesena. Si è occupata di editoria scolastica, collaborando alla redazione di numerosi manuali per la scuola secondaria di primo e secondo grado. È stata referente del progetto “Ben-essere a scuola”, che ha sperimentato la didattica innovativa della valutazione senza voto. Insieme a Simone Romagnoli è autrice del Quaderno della Ricerca #48: «La classe senza voto»

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