Dante “exul inmeritus”: 
la violenza della legge

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Fu davvero esilio?  O non piuttosto, alla fine, una scelta di preservare la propria integrità?
Un’immagine dal cortometraggio “Dante per nostra fortuna” di Massimiliano Finazzer Flory, 2021

Exul inmeritus: esule senza colpa. Così Dante comincia a riferirsi a sé stesso a partire dalla missiva a Oberto e Guido conti di Romena, in cui si scusa di non aver partecipato ai funerali del loro zio, Alessandro, perché, «a patria pulsus et exul inmeritus», non si è potuto permettere nemmeno le spese del viaggio, schiacciato com’è dall’indigenza dell’esilio: «Nec negligentia neve ingratitudo me tenuit, sed inopina paupertas quam fecit exilium». Siamo, probabilmente, nel 1304; la formula, exul inmeritus, è destinata ad assumere nel tempo quasi il valore di una firma, e con tale carattere torna di frequente nelle intitolazioni delle epistole dantesche; nella II, 
a Cino da Pistoia; nella V, a tutti i signori e popoli d’Italia, ai quali «humilis ytalus Dantes Alagherii florentinus et exul inmeritus orat pacem»; nella VI, rivolta o meglio scagliata contro i malvagissimi fiorentini residenti in città, riluttanti all’autorità dell’imperatore Arrigo VII («Dantes Alagherii florentinus et exul inmeritus scelestissimis Florentinis intrinsecis»), e anche nella VII, indirizzata proprio all’imperatore, nella quale non solo «Dantes Alagherii Florentinus et exul inmeritus», ma «omnes Tusci qui pacem desiderant» si prostrano ai piedi di Arrigo1.

È questa, per altro, una formula tutt’altro che pacifica, come è stato spesso osservato, e che richiede qualche spiegazione2. Dante, in effetti, non fu mai formalmente condannato all’esilio: istituto, e lessema, ignoto alla giurisdizione comunale fiorentina. Il cosiddetto Libro del Chiodo, adesso nell’Archivio di Stato di Firenze, ci ha conservato i verbali del processo che escluse Dante dalla sua città: e dove non si parla mai di esilio. La prima condanna che riguarda Dante è del 27 gennaio: la firma Cante Gabbrielli da Gubbio, il podestà, assistito da Paolo da Gubbio, il giudice deputato «ad officium super baratteriis, iniquis extortionibus et lucris illicitis». Dal suo burocratico latinorum la strategia della rappresaglia politica è trasparente: ma non è l’esilio. La sentenza fa riferimento a una precedente citazione in giudizio di Dante e dei suoi compagni di priorato – i quali, «citati et requisiti» perché si presentassero «ad se defendendum et excusandum», non si sono fatti vedere: «et non venerunt». D’altronde, di quali reati venivano accusati Dante e gli altri priori? Non proprio di reati comuni: di avere commesso, durante l’ufficio del priorato e anche «officio prioratus deposito», «baractarias, lucra illecita, iniquas extortiones»; del fatto di essersi messi in tasca dei soldi («receperunt pecuniam»), e, più grave di tutto, di essersi fatti pagare al fine di fare opposizione al sommo pontefice e all’arrivo a Firenze di Carlo di Valois («pro resistentia sui adventus», per opporsi alla sua venuta). La contumacia degli imputati viene sbrigativamente letta dal tribunale del podestà come un’ammissione di colpevolezza («propter ipsorum contumaciam habitus pro confessis…»), e scatta quindi la pena. Dante e gli altri condannati «restituant estorta illecite», restituiscano il maltolto, paghino entro tre giorni una multa di 5000 fiorini piccoli (pena la devastazione e confisca dei loro beni) e in ogni caso, anche se corrispondono in tempo la multa, rimangano esclusi dai pubblici uffici; infine, ciascuno di loro «nicchilominus stare debeat extra provinciam Tuscie ad confines dobus annis». Dante non si presentò a pagare, e non si sottomise al confino. Passarono più di tre giorni.

Passarono quasi tre mesi, finché il Libro del Chiodo non registrò un’altra sentenza a carico di Dante. È il 10 di marzo, e lo stesso Cante Gabbrielli da Gubbio, confermata la condanna per baratteria, inique estorsioni e lucri illeciti, condanna stavolta Dante e gli altri imputati alla sentenza di morte sul rogo: «si quis predictorum ullo tempore in fortiam dicti communis pervenerint talis perveniens ingne comburatur sic quod moriatur»3.

Ora, il bando dei perdenti, a Firenze, non era certo una novità. Anzi, l‘andare e il tornare dei cittadini appartenenti ai diversi partiti era diventato abituale, e scandiva dolorosamente, ma con una certa tal quale prevedibilità, la vita politica dei comuni tardo duecenteschi. Nella “coda” fiorentina che conclude la celebre invettiva/lamento sulle condizioni dell’Italia contemporanea di Purgatorio VI («Ahi serva Italia, di dolore ostello…»), Dante rappresenta la sua città tormentata da una cronica instabilità istituzionale, come un’ammalata che si rigira di continuo sul suo letto di dolore:

E se ben ti ricordi e vedi lume,

vedrai te somigliante a quella inferma

che non può trovar posa in su le piume,

ma con dar volta suo dolore scherma.

(Purg. VI, 148-51)

Perché Firenze cambia di continuo non solo leggi, norme, istituzioni, ma perfino la sua composizione demografica:

Quante volte, del tempo che rimembre,

legge, moneta, officio e costume

hai tu mutato, e rinovate membre!

(Purg. VI, 145-47)

Membre, cioè membri, gente, popolazione; Firenze è una città in cui da un giorno all’altro non si sa nemmeno quali o quanti siano i suoi cittadini, tanto frenetico è diventato il ritmo di bando/ritorno delle parti. È il motivo al centro del celebre rinfaccio, in Inferno X, tra Dante e Farinata:

Com’ io al piè de la sua tomba fui,

guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso,

mi dimandò: «Chi fuor li maggior tui?».

Io ch’era d’ubidir disideroso,

non gliel celai, ma tutto gliel’ apersi;

ond’ ei levò le ciglia un poco in suso;

poi disse: «Fieramente furo avversi

a me e a miei primi e a mia parte,

sì che per due fïate li dispersi».

«S’ei fur cacciati, ei tornar d’ogne parte»,

rispuos’ io lui, «l’una e l’altra fïata;

ma i vostri non appreser ben quell’ arte».

(Inf. X, 40-51)

L’aspro rimbecco di Dante, come si ricorderà, ammutolisce, sul momento, il grande Farinata: permettendo l’intermezzo in cui affiora, al bordo del sepolcro, Cavalcante dei Cavalcanti: «Allor surse a la vista scoperchiata/ un’ombra, lungo questa, infino al mento…». Ma esaurito, in una serie di reciproci fraintendimenti, il dialogo fra Dante e il padre del suo “primo amico”, Farinata riprende imperturbato il discorso:

Ma quell’ altro magnanimo, a cui posta

restato m’era, non mutò aspetto,

né mosse collo, né piegò sua costa;

e sé continüando al primo detto,

«S’elli han quell’ arte», disse, «male appresa,

ciò mi tormenta più che questo letto.

(Inf. X, 73-78)

Si allude qui, naturalmente, ai bandi che avevano colpito i guelfi (nel 1248 e nel 1260, dopo la sconfitta di Montaperti) e i ghibellini (nel 1251, subito dopo la morte di Federico II, e poi dopo Benevento, nel 1266). Lo scambio di battute illustra magnificamente come Dante deve aver vissuto, all’inizio, le sue vicissitudini di bandito dalla città, vittima della disgrazia del suo partito. Come una delle tante alternanze di potere a cui la città era ben abituata: e d’altronde, dobbiamo forse ricordare che durante il suo sventurato bimestre da priore, fra il 15 giugno e il 15 agosto 1300, proprio a lui era toccato di firmare l’espulsione da Firenze di Guido Cavalcanti? Bandi, rientri, facevano parte di un regime politico che certo non poteva sorprenderlo. E questo spiega il suo necessario intrupparsi nella Universitas Alborum, cioè nell’ufficiale partito dei Bianchi banditi, lui che proprio bianco forse non era mai stato, quanto, piuttosto, uomo al di sopra delle parti; spiega la sua attiva partecipazione ai tentativi della Universitas di tornare in città, per amore o per forza; spiega la sua presenza autorevole al convegno di fondazione della resistenza “bianca” di San Godenzo, nel giugno del 1302; la sua missione presso Scarpetta Ordelaffi a Forlì, in cerca di un capitano che prendesse il comando delle operazioni militari dei fuorusciti. Insomma, ci mostra la sua persuasione che ciò che gli era toccato era uno dei tanti rivolgimenti delle parti, a sua volta ribaltabile, com’era sempre successo – sino, naturalmente, al momento della disillusione, quando quella Universitas Alborum, incaponita in una strategia di ritorno in armi ormai rivelatasi fallimentare, non apparirà ai suoi occhi la compagnia malvagia e scervellata che Cacciaguida profetizza in Paradiso XVII:

E quel che più ti graverà le spalle,

sarà la compagnia malvagia e scempia

con la qual tu cadrai in questa valle;

che tutta ingrata, tutta matta ed empia

si farà contr’ a te; […]4

(Par. XVII, 61-65)

Ma già nel dialogo con Farinata sembra che Dante abbia intuito che qualcosa di diverso si era mosso nella politica fiorentina. Quando Farinata, quasi con disarmante ingenuità, chiede: «E se tu mai nel dolce mondo regge, / dimmi: perché quel popolo è sì empio/ incontr’ a’ miei in ciascuna sua legge?» (Inf. X, 82-84), egli si riferisce di certo al severo trattamento riservato dalla Firenze guelfa alla sua famiglia, alle sue stesse case: rase al suolo, in quella che sarà poi Piazza della Signoria, proprio sull’area dove sarà edificato, in una sorta di eloquente contrappasso edilizio, Palazzo Vecchio. Ma forse il Farinata di Dante allude anche a qualcosa di più specifico: al modo della vendetta guelfa, che nel suo caso non si era limitato, al solito, all’appropriazione dei beni degli sconfitti, ma che l’aveva autorizzata con i crismi di una apparentemente imparziale legalità. Manente degli Uberti, detto Farinata, era morto nel 1364, un anno prima della nascita di Dante – e, fortunato lui, prima di quella battaglia di Benevento la quale, nel 1266, con la morte di Manfredi di Svevia, avrebbe determinato il tracollo delle sorti imperiali, in Italia, e avrebbe messo fine al sessennio di potere ghibellino, a Firenze.
Farinata era morto il 27 aprile del 1264, come registra il venerabile manoscritto dell’Opera del Duomo noto come Necrologio di santa Reparata. Ma, come ci hanno avvertito gli archivisti dell’Opera, quel venerabile manoscritto non è un sepoltuario, è un libro di sagrestia. Ciò significa che il suo scopo non è registrare la data di morte e di sepoltura dei defunti, ma il giorno della loro dipartita: tant’è vero che nella maggior parte dei casi si registra il giorno (numero e mese) della morte, ma non l’anno. Il manoscritto infatti serviva ai canonici come memoria delle date in cui andavano celebrate le messe di suffragio per i defunti.
L’indizio sembra minimo, ma a mio parere non lo è: significa infatti che Manente degli Uberti detto Farinata scese nella terra consacrata intorno all’antica cattedrale indenne dalla fama di eretico e di patarino con cui Dante stesso lo ha consegnato alla nostra ammirazione di lettori della Commedia. In effetti solo dopo ben 19 anni, nel 1283, Farinata, e sua moglie Adalieta, furono processati postumamente, e condannati come eretici e patarini, in un procedimento giudiziario che era evidentemente nient’altro che un’astuzia della Parte Guelfa per mettere le mani su quanto restava del patrimonio degli Uberti.
Insomma, la violenza politica, e la vendetta politica, nel caso di Farinata, comincia ad ammantarsi di legalità; l’avversario diventa un nemico non da battere ma da distruggere moralmente: un caso tipico, diremmo oggi, di character assassination5. Il che è ciò che avviene, evidentemente, nel caso di Dante e della sua accusa di baratteria. È stato osservato che Dante, parlando del suo esilio, non fa mai riferimento specifico a questa accusa, e non nomina mai questo crimine. È stato anche osservato come, nell’assegnare una delle bolge infernali al peccato di baratteria, e nonostante che alla visita di quella bolgia Dante riservi, nella Commedia, una estensione testuale molto vistosa (due canti e mezzo, il XXI, il XXII e buona parte del XXIII), egli si astenga qui da ogni implicazione autobiografica: eppure l’occasione era prelibata, fatta apposta per una di quelle profezie post eventum di cui Dante dissemina il suo racconto. Questa reticenza, e il carattere stilisticamente eccezionale dei canti dei barattieri – sono i canti farseschi dei diavoli spernacchianti e – si licet – scoreggioni – hanno fatto versare molto inchiostro, e hanno fatto avanzare tutte le interpretazioni immaginabili e, come è stato spiritosamente detto, qualcuna anche non immaginabile6. Fino al punto che si è perfino tentato di derubricare questi barattieri infernali a ribaldi generici, negando trattarsi di peccatori che condividono, con Dante, la natura del crimine di cui era stato accusato7.

Un momento de “La Divina Commedia Opera Musical”, Teatro Politeama, Catanzaro, 2020

Ma la reticenza dantesca, nel resto dei suoi scritti, e in questi canti così provocatoriamente vicini al suo vissuto, può spiegarsi, mi pare, in altro modo. Ovvero, che Dante non volle mai riconoscere la liceità di trasformare la lotta politica in battaglia legale. Non volle mai lasciarsi implicare in un contenzioso giuridico deciso in partenza, e da cui sarebbe uscito sconfitto, con una sentenza scritta a priori. Questo spiega il suo rifiuto a comparire in tribunale, la prima e la seconda volta; questo spiega la sua iniziale partecipazione alla revanche dei Bianchi; questo spiega, credo, la sua ripulsa anche soltanto a nominare, o a prendere in considerazione, il crimine di baratteria che gli era stato imputato: un crimine degno della “trombetta” di Barbariccia, non della sua menzione. Dante, in altre parole, poteva riconoscere l’aperta asprezza di una lotta politica anche sanguinosa; ma rifiutò sempre di sottoporsi alla violenza della legge. Su questo piano egli non volle mai nemmeno difendersi, preferendo elaborare per sé un’altra irrinunciabile identità, un altro mito autobiografico: quello dell’esule.

Tu lascerai ogne cosa diletta

più caramente; e questo è quello strale

che l’arco de lo essilio pria saetta.

Tu proverai sì come sa di sale

lo pane altrui, e come è duro calle

lo scendere e l salir per l’altrui scale.

(Par. XVII, 55-60)

Le parole di Cacciaguida affondano nella carne dell’escluso dalla città e da ogni cosa cara: ma l’escluso, una volta abbandonato il sogno di rientrare a Firenze attraverso i consueti rivolgimenti delle forze politiche e militari in campo, non accetterà mai di piegarsi all’ipocrisia giuridica con cui Firenze continuava a maneggiare il suo caso. Meglio, allora, ritagliarsi la figura inedita dell’exul: rifugiarsi nell’exemplum romano dei grandi espulsi (in primo luogo naturalmente il suo amatissimo e imitatissimo Ovidio); meglio invocare, nelle parole dello stesso Cacciaguida, l’antecedente mitico di Ippolito, tradito da una maligna “noverca”:

Qual si partio Ipolito d’Atene

per la spietata e perfida noverca,

tal di Fiorenza partir ti convene.

(Par. XVII, 46-48)

Questo, naturalmente, spiega anche il rifiuto di accettare l’amnistia del 1315, e di accomodarsi ai consigli di quanti, a Firenze, lo invitavano ad accettare l’occasione di tornare in città8. E di che si trattava, dopo tutto? Pagare un’ammenda, vestirsi di sacco, sottoporsi a una cerimonia un po’ umiliante in Battistero… e, naturalmente, ammettere che il giudice Cante Gabbrielli da Gubbio aveva ragione, che i crimini di cui era stato accusato erano veri, e chiederne grazia. Ma la grazia la richiedono e l’accettano i criminali, riconoscendosi tali – non gli innocenti.

Ecco dunque ciò che dalle lettere vostre e di mio nipote nonché di parecchi altri amici mi è stato comunicato, per l’ordinamento testé fatto a Firenze sull’assoluzione degli sbanditi [super absolutionem bannitorum]: che se volessi pagare una certa quantità di denaro [certam pecunie quantitatem] e volessi sopportare la vergogna dell’offerta [notam oblationis], e potrei essere assolto e ritornare subito.

È questa la grazia del richiamo con cui Dante Alighieri è richiamato in patria dopo aver patito quasi per tre lustri l’esilio? Questo ha meritato una innocenza evidente a chiunque? Questo i sudori e le fatiche continuate nello studio?

Lungi da un uomo familiare della filosofia una bassezza d’animo a tal punto fuor di ragione da accettare egli, quasi in ceppi, di essere offerto, a guisa di un Ciolo e di altri disgraziati. 

Lungi da un uomo banditore della giustizia il pagare, dopo aver patito ingiustizie, il suo denaro agli iniqui come a benefattori.

Non è questa la via del ritorno in patria [Non est hec via redeundi ad patriam], o padre mio; ma se una via diversa da voi prima o poi da altri si troverà che non deroghi alla fama e all’onore di Dante, quella non a lenti passi accetterò; che se non si entra a Firenze per una qualche siffatta via, a Firenze non entrerò mai [numquam Florentiam introibo].

E che dunque? Forse che non vedrò dovunque la luce del sole e degli astri? [Quidni? nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam?] Forse che non potrò meditare le dolcissime verità dovunque sotto il cielo [ubique sub celo], se prima non mi restituisca alla città, senza gloria e anzi ignominioso per il popolo fiorentino? Né certo il pane mancherà [Quippe nec panis deficiet]9.

Così, nella sua celebre Epistola XII, indirizzata a un non meglio identificato «amico fiorentino», Dante respinge l’offerta, e la tentazione, di tornare a Firenze. In questo modo certo l’esilio, alla fine, fu una scelta, una scelta di libertà. Ma questo rifiuto della grazia è anche l’ultimo gesto con cui Dante rimane fedele al suo vecchio personaggio di uomo del Comune: disposto ad accettare la violenza della politica, ma non la violenza della legge. In quel gesto, in quel rifiuto, c’è dunque, mi sembra, perfino qualcosa di più, e di diverso, rispetto alla rivendicazione di una dignità personale offesa. C’è il rifiuto di accettare una distorsione profonda del vivere civile: la trasformazione dell’avversario politico in criminale, il tentativo di cancellarlo per via legale. Questa, forse, è la lezione più preziosa che ci viene dall’esilio di Dante e da quella firma – exul inmeritus – in cui egli volle dare una sigla verbale a quell’esilio, e a quella scelta.


NOTE

  1. Le lettere di Dante sono agevolmente accessibili, nell’originale latino e nella traduzione italiana, sul sito danteonline.it della SDI (Società Dantesca Italiana), che segue l’edizione a cura di Arsenio Frugoni e Giorgio Brugnoli (Ricciardi, Milano-Napoli 1996).
  2. Si veda, a proposito dell’uso di exul e dell’intera ideologia dantesca dell’esilio, il contributo di Sabrina Ferrara, La parola dell’esilio. Autore e lettori nelle opere di Dante in esilio, Cesati, Firenze 2016.
  3. I verbali dei processi a cui qui si fa riferimento si leggono adesso nella nuova edizione del Codice Diplomatico Dantesco, a cura di T. De Robertis, G. Milani, L. Regnicoli e S. Zamponi, Salerno Editrice, Roma 2016, pp.212-20, Documenti 134 e 135.
  4. Per una ricostruzione di questi primi anni dell’esilio dantesco, si vedano, fra le molte biografie dantesche (particolarmente numerose in questo anno anniversario), quelle più scientificamente attendibili: M. Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Mondadori, Milano 2012; G. Inglese, Vita di Dante. Una biografia possibile, Carocci, Roma 2015; A. Barbero, Dante, Laterza, Bari-Roma 2020.
  5. A questo proposito, rimando al mio contributo Messe di suffragio (e due “grossi” proverbi) per Farinata degli Uberti, in Studi di letteratura italiana in onore di Gino Tellini, SEF, Firenze 2018, pp.33-51.
  6. Così L. Pertile, Un esperimento eroicomico, in Esperimenti danteschi, Inferno 2008, Marietti 1820, Torino 2009, pp.170-71.
  7. Esemplare di questa posizione critica lo studio di M. Picone, Giulleria e poesia nella “Commedia”: una lettura intertestuale di Inferno XXI-XXII, in Letture Classensi, Volume diciottesimo, Longo Editore, Ravenna 1989, che cerca di istituire una catena tanto raffinata, quanto, a mio parere, insostenibile, tra le figure del barattiere, del ribaldo, e del giullare: «Possiamo forse tirare le fila della nostra inchiesta sull’entroterra “poetologico” della baratteria dantesca. Tale peccato qualifica per l’auctor un tipo di persona che fa dell’impostura ideologica e della falsificazione segnica il suo marchio di appartenenza, caratterizza cioè quei chierici e quegli intellettuali che, avendo accesso alla parola, la manipolano sistematicamente, facendola servire non alla veritas (della quale il poeta-pellegrino è alla ricerca), ma al suo opposto, alterando per utilità personale il legame sacro che corre fra significanti e significati; insomma contraffacendo il segno linguistico: proprio quello che Dante icasticamente coglie con la formula “del no per li denar vi si fa ita”» (p.16). Insomma, secondo Picone i barattieri della quinta bolgia non sarebbero politici corrotti, ma “manipolatori” del linguaggio, e pertanto lontani dal crimine imputato a Dante; il che spiegherebbe la reticenza del poeta a proposito della vicinanza fra il peccato qui punito e il delitto che gli era costato l’esilio.
  8. Una prima amnistia promulgata il 2 settembre 1311 (la cosiddetta Riforma di Baldo d’Aguglione) aveva esplicitamente escluso Dante; una seconda, invece, nel maggio-giugno 1315, gli offriva la possibilità di ricevere il perdono della città, ma a condizioni umilianti, che Dante non volle accettare. Si vedano i documenti relativi alle due amnistie in Codice Diplomatico Dantesco, cit., pp. 308-16, Documenti 170-172; per il rifiuto di Dante, si veda l’epistola XII, di cui qui alle pagine successive.
  9. Anche qui si ricorre al testo delle epistole (originale e traduzione italiana) accessibile nel sito della Società Dantesca, già citato.
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Riccardo Bruscagli

è Professore Emerito di Letteratura Italiana presso l’Università di Firenze. Allievo di Lanfranco Caretti, a Firenze ha svolto tutta la sua carriera, ricoprendo anche varie cariche di governo (Direttore della SSIS Toscana, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia). I suoi studi, dopo un esordio ottocentesco (sulle lettere di Carducci), si sono rivolti soprattutto alla letteratura del Rinascimento: poema cavalleresco (Boiardo, Ariosto, Tasso), novellistica (Lasca, Bandello, Giraldi) teatro, Machiavelli. Più di recente si è accostato agli studi Danteschi, con vari saggi e un nuovo commento alla Divina Commedia (2011, 2021).

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