«Le storie – scrivevamo nel quaderno di lavoro della terza edizione del convegno, nel 2011, – se usate consapevolmente, possono diventare degli straordinari strumenti per mettere ordine e dare un senso alle esperienze, per immaginare il futuro e gestire le scelte, per costruire la propria identità e quella dei gruppi di cui facciamo parte». Convinti del valore degli approcci narrativi all’orientamento, in ambito educativo e formativo, nei servizi alla persona, nel volontariato, nelle organizzazioni e nello sviluppo dei territori e della comunità, abbiamo ritenuto opportuno, fin dalla prima edizione (che si è tenuta a Grosseto e ad Arezzo nella primavera del 2007), favorire la ricerca e il dibattito su questi temi, che non andavano, e ancora oggi non vanno, lasciati in mano a chi quotidianamente ricorre alle pratiche narrative e alle storie per creare consenso, per manipolare l’opinione pubblica o per rendere più appetibili determinati prodotti.
Anche se – o proprio perché – oggi tutto sembra ridursi a “narrazione” e a “storytelling” e se questi termini, logorati dall’uso, hanno perso la loro efficacia, riteniamo ancora importante lavorare alla messa a punto di strumenti concettuali e operativi che, proprio grazie alle pratiche narrative e alle storie, contribuiscano ad aumentare la percezione di controllo e la capacità interpretativa delle persone, aiutandole a dare un senso all’esperienza e a immaginare futuri possibili, ovvero – per ricorrere a un’altra parola abusata, e tuttavia ancora necessaria – rafforzando il loro empowerment.
Quel che ci preme evidenziare, in occasione di questa nona edizione del convegno, è il valore necessariamente sociale dell’empowerment personale e attraverso un lavoro comunitario, che trova la sua massima realizzazione nell’empowerment della comunità stessa. Vorremmo mettere l’accento sul “con”, sull’insieme, un insieme che non si costruisce “contro” qualcuno o qualcosa, in competizione con o a spese di qualcuno o qualcosa, ma nella progressiva condivisione di storie e significati, nei confronti con le storie altre, il che rende l’esperienza educativa e di istruzione (e le esperienze di orientamento e sviluppo che si fanno al suo interno) l’unico luogo dove questo può avvenire per tutte e tutti.
Le storie disponibili e la varietà delle stesse, lo abbiamo detto in altre edizioni, fanno la differenza per i singoli soggetti; le storie che vengono veicolate e condivise fanno la differenza per una comunità.
Siamo in un momento storico in cui il concetto di merito assume connotazioni ideologiche tese a promuovere una visione segregazionista e classista della società, che contribuisce a creare e mantenere un ordine sociale in cui qualcuno – più “adulto”, più forte, più “maschio”, più bianco, più etero, o semplicemente preesistente – si arroga il diritto ed esercita il potere di premiare i meritevoli e di punire o lasciare indietro gli immeritevoli. Il merito si acquisisce per differenza dagli altri (anche laddove le distanze percorse sono molto differenti) e, spesso, si acquisisce perché si è in grado di calcare i modelli. Merito e riproduzione dell’esistente, in questa visione, vanno di pari passo. Anche per questo è il caso di ribadire la necessità di lavorare alla costruzione di comunità in cui sia riconosciuto il valore di ogni singola voce, e in cui i significati condivisi diventino esito di processi plurali di ascolto e attribuzione di significato.
Il partigiano, maestro e intellettuale Bruno Ciari (1923-1970), di cui quest’anno celebriamo il centenario, ha voluto mettere al centro della sua opera maggiore, Le nuove tecniche didattiche (1961), proprio questa idea di comunità come fine e come motore dell’azione educativa. In principio c’è il bambino (la persona) con il suo mondo interiore, con la sua specifica esperienza e con la sua cultura. Non siamo di fronte a un bambino-modello, una figura astratta, o a un pubblico: abbiamo a che fare con un bambino concreto, con una bambina concreta, esattamente con quella persona, che si trova in mezzo ad altre e deve trovare da subito il modo e l’occasione per esprimersi in modo autentico, affinché la scuola – ma il ragionamento vale per qualsiasi altro ambiente di apprendimento o contesto di cura – non sia un guscio vuoto ma un “ambiente di vita”, in continuità con l’ambiente di provenienza, da cui si distingue proprio per la dimensione comunitaria.
Questa dimensione deve essere costruita attraverso tecniche didattiche che diano la possibilità di esprimersi in modo sempre più competente, dietro la spinta fondamentale della comunità stessa, perché l’espressione – che nel nostro caso potremmo oggi definire narrazione (testo orale, testo libero, drammatizzazione) – è inevitabilmente sociale, ed esiste solo quando esiste qualcuno disposto a prestare ascolto.
Si leggano infine le parole dello stesso Ciari (1961):
Non si dovrebbe scrivere per il maestro, affinché faccia sul testo dei segnacci rossi o dia il suo voto, ma per comunicar qualcosa agli altri, vicini e lontani, e per fermare il proprio pensiero in modo da serbarlo come un patrimonio prezioso. In ogni caso, sia che il pensiero assuma la forma del racconto libero, o quella del diario, della corrispondenza, della relazione, della poesia o della novella, la sua destinazione è la comunità sociale della classe prima di tutto, e poi comunità più remote, in sempre più vasto orizzonte.
In principio, dunque, è l’individuo gettato nella comunità, che attraverso l’interazione acquisisce la lingua, le lingue, la capacità e il desiderio d’esprimersi. Poi – in un contesto sociale sempre più dominato da grandi agenzie narrative che invadono ogni spazio vitale con le loro storie – occorre che una qualche figura adulta intervenga a creare le condizioni affinché quella potenzialità espressiva e narrativa venga esercitata e allenata, non per crescere tanti tecnici o professionisti dell’industria culturale o della politica, ma per creare le condizioni affinché ogni persona possa dare significato a ciò che vive e imprimergli la propria autorialità, perché ogni voce possa essere ascoltata e quindi per dare valore alla propria voce, alla propria storia. L’esercizio narrativo, dunque, quale che sia la tecnica usata per l’allenamento, è una pratica di condivisione e socializzazione che nasce nella e dalla comunità e alla comunità ritorna. Costruire storie, persino le nostre storie, non può mai essere una pratica solipsistica, né tantomeno dovrebbe contribuire alla creazione di gerarchie o discriminazioni, di storie uniche, di “superuomini”, chiusi in un’adolescenza senza fine. Costruire storie oggi, letteralmente, significa costruire futuro, il futuro si può costruire solo insieme.
Link al programma: http://www.lestoriesiamonoi.eu/
La partecipazione è gratuita, l’iscrizione obbligatoria http://www.lestoriesiamonoi.eu/le-storie-siamo-noi-2023-iscrizione-2/
La nona edizione del convegno “Le storie siamo noi” è organizzata dalle associazioni L’Altra Città e Pratika in grazie al contributo del Comune di Follonica e in collaborazione con Fondazione per la Scuola, con il patrocinio del Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne dell’Università degli Studi di Siena e del Dipartimento di Filosofia, scienze sociali, umane e della formazione dell’Università degli Studi di Perugia.
“La ricerca” è media partner del convegno.