1. Alcune settimane fa, a scuola (era una di quelle lezioni che si fa con il pilota automatico, Naturalismo/Verismo, differenze/affinità, Zola/Verga) un alunno alza la mano e fa una domanda: «Prof lei ha detto che il romanzo verista e naturalista vuole descrivere il così com’è, ma come è possibile descrivere il così com’è? Quello che allora era un così com’è non lo è oggi, già solo per questo motivo non può esistere un così com’è?».
La domanda mi ha lasciato perplesso, perché io avevo parlato del così com’è, ma non avevo specificato cosa intendessi con tale espressione, e cercando di venirne a capo, come spesso mi accade, mi sono ritrovato a ragionare e a scriverne, tenendo vicino a me due libri che, per strano caso della sorte, sembravano fare al caso mio. Il primo testo a cui mi riferisco è Scrivere la realtà. L’arte del saggio perfetto (il Saggiatore, Milano 2023, trad. Andrea Sirotti) di Brian Dillon, e il secondo è Le matrici della natura. Tredici quesiti su letteratura e realtà (Mimesis, Milano 2021) di Maurizio Clementi.
2. Entrambi i saggisti si sono posti il problema del così com’è, ovviamente usando una diversa terminologia, che però tocca il tema essenziale, che è quello dello stile, della scrittura come lavoro di stile e di resa: chiedersi come si possa scrivere la realtà (Dillon) o quali rapporti ci siano tra la natura e la letteratura (Clementi) ha a che fare in maniera principale con lo stile, con questo oggetto ondivago e non completamente distinto della critica letteraria che mischia e mette insieme la scelta delle parole, il loro ordine all’interno di una frase, il suono che producono, il significato che realizzano con il loro essere affiancante, la predilezione di un dato autore per alcuni suoni/parole rispetto ad altri, il montaggio delle frasi, le scelte verbali etc etc: ovvero la specificità con cui un dato autore scrive una data frase. A partire da questo Dillon scrive
E poi, cosa intendo esattamente per “stile”? Forse non è altro che uno stimolo, un’aspirazione, un goffo attacco di ammirazione, una cotta. Per cosa? Per l’idea stessa. Forma e struttura salvate del caos, la loro precisione e stravaganza, l’azzardo, in ultima analisi la distanza, quella che penso non potrei mai ottenere. […]. Cos’è che voglio da te? […] La peggiore verità, la più dolorosa, espressa nel modo più eloquente – o magari più strano – possibile. (p. 58)
Forma e struttura salvate dal caos, distanza, eloquenza: sono queste le possibili coordinate dello stile in Dillon, che, pur nella sua prosa svagata al limite del colloquiale, mette al centro il dato letterario, la scrittura, il ritorno all’opera: scrivere un saggio è, lapalissianamente, scrivere un saggio, ovvero un testo che rappresenta linguisticamente la realtà. La letteratura non potrebbe essere quindi altro che una rappresentazione della realtà, il suo continuo trafficare con il reale, come bene ci ricorda nel suo mirabile saggio Mimesis Auerbach.
E proprio da Auerbach prende le mosse Clementi, facendo un lavoro interessante: legge alcuni testi, alcuni momenti di particolari opere della letteratura occidentale (di Omero, Dickens, Shakespeare, Cervantes, Baudelaire…) e li analizza in base ai problemi che pongono dal punto di vista della rappresentazione della realtà, nel momento in cui si “scontrano” con il reale che rappresentano. Ognuno dei tredici brevi saggi che compongono il libro si apre con un quesito che interroga noi lettori, anzi, che dovrebbe sorgere da noi lettori: Clementi è convinto che la risposta a queste domande di realtà sia insita nel testo e nella sua lettura. Pur da un’altra prospettiva, siamo ancora all’interno di una questione di stile; ciò è evidente nel Quesito 8, in cui si chiede «Perché riconosciamo immediatamente la situazione emotiva de La passante di Baudelaire?». Qui trovo illuminati le pagine in cui Clementi si sofferma sull’uso di verbi, in particolare sull’incipit all’imperfetto e la chiusura della poesia con un congiuntivo, ancora, imperfetto. Questa scelta stilistica, scegliere un tempo verbale, è un’opzione stilistica primaria, e sta a significare che
la crudeltà dell’incontro con la Bellezza e della consapevolezza della sua impossibilità. […] Quell’apoftegma finale, “tu le savais”, certifica l’impossibilità dell’amore nell’epoca contemporanea, e stabilisce in modo incontrovertibile e disturbante l’età della crudeltà emotiva e dell’indifferenza necessaria. (pp. 70-71)
3. A una prima ricognizione il così com’è pare abbastanza chiaro: è la scelta di poter dire tutta la realtà, la possibilità di sviluppare un discorso coerente in cui la realtà sia rappresentabile. Dillon per descrivere questa tensione usa il termine attenzione. Potremmo dire che il così com’è è una sorta di attenzione particolare, una forma di cura, una capacità dell’autore di restituirci il mondo e la realtà. Parlando dell’attenzione Dillon scrive
Questo è un effetto curioso del saggio come esperimento di attenzione: si allontana invariabilmente dagli oggetti a portata di mano per entrare nei domini della speculazione e persino della fantasia, perché questa è la libertà che tale attenzione permette. (p. 176)
A queste parole sembra fare eco Clementi nelle sue conclusioni, quando descrivere
una tonalità generale, che accomuna davvero tutti i grandi della letteratura occidentale […]: l’osservare la realtà per sviscerarne in contenuti filosofici, o in altre parole, il ricercare la verità nella realtà, fin nei suoi minimi dettagli, e a questa urgenza piegare il linguaggio, la forma e il genere specifico. […] Il mezzo prescelto per ciascuno di essi, la prosa, il teatro o la poesia, è solo una questione di sensibilità soggettiva che non inficia la comune finalità di ricerca. (p. 118)
Mi pare che le citazioni individuino un luogo d’attrito, rappresentato in Dillon dal passaggio dell’attenzione dal reale alla fantasia e in Clementi dal superamento dello stile/genere/modo per diventare, infine, una ricerca della verità. Il così com’è, quindi, lungi dall’aver trovato una sua possibile definizione, ci sfugge; in questa sua ritrosia nel farsi incanalare ci riporta a un dato fondamentale dello scrivere, che Bachtin tratteggia nel suo saggio Dalla preistoria della parola romanzesca (da Estetica e romanzo, trad. C. Strada Janovic, Einaudi, Torino 2001): «Come un uomo non coincide interamente con la sua situazione concreta, così il mondo non coincide interamente con la parola che lo descrive».
Parola e mondo, letteratura e reale non coincidono, e la domanda iniziale del mio alunno rimane inevasa; entrambi i saggi hanno mostrato come scrivere la realtà, ciò che io chiamo il così com’è, sia un’operazione che produce interrogazione più che risposta; eppure, come Dillon giustamente nota,
il nostro scrivere saggi è comunque un tentativo seppur parziale di fornire una risposta. Potremmo azzardare, quindi, a pensare il così com’è – ovvero il descrivere la realtà- come una produzione creativa che avviene in opposizione con la realtà stessa. Ovvero: e se il così com’è segnasse una sorta di rottura con il reale, con quello che veramente abbiamo davanti agli occhi? Se la letteratura, molto più che le altre arti (forse perché ha a che fare con il linguaggio e la parola scritta), fosse proprio questa opposizione al reale?
4. Il così com’è, quindi, potrebbe essere una marca non tanto del realismo, ma qualcosa di irrisolto che andiamo cercando nella letteratura e che qui trova il suo riscatto: ci illudiamo di essere realisti, ma tra la letteratura e la realtà c’è un vero e proprio dissidio. Cesare Pavese, nel Mestiere di scrivere, annota: «La letteratura non si contrappone a “senso pratico” ma a “senso del reale”…». È interessante evidenziare il termine contrappone: la letteratura non ha niente a che vedere con il senso del reale, della realtà come organizzazione logica e sensata di ciò che viviamo quotidianamente. La letteratura è in contrapposizione al reale, a ciò che è: questo non significa che il reale non esista, che il sole non sorga, che le foglie non cadano, che un grave gettato da una torre non cada con una determinata accelerazione eccetera. La letteratura non abolisce le leggi della fisica o il concreto essere delle cose davanti a noi, ma vi si contrappone. Scrivere è non accettare questa cosa che chiamiamo vita, mondo, esistenza, ma anche bicchiere, piatto, bacio, sesso per com’è, ma è ipotizzare qualcosa altro, che si dà nelle parole che noi usiamo per costruirlo, per renderlo esistente.
Quando scrivo un romanzo non riproduco la realtà, ma contrappongo alla realtà qualcosa, che è altro, fittizio & immaginato, ma altrettanto concretamente esistente. Il romanzo/saggio esiste: è nei fogli scritti, in alcuni casi occupa un posto in uno spazio e produce reazioni concrete in chi lo legge (bellezza, disprezzo, odio, indifferenza). È reale, ma non ha nulla a che fare con la realtà, perché nel momento in cui la descrive è come se si mettesse fuori, come se la guardasse da fuori.
Ciò che accade nella vita – i dolori e le bellezze, i tradimenti e i lutti – diventa nella scrittura qualcosa di totalmente slegato e indifferente a ciò che l’ha prodotto. Anche se mi fossi prefisso di scrivere la cosa così com’è – ad esempio il racconto della morte di mio padre o di mia madre – io non potrò farlo perché, nel momento in cui decidiamo di scrivere il nostro lutto, in quel preciso istante facciamo del nostro lutto niente altro che una funzione narrativa: lo facciamo diventare una ipotesi di montaggio, di frasi, di parole, di sintassi che niente ha a che fare con il corpo morto che vorremmo descrivere (torna, quindi, prepotente il discorso dello stile). Il morto che abbiamo pianto realmente è il morto che racconteremo in pagina; paradossalmente, il morto sulla pagina sarà tanto più convincente quanto ci terremo distanti da quello della vita reale.
Per chi scrive la vita reale è anche una somma di occasioni, dalle quali trarne una sorta di bellezza, di gioia, dolore, o angoscia, come spiega bene Dillon quando ragiona sulla bellezza degli elenchi come un’improvvisa verticalità nel flusso orizzontale della narrazione (Dillon p. 32). Questa è un’intuizione fondamentale dell’opposizione tra reale e letteratura; se tale scontro fosse, in primo luogo e originariamente, una contrapposizione spaziale? La narrazione è un procede in orizzontale, pochi esempi per chiarire: esce Chisciotte e vede la sterminata pianura davanti a sé, sulla spiaggia Telemaco pensa a suo padre e guarda l’enorme distesa del mare che lo separa da lui. La verticalità, al contrario, interrompe il flusso della narrazione, pensiamo all’elenco delle navi e dei combattenti in Iliade II, lo rallenta, ha a che fare con un’altra tensione tutta diversa. L’elenco è il primo tentativo di scrittura, il primo momento in cui l’uomo pone sé stesso contro il reale, perché prova a enumeralo, a renderlo comprensibile con il segno. Dillon stesso sottolinea: «come scrittore, come saggista, faccio continuamente elenchi. Faccio, non scrivo: perché c’è differenza, il più delle volte, tra l’enumerazione e la scrittura vera e propria» (Dillon, p. 37). L’enumerazione non è ancora la scrittura, perché paradossalmente appartiene alla verticalità del reale, ma è il momento – il primo – in cui facciamo esperienza con la frizione tra il reale e il così com’è.
5. Nel momento in cui scrivo, non vivo il reale, io vivo una lingua e la lingua è un modo per dis-dire il mondo e il reale. La lingua falsifica il mondo e la realtà, la lingua è esperienza del veramente diverso. La lingua, quella della scrittura in particolare, è un modo per dire il mio “no” al mondo, alla vita e alla realtà; la lingua è il mezzo con cui io rifiuto “il mondo così come è”, perché «la convinzione dell’autore è che per troppo tempo l’abitudine storicistica abbia nuociuto alla letteratura […], che nella sua essenza è soprattutto discorso, un discorso di conoscenza, le cui coordinate sono in prima istanza logico-linguistiche ed esistenziali» (Clementi, p. 11). Per parafrasare David Foster Wallace, quell’acqua in cui nuotiamo, il reale, è niente altro che un’impresa linguistica, e questa impresa linguistica è complessa, difficile, e coraggiosa. Tornano alla mente, seppur in contesto diverso, le parole di Virginia Woolf nel suo saggio Sulla malattia: «Quelle grandi battaglie che combatte da solo, nella solitudine della camera da letto contro l’assalto della febbre o l’arrivo della malinconia, vengono trascurate. […]. Per guardare queste cose diritte in faccia ci vorrebbe il coraggio di un domatore di leoni, una filosofia robusta, una ragione radicata».
Il così com’è, che pare un’azione facile, scrivere le cose come sono, è in realtà un’azione di sfida, tanto che spesso siamo così preoccupati dal com’è (il contenuto) da dimenticare la centralità del così (il modo in cui lo si esprime). Non è mia intenzione aprire un discorso su trama e stile, perché l’idea stessa del così com’è sancisce l’importanza di entrambi. È importante far notare come il linguaggio letterario dovrebbe sempre più caratterizzarsi come uno scarto dalla norma, perché è in questo attrito che la forma produce il contenuto: il contenuto nasce perché lo scrittore “adopera” una serie di parole e le mette insieme in una data forma: «Esaminare ogni testo, brano, ogni periodo e chiedersi se il motivo centrale emerge con sufficiente chiarezza. Uno è talmente preso da quello che vuol dire, che si lascia trasportare senza riflettere: è troppo vicino all’intenzione, e dimentica di dire quello che vuole» (Adorno, Minima Moralia). L’essere “presi” dal contenuto è un possibile vizio della letteratura contemporanea, attenta spesso a veicolare il messaggio. Il continuo tentativo di dire la storia, la trama, i colpi di scena, i diritti dei lettori, la lingua facile, il marketing, le fascette, i personaggi con le malattie alla moda, il libri sui padri, libri sulle madri, i libri sui figli che parlano dei padri mentre aspettano di diventare genitori, l’insistere sul contenuto e sul messaggio a discapito della forma fanno sì che i romanzi subiscano il potere normante della lingua (per quanto riguarda il potere normante della lingua mi rifaccio al Barthes di Sade, Fourier e Loyola del 1971). La letteratura, il romanzo genere ibrido e indefinibile per eccellenza (sempre Bachtin in Estetica e romanzo) e luogo precipuo dove avviene il così com’è, dovrebbe forzare la lingua, che è regola e costrizione, a tramutarsi in spazio di libertà e dono che è, appunto, il testo letterario, dove possiamo vedere un «bagliore del reale» (Barthes), che ricordiamo essere cosa ben diversa dal reale in sé.
6. Se Dillon aveva trovato nel termine attenzione il suo rapporto tra il reale e la scrittura e se Clementi aveva visto nel discorso, nell’accezione bachtiniana, di un continuo entrare e uscire di lingue, stili e accenti nella struttura della narrazione, allora la mia relazione tra natura e letteratura, il mio così com’è è prettamente paranoico: non cerco nella realtà qualcosa che è dato per quello che è, ma qualcosa che solo io vedo. La letteratura è una forma altissima di paranoia; è il darsi della realtà come solo io la vedo, e così, tramite la lingua, io produco uno scarto con la realtà. Dicendo altrimenti, la paranoia è una sorta di logica che lo scrittore intuisce, ma che non è detto che esista.
Aristotele nella Poetica sostiene che «le trame ben composte non devono cominciare né finire come capita». Questo indica uno scarto enorme rispetto alla vita reale, dimostrando ancora una volta che esiste la vita reale, ed esiste la realtà letteraria della vita. Nella vita reale le cose accadono come capita, nella realtà letteraria della vita ogni cosa è legata a quella precedente e questa cosa si chiama sintassi, grammatica e infine stile.
7. La vita è mostruosa, infinita, illogica, rude e dolorosa; un’opera d’arte è, al confronto, semplice, finita, contenuta, razionale, scorrevole e svirilizzata. […] Una proposizione geometrica non compete con la vita; e una proposizione di geometria è un parallelo buono e luminoso per un’opera d’arte. Sono ambedue ragionevoli, ambedue infedeli al fatto materiale.
L’affermazione di Stevenson (Umile rimostranza sull’arte del romanzo, in Memorie e ritratti (1887), a cura di A. Frateili e F. Cecchi, Bompiani 1947) avvicina con molta eccentricità la letteratura a un postulato geometrico, ma a ben leggerla, però, tale similitudine letteratura=geometria trova il suo senso. È vero che entrambe usino il linguaggio, il proprio, per descrivere qualcosa che è esterno a loro; infatti un postulato geometrico spiega la realtà e nello stesso tempo non fa parte in nessun modo della stessa; idem per la letteratura come abbiamo ragionato e scritto fino a ora.
Il così com’è, se infine dovessi rispondere al mio alunno, è una sorta di postulato letterario: per renderlo chiaro prenderei lo sforzo di Galileo di dover trovare una lingua per esprimere una realtà, a) di cui ignorava l’esistenza e b) che non sapeva come spiegare. Tutta l’opera di Galileo è una sorta di immenso così com’è. Galileo non deve descrivere una realtà “altra” (il portato allegorico di Dante o quello simbolico di Ariosto), ma ha davanti ai suoi occhi un’altra realtà, qualcosa che fino ad allora non c’era, eppure ora è lì. Quel reale è ora “presente” davanti ai suoi occhi stupiti in una delle notti di osservazione e veglia a Padova con il suo cannocchiale.
Potrebbe, quindi, avere ben ragione Stevenson: ogni scrittore è alle prese con un suo postulato, simile a quello geometrico, per descrive qualcosa che gli è completamente alieno. Ogni scrittore, come bene riecheggia nei testi di Clementi e Dillon, vive su di sé tale sforzo, che io riconosco completamente nella prosa di Galileo; si pensi alla fatica di dover rendere comprensibile la descrizione delle lune di Giove o l’esperimento dei gravi. La lingua che allora aveva a disposizione Galileo non era fatta per quello: era lingua adatta alla visione e non una lingua per vedere; era una lingua d’invenzione e non ha lingua che descrivesse ciò che è. È in questo scarto tra la realtà “che” ci accade e il tentativo di rappresentarla “come” essa ci accade, che si definisce almeno inizialmente e a prendere forma e contenuto il così com’è, che potremmo anche definire, infine, realismo.