Con la fisica non ci si annoia

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Dalla scelta di studiare fisica al diventare climatologa e tante altre cose belle.

Mi chiamo Elisa Palazzi, mi sono laureata in Fisica all’Università di Bologna nel 2003 e nel 2008 ho conseguito un dottorato in Modellistica Fisica per la protezione dell’ambiente. Dopo aver lavorato per tanti anni come ricercatrice al Consiglio Nazionale delle Ricerche presso l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima, prima a Bologna e poi a Torino, dal mese di luglio 2021 sono diventata professoressa associata all’Università di Torino. La mia principale disciplina di insegnamento è la fisica del clima: dalla comprensione dei meccanismi che regolano il clima della Terra, a come e perché esso stia cambiando e potrà cambiare in futuro, e con quali conseguenze. Nell’ambito della mia attività di ricerca, tutto questo è declinato sulle regioni di montagna: esse, infatti, sono una cartina al tornasole dei cambiamenti climatici in corso, poiché mostrano una risposta amplificata dell’aumento di temperatura registrato su tutta la Terra. D’altra parte, gli effetti del riscaldamento delle alte quote sono oggettivi e misurabili. In alcuni casi sono anche facilmente percepibili da chiunque (si pensi alla riduzione dei ghiacciai o della neve al suolo), in altri lo sono meno se non si è specialisti (come nel caso della riduzione della biodiversità) ma restano estremamente rilevanti.

Prima di parlare della mia storia, di come sono arrivata fin qui e di dove vorrei andare, mi piacerebbe raccontare quella di una scienziata che ha messo un mattoncino fondamentale nella storia della climatologia, anche se il mondo se ne è accorto con ben 150 anni di ritardo. Si tratta dell’americana Eunice Newton Foote, classe 1819, la prima scienziata che dimostrò sperimentalmente, nel 1856, l’effetto serra. Ho scelto la sua storia non solo per una attinenza con i miei interessi scientifici ma anche perché la trovo stimolante e in parte attuale.

Non si stupisca, chi legge, se non ha mai sentito nominare prima Eunice Newton Foote, perché anche a molti scienziati che si occupano di materie come la fisica dell’atmosfera o la climatologia è rimasta a lungo ignota. Normalmente, infatti, si attribuisce la dimostrazione sperimentale dell’effetto serra, teorizzato nel 1821 da Joseph Fourier, a John Tyndall, che nel 1859 dimostrò il ruolo giocato dal vapore acqueo e da gas come l’anidride carbonica nell’assorbire ed emettere energia termica infrarossa, cioè di provocare l’effetto serra. Per questo Tyndall è ricordato come il «fondatore della climatologia moderna».

Tuttavia pochi sanno ed è ancora poco chiaro se Tyndall stesso lo sapesse che tre anni prima di lui Eunice Netwon Foote condusse un esperimento per rispondere a una questione scientifica apparsa su un volume di «Scientific American» che discuteva le teorie su come il Sole scaldi la Terra. Per portare il suo contributo al dibattito, la scienziata aveva costruito un semplicissimo apparato sperimentale costituito da due termometri identici messi dentro a cilindri di vetro identici e dotati di una pompa per togliere o aggiungere aria al loro interno. L’esperimento consisteva nell’esporre i cilindri al Sole dopo averli riempiti con diversi “tipi” di aria, e nel registrare la temperatura al loro interno una volta lasciato passare un po’ di tempo. Scoprì che in presenza di aria umida (con vapore acqueo) l’interno del cilindro diventava significativamente più caldo che nel cilindro riempito con aria secca. Misurò anche cosa succedeva introducendo gas diversi e osservò che «l’effetto più alto dei raggi del Sole… era nel gas acido carbonico», quello che oggi è noto a tutti come anidride carbonica. In un documento che descriveva il suo lavoro, la scienziata scrisse «Il ricevitore che conteneva questo gas diventava esso stesso molto più riscaldato – molto più sensibilmente dell’altro – e quando veniva rimosso [dal Sole], ci metteva molto di più a raffreddarsi». In sostanza, notò che dopo essere stato rimosso dalla luce diretta del sole, il cilindro con anidride carbonica raggiungeva la temperatura più alta e la manteneva più a lungo degli atri cilindri.

GIi esperimenti di Eunice Newton Foote hanno dimostrato che il vapore acqueo e l’anidride carbonica contribuiscono ad aumentare la temperatura della Terra, anche se la scienziata credeva che ciò fosse dovuto al fatto che quei gas assorbono direttamente la luce solare. Oggi sappiamo invece che vapore acqueo, anidride carbonica e gli altri gas serra assorbono l’energia termica infrarossa irradiata dalla superficie terrestre. Ciononostante, quegli esperimenti hanno portato la scienziata a una notevole intuizione: «Un’atmosfera di quel gas [anidride carbonica] darebbe alla nostra Terra una temperatura elevata».

Il lavoro di Eunice Newton Foote fu presentato il 23 agosto 1856 alla decima riunione annuale dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS) – ma non fu lei in persona a farlo, bensì il collega maschio Joseph Henry. In pratica, la scienziata in quell’occasione sedeva tra il pubblico per assistere a un discorso tenuto da qualcun altro sul proprio lavoro: l’AAAS era l’unica società scientifica di allora ad ammettere donne – un paio – ai suoi incontri annuali ma solo come membri “semplici” e come senza diritto di parola.

Un breve articolo fu pubblicato pochi mesi dopo sull’«American Journal of Science and Arts» e un cenno al lavoro di Eunice Newton Foote comparve nel volume del 1857 di «Annual of Scientific Discovery». Qui, David Wells pubblicò un resoconto della conferenza annuale della AAAS in cui, riferendosi al lavoro della Foote, scrisse che «la scienza non è di nessun Paese e di nessun sesso. La sfera della donna abbraccia non solo il bello e l’utile, ma il vero». Fatto sta che il contributo della scienziata andò a finire nel dimenticatoio per un secolo e mezzo, finché nel 2011 il geologo Raymond Sorenson si imbatté in un resoconto della presentazione sul lavoro di Eunice Newton Foote tenuta nel 1856 da Joseph Henry, scoprendo così che la scienziata aveva preceduto Tyndall di circa tre anni nel dimostrare l’effetto dell’anidride carbonica sul clima.

La storia di Eunice Newton Foote è un esempio, tra tanti probabilmente, di come donne che nel passato hanno dato contributi significativi alla scienza abbiano ricevuto poco o nessun riconoscimento tra i loro contemporanei e, nella maggior parte dei casi, anche dopo.

I pregiudizi di genere nella scienza e in particolare nel campo delle discipline STEM esistono anche nel ventunesimo secolo: solo che non assumono tali plateali dimensioni. Sono spesso più sottili, meno palesi e come tali più difficili da individuare e da eliminare. Tutte le statistiche dicono che le principali differenze di genere nel mondo accademico e della ricerca scientifica emergono quando ci si avvicina ai ruoli di grande responsabilità, di direzione, agli apici delle carriere: questi ruoli sono ancora rivestiti prevalentemente da uomini. Nelle fasi precedenti di formazione e lavoro, invece, il numero delle donne (dottorande, ricercatrici, assegniste di ricerca) è persino maggiore di quello dei colleghi maschi. Ovviamente questo discorso si inserisce in un contesto più generale di differenze di genere in ambito lavorativo, su cui non mi soffermo e che non ho neppure la competenza specifica per approfondire. Si dovrebbe riflettere su come promuovere un sistema di lavoro e di politiche sociali che concili meglio famiglia e professione, che garantisca la parità di salario e che si fondi su modelli lavorativi meno maschili.

Io qui vorrei invece affrontare un altro punto, che riguarda più da vicino come le ragazze, soprattutto quando sono in procinto di scegliere il loro percorso universitario, si rapportano alle STEM e quanta (in)sicurezza hanno di sé e delle loro capacità e potenzialità. Perché mi sono accorta che, molto spesso, la fiducia delle giovani studentesse in sé stesse è poca, di certo anche per effetto di retaggi culturali e pregiudizi: questo senso di inadeguatezza e di percezione distorta di sé è il primo ostacolo da abbattere! Certamente questo non vale solo per le ragazze, ma per ogni giovane che stia valutando che direzione prendere, che cerchi di conoscersi, che si accinga a fare una scelta importante, universitaria o lavorativa, per il proprio futuro; è probabile però che per le ragazze le barriere da abbattere costituiscano un limite e un peso maggiori.

Ritorno allora alla mia esperienza personale. Quando ho deciso di studiare fisica all’Università non mi sono posta il problema se fosse una materia troppo difficile, se sarei stata o meno capace di arrivare fino in fondo. Non me lo sono chiesta non certo perché fossi o mi sentissi un genio: non lo ero per niente.  Non me lo sono chiesta perché ho sempre pensato che con lo studio, la determinazione e l’interesse – meglio ancora, con la passione – per qualcosa, chiunque possa riuscire in qualunque impresa. Lo studio e la determinazione ce li avevo. Ciò su cui mi arrovellavo di più, invece, era capire se quella materia mi piacesse davvero, o quantomeno abbastanza da sceglierla come corso di studio universitario e basarci il mio futuro. Ero convinta, allora, che una volta deciso un percorso non si potesse tornare indietro e che quella scelta avrebbe determinato tutta la mia vita lavorativa futura (ci tengo a dire che oggi la penso in modo completamente diverso!). Ero sicura che la fisica mi piacesse, anche se non era l’unica materia che studiavo con uno slancio particolare rispetto ad altre. Ma se alla fine la scelta è ricaduta su fisica lo devo al professore di matematica e fisica dell’ultimo anno di liceo. Perché era riuscito a trasmettermi passione per la materia, perché ogni tanto si accendeva e si infervorava, e mi sembrava che gli interessasse di più dire a noi studenti come usare la nostra testa, come pensare le cose, invece che cosa pensare. Anche se forse, allora, non lo capivamo del tutto. Il fatto che insegnasse fisica è stato un caso: sono sicura che, con il suo carisma, avrebbe sortito su di me lo stesso effetto qualunque fosse stata la sua materia. Così mi sono lasciata contagiare da quel vulcano del mio professore e ho preso la mia decisione. Ero anche abbastanza convinta che studiare una disciplina scientifica mi avrebbe dato più opportunità di lavoro e una certa gamma di scelte professionali, pensiero che non era di sicuro infondato, ma che comunque è arrivato solo successivamente.

A distanza di tanti anni sono contenta di aver fatto quella scelta anche se mi interrogo spesso su chi sarei e cosa farei se avessi preso altre strade. Grazie a una tesi di laurea in fisica dell’atmosfera (non scontata, ma ci tornerò dopo) e a un dottorato più specialistico, sono approdata allo studio del clima. Negli ultimi dieci anni, in particolare, ho spesso pensato che i miei studi e la mia determinazione mi hanno portata a una professione estremamente stimolante, che mi permette di continuare a studiare per capire come funziona il mondo che ci circonda e produrre qualche cosa di utile anche per la società. Insegno, e questo mi dà l’opportunità di trasmettere un po’ di passione per quello che faccio a qualcuno che aspetta una suggestione, un’illuminazione, una parola giusta al momento giusto. Qualcuno con cui intraprendere un percorso in cui si cresca insieme. Faccio un lavoro che mi fa viaggiare, stare in montagna, conoscere colleghi che vivono in posti diversi, visitare luoghi che mai avrei pensato di vedere.

Da molti anni, inoltre, alla mia attività di ricerca e insegnamento affianco quella della divulgazione scientifica. E questo non lo avevo assolutamente previsto. Lo faccio con passione e trasporto, perché la scienza va raccontata perché possa diventare familiare a tutti, e se di questo non si occupa anche chi la scienza la fa di mestiere c’è il rischio che la divulgazione del sapere scientifico finisca nelle mani di chi non ha le competenze per comunicare correttamente certi temi, generando disinformazione, paure, negazionismi. Credo che far conoscere a tutti i principali fattori che governano il clima e come determinano il cambiamento climatico, sia oggi davvero cruciale. Raggiungere tutti, anche con linguaggi diversi a seconda di chi ci si trova davanti, è il primo passo per affrontare questi argomenti col piede giusto, quello della consapevolezza.

Quando mi sono iscritta alla facoltà di Fisica, mai avrei immaginato di finire a fare tutto quello che sto facendo oggi – ricerca, insegnamento, divulgazione, la scrittura di un libro per ragazzi. Mai avrei pensato che mi saprei occupata di clima, tantomeno di montagna (sono nata a Rimini, per giunta). Lo dimostra il fatto che all’università, per il mio ultimo anno di indirizzo specialistico avevo scelto la fisica biomedica e seguito tutti i corsi relativi a quella specializzazione. Più uno, opzionale, di fisica dell’atmosfera (sì, non c’entrava nulla). Il caso volle che, per una indisponibilità del professore che avevo scelto per la mia tesi biomedica, io un po’ all’ultimo, abbastanza delusa e molto disperata per la mancata tesi, l’andai a chiedere al professore di fisica dell’atmosfera di cui avevo sostenuto quell’unico esame. Lui accettò, e mi mandò a svolgere la tesi al CNR di Bologna, presso l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima, dove tutto per me è cominciato. Questo per dire che quando si sceglie una strada non è detto che poi la si percorrerà necessariamente in linea retta, né si può sapere fin dall’inizio dove andrà a finire. È decisamente più probabile ma soprattutto più arricchente percorrere qualche curva, fare deviazioni, avere battute d’arresto, trovarsi di fronte a bivi giganteschi e a scelte “infinite”: sono cose che capitano e rendono il viaggio interessante e gustoso, ricco di incontri casuali che possono risultare decisivi.

Alle ragazze e ai ragazzi vorrei dire di non farsi intimidire dall’incertezza, di non farsi abbattere dagli ostacoli ma di prenderli come opportunità per scoprire qualcosa di sé e di quante cose sono capaci. E di non pensare mai «non ce la posso fare» prima di averci provato.

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Elisa Palazzi

È ricercatrice presso l’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima del Consiglio Nazionale delle Ricerche e professoressa associata presso l’Università degli Studi di Torino. La sua ricerca è incentrata sullo studio dei cambiamenti climatici nelle regioni di montagna, come le Alpi o le regioni Himalayane, con particolare attenzione ai cambiamenti osservati e attesi nel ciclo idrologico montano e agli impatti del riscaldamento sulle risorse idriche.

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