“Maturi” o risolutori di test?

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Uno dei lasciti di Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione del governo “tecnico” di Mario Monti, fu, a mandato scaduto (si stavano per celebrare le elezioni del febbraio 2013), la decisione di anticipare i test d’ingresso a molte facoltà universitarie a luglio, un mese e mezzo prima del solito. Il che significò, alla conclusione dell’anno scolastico 2012-13, non aver dato il tempo a molti studenti di finire con l’Esame di Stato, che già eccoli coinvolti in una nuova prova. La scelta – sin dallo scorso anno – è stata evidente, ma non esplicita: si trattava di studiare seriamente per la maturità o farlo per i test. I ministri che sono seguiti (Carrozza e Giannini) non hanno ritenuto necessario intervenire in direzione diversa.

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A quella opinabile decisione si aggiunse il fatto che alcuni atenei privati (Luiss e Cattolica, ad esempio) stabilirono, sempre nel passato anno scolastico, di anticipare il test di accesso al mese aprile, in maggio la Bocconi. Naturalmente il “Ce lo chiede l’Europa”, mantra della legittimazione di qualsiasi iniziativa senza negoziazione né confronto, fu la giustificazione di tutto. Le 5 parole che da qualche tempo – buone per ogni uso – rendono tutto giusto, vero, desiderabile e, soprattutto, irresistibilmente moderno: l’anticipo prima a luglio, poi ad aprile avrebbe potuto omologarci alle date degli stessi test in altri Paesi; l’anticipo avrebbe consentito un inizio più regolare dell’anno accademico, una migliore organizzazione logistica per gli studenti che avrebbero dovuto trasferirsi altrove; più margini per scelte alternative per coloro che non avessero passato le selezioni. Insomma: tutto per bene. Quest’anno, ecco la concretizzazione del progetto già annunciato dal titolare del Miur due governi fa: quasi tutti i test nei mesi di marzo e aprile.

A questo punto chiederei un momento di riflessione per provare a comprendere l’attuale condizione, imbarazzante e mortificante al tempo stesso, di chi, come me, da sempre insegna al triennio del liceo. Dal mese di febbraio, infatti, le nostre classi sono dimezzate per la preparazione dei test (Cattolica, Luiss, Bocconi sono già conclusi con esiti già pubblicati; ma nel frattempo sono state stabilite date imminenti per test di molte facoltà dell’università statale, alcuni già avvenuti; mentre scrivo 6 studenti della mia classe sono impegnati nella prova per entrare a Medicina della Statale). In un altro tempo e in un altro mondo, in un mondo con altri principi e probabilmente con un concetto effettivo di scuola come istituzione dello Stato, di cultura come valore emancipante e non come merce, di rispetto per il lavoro dei docenti e per gli apprendimenti degli studenti, del rigore e dell’importanza di una prova che rappresentava la degna conclusione di un corso di studi quinquennale, questo sarebbe stato un periodo strategico e importantissimo per l’imminenza dell’Esame di Stato, la “maturità”. Invece i miei, come tanti altri studenti dell’ultimo anno di scuola superiore, stanno facendo i conti con una paradossale condizione. Se lo scorso anno, di questi tempi, non avevano ancora né affrontato, né superato l’esame di Stato, ma stavano già studiando per i test per l’accesso all’università (le prime avvisaglie di un progetto chiaro nella mente di chi lo ha concepito), quest’anno la metà di loro ha oggi già l’accesso all’università in tasca; l’altra metà si sta preparando per gli ultimi test. Se lo scorso anno vivevano sdoppiati, con un occhio al presente e uno al futuro – ripassavano le materie su cui sarebbero stati esaminati, si esercitavano per i test, affrontavano le verifiche, che in questo periodo dell’anno prevedrebbero approfondimento, in Greco, Matematica, Filosofia, Letterature, Scienze, ma avendo sotto gli occhi i mitici quiz –, quest’anno possono fare a meno di entrare in una condizione tanto schizofrenica: l’accesso è già conseguito e l’Esame di Stato è ormai un pro forma.

Già, Esame di Stato: un titolo di studio al quale sempre, a prescindere dal fondamentale valore legale che esso ha (che è una delle garanzie del fondamentale principio dell’unitarietà del sistema scolastico nazionale), noi docenti (ma anche i nostri studenti, fino a pochissimi anni fa) abbiamo attribuito un senso e un significato molto precisi, sia dal punto di vista concreto che da quello simbolico. Una tappa, comunque la si pensi, che ha rappresentato qualcosa nella vita di ciascuno.
Ci stanno spiegando (senza nemmeno troppa pazienza, con modi rozzi e bruschi), che questo è “vetero”, out, poco, pochissimo smart.

Le motivazioni addotte da Profumo per inaugurare “l’inizio della fine” furono poco convincenti, a parte il refrain dell’Europa: “Abbiamo bisogno di ragazzi forti. La preparazione che gli studenti si costruiranno per la Maturità sarà utile, per chi aspira a entrare nelle università a numero chiuso, anche per i test. Sono prove di cultura generale, basate su nozioni che i ragazzi devono aver già acquisito” [molti ricorderanno, infatti, la domanda per i concorrenti dei test di ammissione alle Professioni Sanitarie nel 2012, su quale fosse “il gusto di grattachecca preferito dalla Sora Lella”, NdA]. Sotteso, un suggerimento: non c’è alcuna necessità di prepararsi per quei test; e, quindi, la contiguità della prova con quella dell’Esame di Stato non avrebbe dovuto preoccupare i nostri ragazzi.

Per fugare però ogni dubbio, ecco che quest’anno il potenziale conflitto tra le due prove è stato risolto: i nostri studenti affronteranno in altissima percentuale la prova di Maturità con l’ammissione al percorso universitario già conseguita. Il che significa che – nei fatti – per la maggior parte di loro quella prova è svuotata di ogni effettiva importanza e significatività. E che – nei fatti – l’ultimo anno del percorso di istruzione superiore è dismesso, destituito di importanza. Il nostro compito di educatori, di formatori, di referenti, di mediatori di cultura si conclude con la conclusione dell’anno solare. Tutto il resto è, sostanzialmente, intrattenimento. Nei fatti il percorso della scuola superiore – in particolare del liceo, da dove quasi tutti vanno all’università – dura non più 5, ma 4 anni e 3 mesi. In attesa del taglio di un anno scolastico, tanto auspicato dai cultori di modernità, Europa (argomentazione sempre valida), e soprattutto dagli intransigenti sostenitori del risparmio a danno della scuola, che più o meno furbescamente si nascondono dietro le due precedenti – più nobili – argomentazioni. Non mi è ancora capitato di ascoltare motivazioni pedagogicamente e didatticamente valide a sostegno di questa ipotesi.

La delegittimazione è evidente. La deconcentrazione è palpabile sin dal mese di gennaio; le assenze sono continue e numerose prima dei test; garantite e continuative dopo (tanto, ormai…). Il successo all’esame di Stato è ormai per la maggior parte un fatto esclusivamente affidato all’amor proprio di chi lo affronta: ad esso nulla è più vincolato in termini (se non la promozione); prepararsi seriamente o meno, un optional soggettivo. E noi stiamo lì: in balia di un sistema che sta già altrove “sperimentando” (l’IIS Carlo Anti di Verona, l’ITI Ettore Majorana di Brindisi e l’ITC Enrico Tosi di Busto Arsizio, senza aver acquisito il parere obbligatorio del CNPI) l’accorciamento di un anno del percorso di istruzione secondaria di II grado, senza poter fare nulla. Oggi ho parlato di Cesare Pavese in una classe che conta 26 studenti alla presenza di 10 ragazzi. Racconterò l’avventura della seconda metà del ‘900 – la rivoluzione di Gadda, la preveggenza di Pasolini, la disperazione calma, senza sgomento di Caproni, la Resistenza e la modernità di Calvino – a chi avrà il desiderio, la generosità, l’affetto, la curiosità di seguirmi. Ci hanno obbligato a bruciare la tappa ultima, quella che era il culmine di una condivisione di 3 anni: abbiamo costruito e messo in comune, abbiamo riso e ci siamo emozionati, o arrabbiati, ci siamo conosciuti e apprezzati, abbiamo investito, culturalmente, emotivamente, nella relazione e nell’impegno. Questo non conta più. Prevale la fretta, la velocità, di lasciare alle proprie specializzazioni piccoli consumatori acritici e piccole catene di montaggio, in una visione egemonizzata dall’uso ideologico dei test, da cui sembrano essere programmaticamente esclusi i tempi distesi dell’apprendimento e della riflessione. Risolutori di test: così li vogliamo. Dove sono andati a finire l’alto valore del pluralismo delle competenze e delle capacità e i saperi analitico-critici? Studenti con i loro esercitatori in mano, editi da quella Alpha Test che dalla quizmania sta traendo notevoli profitti, anche a discapito della “scientificità” del prodotto che stampano: numerose le domande cui viene fornita una risposta sbagliata.

In un mondo in cui la comunità scientifica sta mettendo in discussione la valutazione tramite test, gli studenti della scuola italiana li fanno in II e V elementare, in I e III media, in II e V (dal prossimo anno, pare, obbligatoriamente) superiore, al I e al III anno di università. Da noi tutto è sempre arrivato in ritardo. Questa volta la nostra attitudine ai tempi lunghi avrebbe potuto rivelarsi un elemento positivo. Invece no. La test-mania incombe, straripa, moltiplica i propri obiettivi, avanza, dilaga, qualificandoci per l’ennesima volta come la retroguardia culturale che siamo. E portando via con sé una parte bella e formativa dell’esperienza scolastica, infliggendo a noi docenti l’ennesima mortificazione professionale. La rottamazione di un anno di istruzione scolastica (con tutte le conseguenze culturali e di tagli agli organici che comporterà) è già – praticamente – cosa fatta.

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Marina Boscaino

Docente di italiano e latino in un liceo classico di Roma, blogger del Fatto Quotidiano e di MicroMegaOnline, e coordinatrice delll’Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica. Scuola e Costituzione il binomio cui ispira la sua attività di insegnante e giornalista e il suo impegno di cittadina.

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