Guerra e pace, la vendetta

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Perdonatemi la lunghezza. Ma l’occasione di questa rubrica mi spinge a nostalgiche rivisitazioni in chiave contemporanea di temi che mi sono sembrati negli anni problemi emergenziali, ma risolvibili. Ma che oggi, a distanza di tempo, nel loro permanere, dimostrano quanto fosse inopportuno il mio ottimismo di allora. Vi chiedo quindi di fare un salto indietro nel tempo. Siamo tra il 2006 e il 2007, periodo in cui, ponendo fine agli indugi, la politica di preparazione degli anni precedenti sfocia in un attacco frontale alla scuola pubblica.

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1. Un salto indietro
In quel periodo – governo di centro sinistra, ministero Fioroni – i media inaugurarono una periodica, implacabile campagna di informazione a senso unico: quella sulla mala scuola. All’“anno zero” del bullismo fu dato il via dai filmati dell’aggressione, diffusa su Internet, di un ragazzo autistico di 17 anni in una scuola di Torino. Da allora il binomio scuola-bullismo è stato riproposto con asfissiante  puntualità, come se prima gli istituti italiani non avessero mai assistito a episodi incresciosi: la cassa di risonanza dei media e l’abuso della rete hanno portato alla luce un fenomeno esistente da sempre e mai nominato. Una curiosa e apparentemente casuale concomitanza: contemporaneamente, l’inizio dell’ondata delle reprimende degli editorialisti contro gli insegnanti; il cahier de doléance di signori che – autorevoli e competenti nei propri specifici campi (in genere l’economia mainstream), comunque diversi dalla scuola – si affannavano a lanciare strali e denunce contro gli insegnanti. Suggerendo formule definitive ed intransigenti, in qualità di “esperti”, solo per il semplice fatto di aver frequentato in un tempo più o meno remoto la scuola: sareste così arroganti da sindacare in maniera definitiva su tutti i veterinari solo perché, avendo un gatto, ne avete incontrato qualcuno?
La punta di diamante in questo senso fu un editoriale di Pietro Ichino che, suggerendo all’allora ministro dell’Economia, Padoa Schioppa, come risparmiare su una partita stipendiale, consegnava un identikit di straordinario e irrispettoso qualunquismo dell’insegnante italiano, identificato nella figura del prof. M., naturalmente meridionale, immigrato in un liceo di Milano, ritardatario, nullafacente, assenteista; insomma, pane per i denti dei futuri fustigatori, da Brunetta in poi, compresi gli (spesso immeritevoli) fan della meritocrazia. Si sono verificate in questi anni alcune indimenticabili uscite, che hanno contribuito a determinare una percezione del nostro lavoro piuttosto a senso unico.

2. Pillole di saggezza
Sebbene il malgoverno della scuola sia stato trasversale, certamente il centro destra si è segnalato per una maggior propensione alla denigrazione e al dileggio. Proprio nel 2007, ad esempio, Gianfanco Fini – che meno di anno dopo sarebbe divenuto Presidente della Camera – dichiarò al Corriere della Sera: «I nostri figli sono in mano ad un manipolo di frustrati che incitano all’eversione». È solo uno dei tanti esempi, su cui sarebbe inutile insistere, se non per ricordare un fenomeno antropologicamente interessante: il fannullone è spesso (quasi sempre) di sinistra. O, per meglio dire, è “comunista”. Precoce anticipatore di questo connubio divenuto praticamente luogo comune, fu un deputato approdato, dopo alcuni rocamboleschi avvitamenti, in Forza Italia, in carica per 3 legislature, fino al 2008: Fabio Garagnani. Oltre che per una proposta di legge, del 2010, finalizzata a sostituire la celebrazione del 25 aprile (sic!), festa della Liberazione, con il 18 aprile (elezioni politiche del 1948), diventò protagonista di una vera e propria mania delatoria nel 2001, all’epoca Moratti, con la proposta di inserire nelle scuole telefoni-spia per i casi di “estrema politicizzazione, snaturamento dei fatti storici e di attacchi all’attuale governo”, contro i prof “comunisti”, vetero-pifferai inesausti, in cerca di prede indifese: “Segnalare esperienze di metodica e faziosa propaganda politica attuata da certi insegnanti nelle ore di lezione rientra nell’ambito della normale attività di un parlamentare”. Rimane però indimenticabile l’espressione di Massimo D’Alema quando a Ballarò, nel 2009, Berlusconi indicò tra i “poteri forti nelle mani della sinistra le scuole superiori”. Renato Brunetta, uno dei più intransigenti persecutore del fannullone che alberga in ciascuno di noi docenti, autore di ritocchi punitivi su visita fiscale e suoi tempi, oltre che dell’omonimo decreto, nel 2010: “Il sistema [scolastico] costa tanto e rende poco. Non è neanche vero che gli insegnanti sono pagati poco, perchè in altri paesi guadagnano di più perchè lavorano di più”. Dati alla mano, non è vero (ne parleremo in un altro momento). Ma, nel gioco alla delegittimazione programmatica, tutto quanto fa spettacolo. Sospendo qui il tragicomico repertorio, che meriterebbe ben altre trattazione, con interventi di esponenti anche di altri orientamenti politici, perché il tema mi sembra chiaro.

Delegittimazione casuale?
Insomma, da un certo punto in avanti, l’iconografia del docente non è stata esente da alcuni stereotipi omologanti, che hanno sostituito l’immagine autorevole e intoccabile dei decenni precedenti, per abbracciare e generalizzare quella di rubastipendio, privilegiati, spesso incompetenti, beneficiati da mesi di vacanza e da orari di lavoro ingiustamente leggeri, assenteisti.
Non starò qui a confutare questi luoghi comuni; l’ho già fatto, peraltro, qualche tempo fa: quando, sotto la spinta della proposta indecente del ministro Profumo di aumentare di 6 ore l’orario di lezione degli insegnanti della scuola secondaria a parità di salario (una proposta che, naturalmente, è stato possibile avanzare perché il campo del dissenso nei confronti degli insegnanti era stato preparato anche da un decennio di ingiurie) la nuova leva degli implacabili stigmatizzatori del (presunto) fannullonismo degli insegnanti ebbero un rigurgito di indignazione. Né ho mai amato le difese di categoria tout court. Ma certamente ritengo che la politica programmatica di (dis)informazione, tesa a generalizzare vizi fisiologici del sistema – bullismo, fannullonismo – non sia stato un fatto casuale. Si è trattato innanzitutto della più limpida manifestazione di incoraggiamento al disinvestimento programmatico sulla scuola dello Stato, operato da chi quella scuola dovrebbe sostenere e potenziare. Un disinvestimento trasversale ai governi che si sono succeduti negli ultimi anni. E che certamente – al di là della propaganda che, beffardamente, ha sempre accompagnato le periodiche ma costanti operazioni di dismissione intenzionali della scuola – , non promette di cessare.

Interventi inadeguati
Ma c’è un’ulteriore riflessione. A cosa è servito immortalare la mala scuola con una perseveranza quasi ammirevole, ignorando programmaticamente ciò che di buono pure viene fatto? Rendere le scuole italiane il luogo dell’esercizio della logica del branco, dove il bullismo spadroneggia; spazi in cui insegnanti giovani e belle si denudano, facendo sognare ragazzini puberi e prepuberi; dove bimbi vengono legati alla propria sedia con lo scotch da pacchi; costretti al silenzio con il taglio della lingua; dove, infine, individui sordidi e indegni trascorrono mattinate alla cattedra leggendo il giornale? Fenomeni di questo genere purtroppo esistono, ma certamente non sono i più direttamente indicativi di cosa la scuola sia.
Non è certo servito ad individuare condizioni di cura, relazione educativa, interventi mirati, figure professionali alternative finalizzate a scoraggiare il sino ad allora “insospettato” fenomeno del bullismo.
Non ha  sicuramente dato vita ad alcun tipo di riflessione e di provvedimento sulla formazione degli insegnanti, iniziale ed in itinere; su quali debbano essere oggi le competenze di un docente, quali le sue conoscenze, quali le modalità di trasmissione, quale la centralità della relazione educativa, quali il riconoscimento sociale ed economico da attribuire per motivare alla docenza.
Questi problemi continuano ad essere sapientemente elusi: ci si limita a proporre l’immagine di un’adolescenza disagiata e disperata, di un allarme sociale perenne, di un’incompetenza atavica degli insegnanti, piuttosto che prendere atto del fatto che questi elementi – che pure ci sono – devono essere  affrontati con investimenti mirati e con uno studio approfondito dell’esistente.
Si sedano le spinte interventiste e la richiesta di ordine e sicurezza con provvedimenti che, rispetto alla complessità dell’oggi, appaiono persino grotteschi: voto numerico alla primaria, cinque in condotta, cittadinanza e Costituzione compressa nello spazio della geostoria, a sua volta tagliata di un’ora, la fantasiosa caccia al fannullone. Si potrebbe parlare di un affaccendamento inoperoso, che dà il senso apparente di un farsi carico, ma che è in realtà un movimento di facciata, volto a conquistare consensi della parte più immobile del Paese; un muoversi strumentale, certamente avulso da qualunque elaborazione scientifica, sociologica, economica, pedagogica, psicologica delle cause che ingenerano i fenomeni.

Come è cambiata la scuola.
Dall’anno zero del bullismo e dell’insegnante fannullone, di fatto, si sono esclusivamente rastrellate risorse. La scuola, nella sostanza, è identica a se stessa: solo più povera. Se si fosse trattato di reali emergenze e non di pretesti per giungere ad altri risultati – nella politica di risparmio ideologico sulla scuola cui i governi ci hanno abituati, nella tecnica di (dis)informazione “urlata” cui i media ci hanno costretto – qualcosa sarebbe mutato. Invece nulla. Ci sono, sorprendentemente, se dovessimo credere che quegli atteggiamenti, quelle stigmatizzazioni fossero dettate da una reale preoccupazione e da una cura nei confronti dei diritti all’apprendimento e allo studio, al lavoro e alla giusto salario riconosciuto, dei meno (-): 87.000 docenti mancano all’appello dopo la “cura da cavallo” Gelmini-Brunetta-Tremonti, proseguita diligentemente dai governi seguiti fino ad oggi. Ore di scuola in meno, saperi compressi o annullati, classi più intasate di potenziali bulli-disagiati, che  sono stati e potranno essere allontanati-dispersi dalla scuola: ne sono prova i numeri tragici del ritardo, della dissipazione, della dispersione scolastica.
L’unico più (+) è odioso (perché non negoziato, non dibattuto, non ispirato a criteri che non siano punitivi): anni di sacrifici e di capacità di portare avanti la scuola, indipendentemente dai tagli, a noi fannulloni per definizione hanno fatto guadagnare la continua, penosa minaccia della “valutazione che verrà”, vera e propria fissazione di tutti gli ultimi governi.

La valutazione
La valutazione – di sistema, istituti , singoli docenti, competenze degli alunni – è un tema complesso, che ha certo subìto l’avversione di sindacati e di parte dei lavoratori, ma altrettanto la difficoltà (indagata, studiata, interpretata) di determinare criteri condivisi, probanti e trasparenti per pratiche e metodologie che non fanno parte storicamente della cultura del nostro Paese. E che oggi vengono sventolate come “bastone”  di un’amministrazione incauta e incapace, al quale far corrispondere la “carota” di un premio in danaro evocato, ma ancora non quantificato (per esempio, il 30% del  ricavato dalla falcidia di posti di lavoro e di mancati finanziamenti alle scuole programmata dalla Finanziaria del 2008, che hanno fruttato allo Stato 8mld di euro sono rimasti – spesso tirati in ballo – sempre lettera morta; eppure dovevano essere finalizzati a una non meglio specificata “premialità”). L’ambiguità dell’operazione – la demagogia ad essa sottesa che occhieggia a parole d’ordine di facile impatto (merito, premio, rendimento, performance), che hanno tanto più presa quanto più gli effetti della campagna sopra descritta sono entrati nella percezione collettiva – è sotto gli occhi di tutti. La questione Invalsi (a pochi giorni dalla loro contestatissima celebrazione) continua a scatenare il forte dissenso di una parte del mondo della scuola, che contesta le prove nel metodo e nel merito. Eppure, dopo anni di battaglia, ancora non si mai giunti a un momento di confronto serio sulle prospettive da condividere su un tema importante come la valutazione, e si continua a fronteggiarsi a colpi di imposizioni da una parte, di significative ma deboli resistenze dal punto di vista dell’efficacia degli esiti dall’altra.

Conferme ai sospetti di sempre?
Dicono che non è vero; poi, puntualmente, è vero. Sono anni che l’offensiva sugli Invalsi va avanti implacabilmente, mentre i ministri di turno tentano di rassicurare che testare gli studenti italiani con gli Invalsi non ha alcun intento punitivo. È notizia di questi giorni la riproposta da parte di Giannini di imporre corsi di aggiornamento, formazione obbligatoria per i docenti i cui studenti non raggiungano la sufficienza nelle prove Invalsi. Secondo la Giannini, l’Italia è l’unico paese europeo a non avere un capitolo di formazione obbligatoria. L’idea era già stata avanzata da Carrozza, che nel decreto istruzione, all’articolo 16, aveva previsto una sorta di formazione coatta per i docenti che abbiano classi che falliscono i test. Stanziamento previsto allora: 10 milioni di euro.
Unico limite a Giannini: la necessità di un’assegnazione straordinaria di risorse. La parola al ministero dell’Economia, dunque. La capacità didattica verrebbe così misurata attraverso l’abilità maggiore o minore che gli studenti dimostrano di rispondere correttamente ai test. Ecco come vanificare – con un irresponsabile colpo di spugna intriso di inconsapevolezza, ignoranza, autoritarismo – anni di ricerca e di pratiche che si sono basati su modelli formativi che con i test Invalsi non hanno (fortunatamente) nulla a che fare; ecco sposata ed imposta definitivamente una prospettiva non coerente con la nostra prospettiva didattica democratica, meno “meccanizzata”, basata sulla pluralità dei punti di vista e sinergia tra conoscenze, competenze e abilità, e con essi dei saperi analitico-critici complessi.
Ecco piegati epistemologie e pratiche didattiche all’asservimento alla sintassi del Pensiero Unico di stampo neoliberista, alla possibilità di una risposta sola, che nega definitivamente la complessità del reale. Oltre a riproporre il perenne problema della demagogica tendenza a far “parte uguali tra diversi” – non tenendo conto delle oggettive differenze socio-culturali che caratterizzano la popolazione scolastica italiana; oltre a confermare i sospetti di molti di una valutazione forzosa e censoria, volta – chissà – a screditare ulteriormente la miracolosa compagine dei docenti italiani, che continua responsabilmente a portare avanti la scuola, nonostante il più drastico taglieggiamento di fondi che l’Occidente in crisi economica abbia prodotto; oltre a ribadire l’inconsistenza di un governo che a parole dice “ascolto” e nei fatti autoreferenzialmente emana provvedimenti muscolari, sconfessando dichiarazioni evidentemente di maniera; oltre a tutto questo, il provvedimento sfaterebbe i miti della valutazione come strumento di miglioramento e di intervento diretto sul sistema, sostanzialmente affermando: se i ragazzi falliscono gli Invalsi è colpa vostra.
Non importa quali siano le vostre competenze disciplinari e relazionali; non importa quale sia la vostra esperienza. Non importa che, a fronte dei tagli, sono secoli che non esistono piani di formazione e aggiornamento degni di questo nome; né che, sempre per lo stesso motivo, le vostre classi siano intasate di studenti o che, per la revisione delle classi di concorso, voi siate stati sostanzialmente degradati a tappabuchi, a prescindere dalle vostre specifiche qualità professionali. Non importa, ancora, che – nonostante tutto – dalle vostre scuole escano studenti con un livello culturale riconosciuto e rispettato nel mondo. L’asfittica e pervasiva visione test-centrica vince. E determina conseguenze cui è sottesa la stigmatizzazione. Pazienza se non hanno fatto altro che affermare il contrario.
L’aggiornamento dei docenti viene trasformato in un obbligo attraverso un decreto che non tiene conto del contratto di lavoro: attribuendo di fatto ad un ente non autonomo dal ministero il compito di valutare l’operato degli insegnanti. Ecco alcune delle prime conseguenze, qualora la previsione si realizzasse.

Questo non è un paese per insegnanti.

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Marina Boscaino

Docente di italiano e latino in un liceo classico di Roma, blogger del Fatto Quotidiano e di MicroMegaOnline, e coordinatrice delll’Associazione Nazionale Per la Scuola della Repubblica. Scuola e Costituzione il binomio cui ispira la sua attività di insegnante e giornalista e il suo impegno di cittadina.

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