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Alvaro, Pavese: una ipotesi intorno al mito

Tempo di lettura stimato: 12 minuti
Narrazione, trama, paesaggio, paese e sacrificio sono alcuni dei temi che uniscono i due scrittori, il cui sguardo perplesso e pessimista è invito a comprendere l’enigma del presente.
Cesare Pavese e Corrado Alvaro. Fonte: Wikipedia.

1. Il tema di questo scritto è, credo, pienamente declinato nel titolo: vorrei mettere in evidenza una possibile relazione tra Alvaro e Pavese, partendo dal mito. Mito è una parola così stratificata, che è sfida inutile anche solo provare a tematizzarla; è necessario, però, dire quale e cosa sia per me il significato di mito, limitatamente a questo breve saggio. Intendo qui riferirmi al mito come trama, così come spesso viene tradotto il termine greco mythos nella Poetica Aristotele: «l’imitazione dell’azione vera e propria è la trama. Per trama intendo in questo senso la sistemazione dei fatti…» (Aristotele, Poetica, trad. G. Paduano, Laterza). Mi interessa, quindi, il mito come il farsi racconto, e il farsi racconto come sistemazione di fatti nel tempo: quale tempo è il tempo delle narrazioni di Alvaro e Pavese? In che modo questo tempo si connatura alla descrizione dei luoghi e dei paesaggi?

Il seguente ragionamento, quindi, proverà in parte a rispondere a questi interrogativi. In esso si nasconde, però, un dato più rapsodico e irrazionale, che non vorrei tacere, e che riguarda una mia certa appartenenza scissa (mi si perdoni l’immagine banale) a due terre, la Calabria (mia madre) e le Langhe (mio padre). Tale compresenza genera in me qualcosa di non semplice. Se vado a rintracciare e a decifrare la mia personale memoria, un fatto su altri è vicino a quel mythos che cerco di indagare. Devo tornare a una quarantina d’anni fa: poco più che decenne, partecipai, per la mia età, al pellegrinaggio alla Madonna di Polsi. Di quei giorni ho ricordi confusi, mischiati a letture successive, immagini sbirciate sui libri, alla televisione, divenute parte del mio patrimonio mnemonico; se mi costringessi, quindi, scegliere tra i ricordi gli originali o quelli maggiormente veritieri, ne troverei due. Il primo è un sentimento generalizzato di allegria, di gente festante che si muove: suoni, canti, rumori, risa, vocio sono le prime parole che mi tornano alla mente pensando al pellegrinaggio; il secondo ricordo è l’immagine paese, le montagne nere, il cielo sereno azzurro sopra di noi, la madonna e gli ex voto.

L’Aspromonte, o meglio l’Aspromonte di Alvaro, è uno dei luoghi geografici di cui serbo più antico legame, secondo – solo per ordine di nascita – alle Langhe, o meglio, alle Langhe di Pavese. Ciò che vorrei fare è partire da questa dimensione geografica della narrazione, mettendo in evidenza come né le Langhe né l’Aspromonte siano le realtà descritte da Pavese e Alvaro, a meno che si non cada nel tranello di derubricare questi due autori a semplici “veristi”. Per iniziare il ragionamento, prendiamo una famosa lettera, che Cesare Pavese, giunto a Brancaleone Calabro, scrive ad Augusto Monti. Non mi dilungo sulla storia del confino, che ci poterebbe lontano dal focus di ciò che sto scrivendo; vorrei soffermarmi su una frase, famosa, scritta appunto l’11 settembre 1935: «Sono a pochi chilometri dal paese di Corrado Alvaro. Ma io lo preferivo nei libri» (Pavese, Vita attraverso le lettere, Einaudi). È chiaro dalla frase come Pavese conoscesse Alvaro, e in particolare avesse letto Gente in Aspromonte, ma vorrei porre l’attenzione sul rapporto che si instaura tra la concretezza reale – «pochi chilometri dal paese» – e la sua rappresentazione narrativa – «preferivo nei libri» –; ecco, credo che qui si annidi uno dei motivi del mio intervento. Ciò che interessa a Pavese della descrizione di Alvaro è il dato narrativo, di racconto, rappresentazione e trama (mythos). L’Aspromonte che Pavese ama è quello letterario, mitico, la sua narrazione, che in qualche modo lo libera e lo toglie dal quotidiano, e lo porta in una dimensione nuova. Non credo, quindi, che siano casuali le pagine de Il mestiere di vivere, nei mesi del confino, dove si concentrano le riflessioni di poetica (Pavese sta finendo di scrivere Lavorare stanca), molte delle quali riguardano il mito, l’epica, Omero e il paesaggio.

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2. «Nella valle l’ombra era alta, e pareva che la riempisse, col rumore di un torrente che si gettava da un salto del monte. La luna si affacciò dalla parte del mare, dietro i monti, come una guardia» (Alvaro, Gente in Aspromonte, Garzanti, 2021). Sono poche righe tratte dal primo capitolo di Gente in Aspromonte, il racconto più famoso della raccolta omonima, tra le opere più celebri di Alvaro. Tale stralcio chiarisce come il giudizio di Pavese nella lettera a Monti contenesse in nuce una importante e centrale affermazione intorno all’opera alvariana, ovvero il dato mitologico, che lo scrittore produce raccontando la sua terra. Alcune volte è sufficiente uno scorcio appena accennato per gettarci dentro un mistero, che ci sbalordisce:

Un popolano portava sulla testa un enorme cero che aveva fatto fondere del suo stesso peso e lunghezza del suo corpo per voto. Antonello stava a bocca aperta.

L’atteggiamento del personaggio del racconto è il nostro: noi siamo a bocca aperta, mentre assistiamo a questo, come se lentamente il paesaggio assumesse un dato religioso, misterico. Pavese stesso, proprio durante il suo soggiorno a Brancaleone nell’Aspromonte alvariano, scrive: «Questa sera, sotto le rocce rosse lunari, pensavo come sarebbe di una grande poesia mostrare il dio incarnato in questo luogo con tutte le allusioni d’immagini che un simile tratto consentirebbe» (Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, 2014). Il brano è tratto da Il mestiere di vivere è datato 10 ottobre, nel continuare la sua riflessione egli aggiunge:

Certamente dev’essere possibile, anche per me, far poesia su una materia non piemontese di sfondo. Dev’esser, ma sinora non è stato quasi mai. Ciò significa che non sono ancora uscito dalla semplice rielaborazione dell’immagine materialmente rappresentata dai miei legami di origine con l’ambiente.

In un certo senso, l’esperienza reale del paesaggio (l’Aspromonte), il suo dato descrittivo (l’Aspromonte di Alvaro) e la discrasia tra i due momenti conducono Pavese a riflettere sul modo in cui racconta i luoghi, muovendosi verso non una semplice resa bozzettistica, ma epica.

 

Calabria – Aspromonte. © Carlo Bonini 2008, fonte Flikr, licenza SA 2.0

Nei mesi del confino, infatti, Pavese intraprende una lunga riflessione sulle poesie di Lavorare stanca, come se la distanza dalla sua terra e fonte di ispirazione fosse una condizione necessaria per poter dare la giusta dimensione alla revisione; tale ragionamento intorno all’ars poetica ruota intorno a Omero: «È bene rifarsi a Omero». Il 17 febbraio 1936 Pavese scrive questa frase nel suo diario, a conclusione di un ragionamento che parte dal lontano: qualche mese prima, infatti, annotava: «Comincia la poesia quando uno sciocco dice del mare “Sembra olio”». Mi pare evidente che Pavese nella giustapposizione mare/olio richiami alla nostra memoria quella altrettanto paradossale tra mare/vino di Omero: alla base dell’intuizione pavesiana c’è la convinzione che la scrittura poetica, o la scrittura tout court, non sia mai riproposizione di ciò che è, ma una modificazione sinestetica e metaforica della realtà.
Pavese ribadisce la matrice “mitica” del paesaggio, allontana sé stesso dalla una percezione naturalista del dato descrittivo, e questa mi pare una comune volontà con Alvaro. Il paesaggio in Alvaro è sempre sul punto di sovra-indicare qualcosa: c’è in esso un dato che recalcitra alla semplice descrizione. Ecco un esempio nuovamente da Gente in Aspromonte:

Un’altra frotta di pellegrini sbucò coi fucili sulla strada. Avevano accese le fiaccole. Uno si fermò ai piedi di una quercia spaccata in due dal fulmine, gialla e morta, le accostò una fiaccola di resina ai rami: una fiammata avvolse la quercia che divampò come una torcia gigantesca crepitando veloce.

La quercia divisa in due, la folla che sbuca, le fiaccole, il fuoco: la natura e la descrizione di un evento, il passaggio dei pellegrini verso il santuario si trasformano in una sorta di “sabba”, di sacrificio, a seguire infatti ci sono spari, urla, un cane, le urla. È certo una suggestione, ma è chiaro che qui, come in certi passaggi di Paesi tuoi di Pavese, la narrazione non è al servizio di un presunto realismo, ma si muove verso una potenza metaforica.

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3. Non c’è nel corpus di Pavese citazione più abusata di quella presente in La luna e i falò, ovvero «Un paese ci vuole»; ora, la parola “paese” è nel vocabolario pavesiano una delle più complesse e stratificate, essa nello stesso tempo viene spesso svilita o semplificata o, peggio ancora decontestualizzata. Negli scritti di Pavese il paese è il luogo della nostalgia: il luogo del dolore del ritorno o in alcuni casi della sua impossibilità; i personaggi dei romanzi, quando ritornano, fanno del paese un’esperienza medesima a quella di Ulisse a Itaca (ancora Omero), ovvero di un mancato riconoscimento: nessuno si riconosce a vicenda, il primo impatto è quasi sempre di estraneità. Il paese nell’opera dello scrittore ha, quindi, una funzione ben diversa da quella cartoonizzazione di paese che va di moda, ovvero il paese come slogan: ripartire dai paesi, ripopolare i paesi, la semplice e onesta vita nei paesi ecc. Non c’è nulla di tutto questo in Pavese, la cui frase, spesso, è assunta come blurp pubblicitario. In realtà, per Pavese, il paese, in quanto declinato come luogo del nostos, come luogo del ritorno, assume un dato mitico, un dato di racconto.

Alvaro, come lo scrittore di Santo Stefano Belbo, ha più volte raccontato il paesaggio, il suo modificarsi: ne è esempio un libro – per me straordinario – dal titolo Un treno nel sud (1958, Rubbettino 2016). Da questo reportage condivido un breve stralcio, che parla dei paesi calabresi:

L’umile vita della Calabria ha il suo modello nel Presepe. […] quando avrete capito di che si tratta, che è il presepe vivente, che tutte le figurine del presepe sono qui, e quella che porta l’agnello, e quella del sacco, quella del formaggio e quella col bimbo, allora la vostra emozione sarà piena. Avrete capito la poesia umana del presepe, e quella della Calabria.

Non c’è niente di più fastidioso, quando si viaggia in macchina, di un compagno distratto che, vedendo una serie di case aggrappate a un monte, con le strade grigie tra il nero dei boschi e dei pascoli, esclama: “Toh, sembra un presepe!”. Alvaro nella sua descrizione mette proprio in guardia da tale semplificazione: il presepe non è messa in scena a uso turistico, ma è il tentativo, il primo della storia della cultura cristiana, di mettere in scena, tramite un sermo humilis, l’evento che cambia il mondo, è il primigenio tentativo di rendere dicibile la nascita di Dio. Se vogliamo, è un esempio perfetto di quella mimesis che Auerbach descrive in maniera perfetta nel suo saggio capitale. Paese e presepe: per Pavese e Alvaro questi non sono due concetti banali, ma si nutrono di mito, ovvero la possibilità di costruire una narrazione profonda e stratificata di ciò che vive ed è vivo nella loro terra.

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4. Vorrei chiudere questa riflessione parlando del mythos, della trama dei fatti che accadono in una storia, come se fossero accadimenti di un rituale sacro: in Alvaro, così come in Pavese, l’elemento mitico si lega al sacro, difatti la riflessione sul presepe può aprire all’idea che il mito sia lo sguardo che lo scrittore getta verso un qualcosa altro. Sulla scia di De Martino e dei suoi studi sulle apocalissi (La fine del mondo, Einaudi 2019) il mito è un racconto, in cui il passato produce uno sguardo verso il futuro: questo sguardo, questa tensione verso ciò che accadrà, non sono mai innocenti (pensiamo anche soltanto alla citazione precedente del sabba alvariano), ma hanno a che fare con la violenza, l’espiazione di una colpa, il sacrificio. Non si dà mito senza la presenza di questi elementi.

Guardiamo, sempre rimanendo a Gente in Aspromonte, il capitolo XIII e l’incipit del XIV. Nel tredicesimo movimento si legge: «una notte senza luna, con un debole lume di stelle, […] in quel buio si levò una voce, alta e potente, che veniva dalla cima del colle soprastante il paese». È una descrizione magnifica, che ha i movimenti del testo sacro: la notte oscura, la voce potente; Alvaro carica l’episodio, e la voce annuncia una liberazione: «O voi tutti che siete poveri, che soffrite e vi arrabbiate a vivere! È arrivato il giorno in cui avrete un poco d’allegria». È un annuncio di salvezza e di allegria – «abbondanza e allegria per tutti!», «Riderete. Evviva l’allegria!» – che si contestualizza nel quattordicesimo movimento: «La mattina seguente un bosco di Filippo Mezzatesta prese fuoco». Il fuoco diventa punizione e annuncio, distruzione e rinascita, il fuoco è cosa viva, senziente e ragionante: «Guardava i progressi del fuoco, come andava sicuro, e con ordine che pareva ragionasse. […] Ci vollero non meno di cinquanta persone a tentare di fermare quell’ira di Dio».

Il fuoco è il segno del sacrificio, il segno della possibilità di cambiamento, simbolo della possibilità di modificare la propria esistenza, tramutare la sofferenza in allegria. Qualcosa di simile è presente nei Dialoghi con Leucò, testo che rappresenta l’estrema fase della riflessione pavesiana sul mito e sul mito greco, e penso in particolare al dialogo I fuochi, in cui un padre e un figlio parlano dell’usanza dei falò. Pavese nel presentare il breve brano scrive: «Anche i Greci praticarono sacrifici umani. Ogni civiltà contadina ha fatto questo. E tutte le civiltà sono state contadine». A tenere banco, l’immagine del fuoco: «Questo fuoco che brucia allontani i malanni». Il fuoco è immagine di un tempo arcaico, diverso, «quando l’uomo viveva più giusto che adesso», e così l’accetta il padre, mentre il figlio osa contestare: «Non mi piacciono più questi fuochi. Perché gli dei ne hanno bisogno?». Non dimentichiamo che Gente in Aspromonte è la storia di un padre pastore e di suo figlio, la lunga nonché inutile lotta per una felicità, il fuoco riparatore, il fuoco che modifica, che non può in nessun modo modificare l’ordine del mondo: il sacro è di per sé uno sguardo che accetta, che si rassegna al ciò che è, come è esplicitato nella battuta finale del dialogo pavesiano, quando il padre, sacrificando il figlio, dice «O Zeus, accogli questa offerta».

Eppure questo pessimismo, che unisce nello sguardo Pavese e Alvaro, non deve trarci in inganno, perché non c’è in esso semplice disfattismo: il loro osservare e guardare il mondo del passato senza una speranza è antidoto alla faciloneria del tempi presenti, alla consolazione “a buon mercato” che sembra essere la nota comune di molti scrittori e intellettuali. Pavese e Alvaro mostrano anzi la tragedia di questa esistenza, chiedono risposte e pongono domande complesse come gli enigmi della Sfinge, e a noi in qualche modo tocca provare a accampare delle risposte che non suonino come scuse.

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Demetrio Paolin

vive e lavora Torino. Collabora con il «Corriere della sera». Ha scritto saggi e romanzi. Nel 2016 è stato tra i 12 finalisti del premio Strega con il romanzo “Conforme alla gloria” (Voland). Il suo ultimo libro è “Anatomia di un profeta” (Voland).

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