(Acqua)
La leggenda dell’acqua di Napoli
«Vino? Alla domenica, qualche volta. Acqua! Sempre: e cattiva». Così, più tranchant che mai, Matilde Serao chiudeva quel capitoletto che abbiamo citato all’inizio, sulle abitudini alimentari del popolo napoletano. Cosa mangiavano, e cosa bevevano. Ora, bisogna dire un fatto che voi magari sapete già, ma che quando io l’ho imparato mi ha aperto la testa: ci sono stati lunghi, lunghissimi secoli in cui l’acqua per l’umanità non è stata la cosa da bere più ovvia, né la più diffusa. Soprattutto negli agglomerati urbani, soprattutto per le fasce più povere della popolazione. Questo paradosso apparente si spiega in modo facile se si considera che l’acqua, a meno che non sia raccolta e bevuta nei pressi di una fonte pura, è un alto veicolo di contaminazioni batteriche: come illustra anche Tom Standage nella prefazione al suo bellissimo Una storia del mondo in sei bicchieri, ogni passaggio e spostamento, ogni movimento nello spazio e ogni stagnazione nel tempo, possono rendere l’acqua sempre più impura e pericolosa, fino a farla diventare un vero e proprio veleno. È famoso il caso della fontana pubblica di Soho, che nel 1854 causò un focolaio di colera a Londra, rientrato quando la fontana fu chiusa su suggerimento del medico John Snow: questi non aveva analizzato tanto l’acqua quanto la distribuzione geografica dei casi; fu così che nacque l’epidemiologia. I potenti e sicuri acquedotti, in grado di pompare acqua corrente fin dentro gli appartamenti in cima a palazzi alti decine di piani, sono una cosa recente.
Questo, poi, è il motivo del grande successo di bevande come la birra e il vino, e più avanti il tè e il caffè. Al di là degli incontestabili effetti psicofisici, inebrianti o eccitanti; al di là degli indubbi risvolti rituali e sociali, pensate al ruolo che svolge il vino dalla messa al dopolavoro, o a quello che hanno avuto i caffè nell’Illuminismo; in primis, le bevande che passano attraverso una trasformazione (bollitura, fermentazione, presenza di alcol o acidi) sono state per molto tempo più sicure, e anche più economiche, dell’acqua. Tanto che, tornando al caso di Londra, Snow aveva notato nel bel mezzo del focolaio una strana zona franca: i dipendenti di un birrificio, che bevevano quasi solo birra, sanificata dalla cottura, sembravano immuni al colera (c’è anche da dire che questi alcolici nei secoli scorsi erano molto meno alcolici, proprio perché venivano consumati fin dal mattino, ed erano anche una fonte di calorie, una specie di nutrimento: insomma una pinta di birra a colazione era molto più sana di quanto ci appare oggi). Quindi: tutto, pur di non bere acqua. E invece, il popolo napoletano: acqua sempre, e cattiva.
Questo «cattiva» fa uno strano contrasto con una leggenda delle più diffuse, e che è nata per rispondere alla domanda: perché la pizza di Napoli è così buona? Anzi: perché è l’unica buona, l’unica degna di essere chiamata pizza? Parlo della leggenda dell’acqua di Napoli. Oltre la bontà inimitabile della ricetta, oltre persino il talento del pizzaiuolo, c’è un elemento fondativo. È una leggenda che assurge a mito, un mito delle origini: una ricetta può essere imitata, copiata, addirittura codificata; un artigiano può essere preso e portato in un altro continente, e comunque resta un fattore umano, soggettivo. L’acqua è un elemento primario, oggettivo, che appartiene alla Natura; e allo stesso tempo è locale, legata al territorio, al genius loci, non imitabile, non trasportabile (anche se in tempi recenti c’è stato qualche pazzo che l’ha fatta imbottigliare e spedire nella sua pizzeria all’altro capo del mondo). La nostra pizza è eccezionale per merito dell’acqua di Napoli.
Ma quale acqua, poi? Quella del Serino, specificano gli esperti. Ora però, come fa notare Mattozzi sempre in Una storia napoletana, l’acquedotto del Serino è stato messo in funzione nel 1885, ed è stato una delle grandi opere pubbliche – insieme al Risanamento dei quartieri popolari, che ha sventrato la città e ne ha ridisegnato la mappa – poste in atto dal nuovo governo italiano. E prima, la pizza faceva schifo? Ma soprattutto, e adesso? Perché bisogna dirlo: quello del Serino non è mai stato l’unico acquedotto attivo a Napoli, e in particolare non lo è oggi. Dovremmo sapere con precisione quali zone della città sono ancora servite dall’acqua che proviene dalle fonti appenniniche in provincia di Avellino, e quali no, per individuare le pizzerie doc. Dove sta la verità? Ma soprattutto, dove sta l’acqua?
Come tutte le città costiere non di fiume, Napoli ha sempre avuto il problema dell’approvvigionamento idrico. Fonti urbane ce ne sono, ma ovviamente per la vicinanza del mare danno acqua salmastra. Gli antichi romani, ce lo hanno ripetuto fin dalle scuole elementari, erano grandi ingegneri idraulici e costruttori di acquedotti: ma di quanto fossero incredibili queste opere me ne sono reso conto adesso, guardando su una cartina la distanza che c’è tra le fonti della montagna avellinese, già all’epoca sfruttate per la purezza e l’abbondanza delle loro acque, e la piscina mirabilis di Miseno a ovest di Napoli, stazione terminale di un viaggio di quasi cento chilometri (un viaggio ancora più sbalorditivo se si pensa che l’acqua lo compiva solo grazie al dislivello). Quindi le sorgenti del Serino hanno rifornito Napoli e mezza Campania per secoli. Ma poi quel viaggio si è interrotto, molte strutture sono cadute in rovina o sono state abbandonate, altre sono state riciclate per usi simili, o diversi. Posto che fino a qualche decennio fa avere l’acqua corrente che ti arriva fin dentro casa era pura fantascienza, i napoletani prelevavano l’acqua da pozzi e fontane, in strada o nei cortili dei palazzi. Ovviamente non si trattava di pozzi artesiani né di acqua sorgiva: attingevano a cisterne, condutture e sotterranei che costituivano, e costituiscono, una città ipogea, una specie di specchio in negativo. È la Napoli sotterranea, oggi visitabile e anzi diventata un’attrazione turistica tra le più suggestive. Che il luogo infero sia il negativo di quello visibile è vero innanzitutto da un punto di vista storico, letterale: la maggior parte delle cavità sono grotte scavate nel tufo, la pietra leggera, porosa e friabile di cui è fatto il suolo di Napoli: tufo che veniva estratto per costruire case e palazzi, per cui sì, il pieno di sopra corrisponde al vuoto di sotto, come in alto così in basso, come in cielo così in terra. In tempi più recenti, per esempio durante i bombardamenti e i rastrellamenti dell’ultima guerra, cunicoli e cisterne sono serviti da rifugio per migliaia di persone.
Oppure, l’acqua si comprava dall’acquafrescaio: un ambulante proprio come il garzone del pizzaiuolo, di quelli famosi per le voci così tipiche del folklore napoletano. Un mestiere perduto e che ora ci sembra assurdo: in che senso venditori di acqua? Ecco una delle tante giravolte paradossali: quella che oggi può parere una moda antieconomica e antiecologica – comprare l’acqua in bottiglia – in realtà è un ritorno al passato, e bere acqua «semplice» del rubinetto non è una cosa «come una volta» ma uno dei tanti trascurati vantaggi della modernità. C’è anche un detto che chiama in causa l’acquaiolo, o acquafrescaio: Acquaiuo’, l’acqua è fresca? Certo che sì, cosa volete che vi dica: è il corrispondente dell’italiano «chiedere all’oste se ha il vino buono», a conferma del popolo napoletano come bevitore di acqua e non di vino.
Ma appunto, tutta quest’acqua prima del 1885 arrivava principalmente da due acquedotti, quello della Volla e quello del Carmignano, entrambi la portavano dalle montagne dell’interno, dagli Appennini. Poi c’erano piccole fonti cittadine, ma quelle buone erano l’eccezione, come quella in una grotta a Santa Lucia, che dava acqua sulfurea o «ferrata», considerata benefica per la salute; o quella «del leone» a Mergellina, resa sfruttabile da uno dei tanti Ferdinando di Borbone, e dove ancora oggi c’è una fontana ornamentale con una statua del felino. Nelle zone più alte delle colline, quelle che oggi sono chic, i poveri abitanti dovevano accontentarsi dell’acqua piovana raccolta sui tetti.
Nella maggior parte dei casi, quindi, l’acqua di Napoli era così così, se non proprio cattiva. E per una serie di motivi. Quella che arrivava dalle montagne faceva un percorso lungo e accidentato, spesso attraverso canali scoperti e altre strutture facile fonte di contaminazioni. Quella che poi, qualsiasi ne fosse la provenienza, sostava nelle suddette cisterne e stanze sotterranee, era sempre a rischio di farsi stagnante, muffita, quando non di entrare in contatto con la parallela rete di tubi e collettori fognari. Non è un caso che Napoli – ma come abbiamo visto anche Londra, e Marsiglia, e Parigi – nell’Ottocento sia stata più volte colpita da epidemie di colera (una malattia che viene dall’acqua e che, macabra ironia, uccide per disidratazione, ossia per mancanza di acqua).
Fatta questa antipatica opera di demistificazione nei confronti dell’acqua partenopea, resta aperta la questione: cosa rende la pizza di Napoli la migliore del mondo? Che però a ben guardarla contiene un trucco, quello che i logici chiamano petizione di principio: si dà per scontato ciò che si vorrebbe dimostrare. Chiedersi perché la pizza di Napoli sia insuperabile è fare un po’ come Plinio il Vecchio, che si domandava come mai bastasse gettare un solo diamante nel letto di un fiume per fermarne il corso all’istante. La pizza napoletana, mi dite quindi, potrebbe non essere la migliore o meglio l’unica al mondo? Curiosamente noi napoletani siamo convinti anche di fare il caffè migliore del mondo, e anche di quello attribuiamo il merito all’acqua, e anche di quello il primato è oggi messo in forte dubbio. Dobbiamo quindi attribuire status di leggenda non solo all’acqua, ma alla pizza stessa (e al caffè)? Ne parleremo nel prossimo capitolo, ma ora dobbiamo andare a fondo sulla pizza napoletana.
(Sale)
E chi sale
Il sale della vita. Il sale della terra. Il sale in zucca. Il sale sulla coda. Il sale sulle ferite. Dolce di sale. Sapore di sale. Restare di sale. Non versare il sale. Non passare il sale. Passami il sale. Bisogna mangiare meno sale (ma quanto, meno?). Il pane che fate a Napoli ha troppo sale. Nella pizza c’era un sacco di sale, ho bevuto tutta la notte. Sale e pepe (detto ormai quasi solo di barba & capelli). Sale e olio – il grado zero del condimento (no non ci metto niente, solo sale e olio). Sale: sempre quanto basta (ma quanto, basta?). Le grotte di sale. I sali da bagno. Sta male, portate i sali! Spargi il sale ai quattro angoli della casa, e vedrai che succede. Il sale è un potente amuleto, portarne sempre un po’ addosso. Sale rosso, sale rosa, sale grigio, sale blu. Sale integrale, dell’Himalaya, di Maldon, di Trapani. Fiocchi di sale, fior di sale, privo di sale (in superficie). Il sale nell’acqua della pasta quando si mette? Attenzione col sale, che ad aggiungerlo si fa sempre in tempo, ma toglierlo non si può.
Se partendo dall’acqua, partendo con l’acqua, abbiamo detto che l’acqua è vita, che l’acqua siamo noi, per il sale è l’opposto. Il sale è tutto intorno a noi, più che dentro di noi (anche se abbiamo bisogno di reintegrare i sali, sudando si perdono sali – ok, non ricomincio). Eppure il sale, in cucina, se ne sta lì, modesto, con aria innocente: a volte in coppia con il pepe, a volte anche in quartetto con olio e aceto. E nelle ricette, alla fine della lista degli ingredienti: un pizzico, un’ombra, q.b.; spesso torna anche alla fine del procedimento, in un’espressione che adoro per la sua insensatezza, aggiustare di sale.
Non ci facciamo caso, proprio perché è un elemento quotidiano, che maneggiamo in continuazione, ma il sale ha una particolarità che lo rende unico, a tavola. È il solo elemento non organico che entra con continuità nella nostra alimentazione: trascende la classica dicotomia vegetale-animale, o per i più scafati la tripartizione che comprende anche i funghi, e che è tanto rilevante oggi per altri versi, etici ed economici; non è vivo, né lo è mai stato, è un semplice minerale. Cloruro di sodio, NaCl, questo è tutto, due atomi legati, uno di cloro uno di sodio. Se state pensando, beh un po’ come l’acqua: avete ragione.
Forse è per questo che, subito dopo l’acqua, nella seconda parte parliamo del sale. Non è solo una somiglianza chimica: sale e acqua sono intimamente connessi. Il sale, è noto, nell’acqua si scioglie. Si nasconde, si mimetizza fino a diventare invisibile (ma tutt’altro che impercettibile, appena la si assaggia). Si scioglie fino a un certo punto poi, e questo punto si chiama «punto di saturazione»: oltre una certa quantità percentuale, hai voglia a mescolare col cucchiaino. Ma il legame tra sale e acqua è profondo, originario: non è così risaputo, a meno che uno non si ferma a rifletterci, ma tutto il sale della terra deriva dal mare, cioè dall’acqua. Il sale marino, ovvio, che viene ricavato per evaporazione dell’acqua di mare nelle apposite saline. Ma anche il sale di montagna, o di miniera, tecnicamente detto salgemma, è sale marino: di mari non più esistenti, risalenti a ere geologiche passate, quando le terre emerse, e quindi le acque, avevano forme e collocazioni totalmente diverse da quelle di oggi. Mari estinti, ma che hanno lasciato tracce: di sale, appunto.
In un chilo di acqua di mare sono disciolti 35 grammi di sale, circa. Circa perché ci sono mari più salati e mari meno (per non parlare del Mar Morto, talmente salato, e quindi denso, che ci si può stare quasi seduti sopra – poi a voler fare i pignoli il Mar Morto non è un mare ma un lago, e non è morto perché anche se non ci sono pesci, ci vivono varie alghe e diversi microrganismi). E circa, perché non è solo il cloruro di sodio a essere disciolto nell’acqua, anche se è il minerale prevalente (77%).
Da quanto appena detto discendono cose interessanti e tutt’altro che scontate, anzi contrarie alla vulgata corrente, quando si parla di cibo. Innanzitutto: se il sale, con i suoi effetti sulla salute (elemento indispensabile, entro certi limiti) e sul gusto, non è altro che cloruro di sodio, allora non c’è alcuna differenza sostanziale tra sale di mare e sale di montagna. E non c’è neanche differenza alcuna tra il sale «normale» che costa pochi centesimi al supermercato, e i sali fighetti in vendita nei negozi di cibi naturali e gourmet. Sale rosa dell’Himalaya, rosso delle Hawaii, blu di Persia e così via: questa operazione di debunking l’ha fatta in modo puntuale e approfondito il chimico Dario Bressanini nei suoi libri e nelle sue rubriche. I colori dei vari sali sono dati da altri elementi, che sale non sono: argilla, ulteriori minerali, impurità varie. Che nella maggior parte dei casi vengono eliminati dal processo di raffinazione (una brutta parola, lo so), tanto che anche il sale integrale (una bella parola, lo so) in realtà è depurato, e l’unica differenza è che non viene sottoposto al processo finale di centrifuga e asciugatura, per cui risulta leggermente più umido. Ma appunto, da quando anche il sale è diventato oggetto di marketing alimentare (pardon: food), in certi casi questo processo non viene compiuto, o viene compiuto stando attenti a lasciare quegli elementi che rendono il sale particolare. Soprattutto alla vista. Perché poi, se parliamo delle presunte proprietà benefiche, degli oligominerali necessari per la nostra salute, si tratta di fuffa. Questi elementi, se ci sono, sono presenti in quantità talmente infime da risultare, di fatto, irrilevanti. E in certi casi, menomale: perché se è vero che non sarà mangiando tanto sale rosa che potremo soddisfare il nostro fabbisogno di ferro, è altrettanto vero che nel sale di montagna potrebbero essersi accumulati – proprio nel trascorrere dei millenni – residui di minerali tutt’altro che benefici per la salute, come il piombo o il nichel. Che poi siano belli a vedersi, e utili nell’impiattamento scenografico, è un’altra cosa.
Riguardo al gusto, invece, delle differenze ci sono eccome. Ma non hanno a che fare con la composizione – sempre di NaCl si tratta – bensì con la forma. Cristalli di sale di forma diversa stimolano in maniera differente i nostri recettori del gusto, facendo sembrare più salato un cibo dove invece il sale è solo utilizzato in un altro formato. Il famoso sale di Maldon, per esempio, non deriva la sua particolarità dalla zona o dall’acqua con cui è prodotto, bensì dal procedimento: un procedimento lungo e anche dispendioso (in termini energetici, economici, ambientali) che porta a formare delle stupende piramidi le quali poi, spezzandosi, danno come risultato le tipiche scaglie lunghe e sottili. Che su una bistecca, o su una focaccia, sono deliziose. Il gusto poi, come spesso accade, ha dei riverberi non indifferenti sulla salute: perché se è vero che bisogna tenere basso il consumo di sale (non oltre i 5 grammi al giorno, secondo l’Oms), uno stratagemma può essere quello di ingannare le nostre papille gustative, mettendo per esempio meno sale negli impasti e più in superficie, o appunto usando sale in fiocchi e simili. Ma come si incrocia il discorso sul sale con quello sulla pizza?
In vari modi, come vedremo. E non tutti piacevoli, come avrei scoperto sulla mia pelle, a un certo punto della vita. Il mondo è fatto a scale, o forse era l’Italia: perché lungo l’Italia c’è chi scende e c’è chi – più spesso, molto più spesso – sale.
(Lievito)
Tempo di crescere
E quindi, a un certo punto, mi sono ritrovato dall’altra parte del bancone. Sono passato in pizzeria: la pizzeria propriamente detta, che non indica tutto il locale, la vasta platea dove la gente mangia; ma il centro del locale, il suo cuore aperto, il laboratorio a vista, il palcoscenico obbligato, quel quadrato chiuso tra il lato dove le palline vengono stese, il banco che ospita tutti i condimenti, e la bocca del forno, quadrato stretto che limita i movimenti e libera i pensieri, quadrato magico che a volte è un fortino, a volte un ring. Cuochi e chef hanno un territorio, da abitare organizzare pulire e difendere strenuamente: è la cucina; noi abbiamo la pizzeria. Noto che ho scritto di getto «noi», e non voglio cancellarlo, anche se ora non ci sto più, ho cambiato ancora.
Io non più cliente in trepida attesa del fumante disco di pasta, in rispettosa ammirazione di quei gesti sicuri e tranquilli e impensabili da ripetere; ma pizzaiolo, che quel disco lo stende e condisce e inforna, veloce che subito c’è il successivo, e però con attenzione e precisione, il tutto inoltre sotto lo sguardo dell’altro, del cliente, quello che prima ero io: sguardo che può essere il più bonario e adorante del mondo ma, me ne sono reso conto passando dall’altra parte, comunque mette pressione, ansia, paura di sbagliare, e di farlo in pubblico. Io, proprio io, che avevo girato l’Italia alla ricerca della pizza perfetta, o il più delle volte in fuga dalla pizza schifezza, proprio io, pizzaiolo.
Con una serie di paradossi. Io che mi ero sempre ritenuto inetto al lavoro manuale: lavoro manuale che da un lato mi terrorizzava – mi terrorizza – per la ripetitività, per la fatica, per le caratteristiche fisiche che richiede, i rischi che si corrono, la distanza da tutta quella che era stata la mia formazione, dentro e fuori i banchi di scuola; e dall’altro – per gli stessi motivi – mi affascinava, come ti affascina un alieno, uno che fa free climbing, una monaca di clausura. Io che non avevo mai fatto neanche il cameriere, neppure da ragazzo, manco per sbaglio, neanche un mese per pagarmi una vacanza. Altro paradosso: io, napoletano, imparavo a fare la pizza lontano da Napoli, e a Napoli non ho mai lavorato, e mai in una pizzeria ho fatto la pizza alla napoletana. E infine, tutto questo mi succedeva non da piccolo, come quelli che portano avanti l’attività di famiglia; non da giovane, come quelli che a un certo punto senza arte né parte «si imparano un mestiere»; ma da grande, da adulto, da uomo di mezza età (che ci piaccia dirlo o meno, in un paese dove si è giovani fino a cinquant’anni e i settantenni si chiamano tra loro «ragazzi»). Io, proprio io, con tutto questo, all’improvviso ero pizzaiolo. Come cavolo è potuto succedere?
Innanzitutto, non è stato all’improvviso. E poi, non è successo solo a me. Quello che mi è accaduto è stato proprio come un processo di lievitazione: lento e continuo, tanto che a osservarlo per brevi momenti non si percepisce mai una rottura, uno strappo netto; e collettivo, corale. Proprio come i lieviti che agiscono in colonie invisibili e numerosissime, la mia trasformazione personale è stata portata avanti da un’onda, un movimento che ha coinvolto migliaia di persone e ha cambiato la faccia della società in cui viviamo. E no, non parlo della sbornia generale per il food, che ha stravolto le nostre vite negli ultimi dieci o quindici anni: da quello che guardiamo in Tv, con MasterChef e le mille altre trasmissioni di cucina, al modo in cui parliamo («impiattamento», «caramellizzazione»…), fino al modo in cui, per fortuna, è entrata nelle nostre vite la consapevolezza che mangiare non è solo nutrimento, non è solo godimento, non è solo salute, ma è anche un’azione connessa al lavoro di altre persone, alla vita di altri esseri, all’ambiente del Pianeta. Un cambio di prospettiva che viene da lontano – per dire, la fondazione di Slow Food è del 1990 – e che ha portato con sé eccessi su cui è giusto ironizzare e cose buone. Il commercio equosolidale e la moda delle birre finto artigianali, il sushi e i vini californiani, i food influencer e l’illusione che il cibo (e il turismo gastronomico) a un certo punto ci avrebbero salvati tutti. «Basta, lascio il lavoro in banca e mi apro un chiringuito su una spiaggia tropicale» si è sempre detto, ed è sempre rimasta una cosa che si dice solo. Ma tra i milioni di persone che hanno pensato almeno una volta nella vita, spinte dall’adulazione degli amici invitati a cena, di aprire un ristorante, ce ne sono migliaia che l’hanno fatto davvero. «So you want to be a chef» è uno dei capitoli centrali di Kitchen Confidential, il best seller di Anthony Bourdain che mostra di che lacrime grondi e di che sangue il dietro le quinte della ristorazione: il libro è del 2000, ed è vero che negli Stati Uniti sono avanti, ma la marea montava da lontano. No, comunque, non sto parlando di tutto questo, ma di una cosa più specifica, che pure di tali grandi mutamenti è parte. Sto parlando di una trasformazione che è avvenuta nel mondo del pane. Ed è avvenuta grazie al lievito.
Aldo Buzzi, nel 1979, con il meraviglioso librino intitolato L’uovo alla kok, certi versi anticipava le mode d’oggi, per altri indicava una strada alternativa alla gastronomia e allo scrivere di gastronomia, una strada divagante e leggera, coltissima e innamorata, una strada che non si è seguita. Certe cose sono incredibilmente profetiche:
Il pane cattivo vincerà sul pane buono. Solo dei privati cittadini potranno tornare a gustare il sapore del buon pane di una volta, impastando la farina giusta col lievito giusto secondo regole ormai messe da parte dai forni industriali, e cuocendo le pagnotte o i panini (o le schiacciate o le pizze) in un piccolo forno a legna che si costruiranno nelle loro case di campagna (non è una grossa spesa). Potrebbe diventare di moda, dopo il successo delle graticole all’aperto, e torneremmo a rivedere sui testi di cucina le ricette per fare le duecento diverse qualità di pane – dalle enormi pagnotte color miele di Matera ai sottili fogli del pane carasau sardo – registrate dalla viva voce degli ultimi maestri panettieri.
Per cominciare ne interrogo uno sulla porta del suo negozietto.
«Maestro, lei ha una qualifica ufficiale come panettiere? Ha studiato in una scuola o ha imparato presso un maestro dell’arte, come facevano una volta i più grandi pittori, scultori e architetti?».
«Io ho imparato da mio padre. Oggi, in città, ci vuole un diploma».
«La gente non protesta perché il pane non è più buono come una volta?».
«No, vogliono solo che il pane sia bianco».
«Perché non si usa più il lievito naturale che dà un pane migliore?».
«Perché col lievito naturale la lavorazione è più lunga: bisogna rimpastare diverse volte. E allora si usa il lievito detto di birra».
Sembra, nella prima parte, una cronaca degli ultimi anni. Perché questo è davvero quello che è successo: un movimento di panificatori casalinghi, partito dal basso, che poi però, superando le più rosee speranze dello stesso Buzzi, ha contaminato e spinto anche i professionisti del settore, dagli agricoltori ai panettieri passando per i mugnai. E la spinta, la madre di tutti i cambiamenti, è contenuta in un vasetto di pasta madre.
Vasetto di pasta madre come quello che Valentina, un’amica di Napoli come me trapiantata a Torino, un giorno ci portò a casa e ci infilò nel frigo, senza che nessuno di noi le avesse mai espresso curiosità o avanzato richieste a proposito di quello che si rivelò un blob colloso e puzzolente. Lei accompagnò il tutto con stringate istruzioni: lo mescoli con acqua e farina, aspetti che cresce, prima di infornare ne stacchi un pezzo e te lo conservi per la prossima volta. Provai, così, semplicemente: un disastro. Una schiacciata sottile e durissima che neanche gli antichi Egizi alle prime armi, credo. Telefonai al mio amico Vincenzo, che sapevo già impratichito di lievitazioni, e lui mi fece il cazziatone: Dario, quello per fare il pane ci vuole la ricetta! E già: perché per una torta ci vanno ingredienti e procedimento precisi, mentre il pane pensavo di poterlo fare a capocchia? Proprio il pane, che io stesso ritenevo così centrale: dovete sapere, se non ve l’ho già detto, che a me da quando ero emigrato il pane (e il caffè) forse mancava più della pizza; perché il pane napoletano, il pane cafone, se fatto bene è insuperabile, o insomma almeno tale lo riteniamo noi (noi napoletani, come tutti, crediamo di aver inventato ogni cibo, non solo la pasta e la mozzarella, ma anche il gelato e la carne ai ferri). E quindi, mi misi a cercare la ricetta del pane cafone, e non ne trovai una, ma decine, centinaia. Solo che, mannaggia, quel vasetto non lo avevo più considerato, e il lievito madre, a Napoli chiamato crìscito – forse perché fa crescere, cioè lievitare, forse perché è ciò che cresce, cioè avanza – era defunto, immobile e fetido. E qui mi venne in aiuto la mia compagna Gioia, che subito mi indirizzò a un paio di siti web, e mi aprì a un mondo: una comunità virtuale incentrata sulla pasta madre, una vasta rete sul territorio di «spacciatori» di lievito naturale, pronti a fornire a chiunque materia prima, conoscenze, esperienze. Recuperai un barattolo di lievito, mi misi a fare il pane. Mi venne sempre meno peggio, e poi addirittura benino: ma avevo già iniziato a farlo assaggiare, a parlarne, a regalarlo, a dare ricette (ogni tanto ancora oggi incontro qualche persona che mi dice: Io faccio il pane tuo eh, con la tua pasta madre, e poi una ricetta assurda, e allora trovo una scusa per allontanarmi o cambiare argomento, tanta è la vergogna). Provai anche a fare la pizza, ma smisi quasi subito. Soprattutto, mi resi conto di quello che stava succedendo, mi sentii parte di un tutto.
Tanto che poi, dopo qualche anno, in un momento di difficoltà lavorativa, uno dei tanti, trovai perfettamente naturale seguire il consiglio di, ancora una volta, Gioia, e iscrivermi a un master, a Scienze gastronomiche a Pollenzo, l’università di Slow Food, com’è nota: un corso alla sua prima edizione, un esperimento all’avanguardia, figlio di un movimento che in quegli anni stava crescendo, che dava dignità agli artigiani e traduceva la teoria in pratica quotidiana. «Alto apprendistato per panettieri e pizzaioli» si chiamava. E lì anche io iniziai a capire quanta storia e quanta scienza potessero esserci dietro un pezzettino di pasta madre.
(Farina)
L’elemento essenziale
E alla fine, arriviamo all’elemento primo: la farina. Farina che è elemento principale, innanzitutto dal punto di vista quantitativo: è l’ingrediente più abbondante nell’impasto, quello che nel prodotto finale può arrivare a pesare da solo fino a 2/3 del totale. Dal punto di vista qualitativo, manco a dirlo: la pizza è uno sfarinato (categoria merceologica), un carboidrato (classificazione nutrizionale), un primo piatto (gastronomica), insomma una pietanza semplice, fatta da una o due cose, un «desco cereale», come diceva Virgilio: farina, grano.
Farina che è elemento essenziale: può darsi infatti un impasto senza sale (maledetti toscani!). Può darsi una pizza senza lievito, o meglio senza lieviti aggiunti, come abbiamo visto, ma è la stessa cosa in questo momento, perché è l’aggiunta di ingredienti nell’impasto che stiamo considerando. Può darsi persino una pizza senza acqua, in teoria, anche se impasti dove l’idratazione è operata da latte, uova, burro, olio, sono più frequenti per brioche e rustici. Ma non si dà pizza senza farina.
Farina che è elemento caratterizzante, perché variabile. Mi spiego: quando in un discorso comune diciamo «farina», senza ulteriori specificazioni, la mente va a una cosa. Un pacco da un chilo di polvere bianca, di un grande marchio, comprato al supermercato, che riporta la scritta farina 00 e probabilmente l’indicazione ideale per tutte le preparazioni. Quella è la farina: tutte le altre, anche oggi, hanno bisogno di specificazioni: farina americana, farina per torte, farina integrale, farina semi integrale, farina di farro, di ceci, di castagne. E poi mix per pane, pronto pizza, e dall’altro lato farina da grani duri 100% italiani, fino a specificare la varietà di frumento, nel caso si tratti di «grani antichi». Ora, al di là del marketing: è oggettivo che esistano le farine. E che qualcosa sia cambiato negli ultimi anni: una maggiore consapevolezza delle differenze, un più accorto interesse verso le caratteristiche gastronomiche e salutistiche. Passa una differenza enorme tra una pizza realizzata con sola farina manitoba (esagerata) e una fatta con farina di mais (impossibile). Perché le farine sono tanto diverse tra loro, hanno uno spettro di variabilità così ampio, e perché appunto sono l’ingrediente preponderante.
Farina che è elemento processato: cultura, artefatto. Lo abbiamo accennato, ma conviene ripeterlo, si tratta di cibo tutt’altro che semplice, diretto, «naturale»: i cereali, che occupano la maggior parte del suolo coltivabile sul nostro pianeta e garantiscono la nostra sopravvivenza, hanno bisogno di una serie di trasformazioni per essere commestibili. La cottura, certo: ancora oggi zuppe di farro e di orzo e di grano ci arrivano in tavola. Ma la vera svolta si è avuta con la macinazione, e tutte quelle complicate e separate operazioni che la precedono e la seguono. Schiacciare un seme tra due pietre per liberarne la parte morbida e renderlo edibile è operazione che gli uomini compiono da centinaia di migliaia di anni, probabilmente, da quando eravamo ancora solo cacciatori-raccoglitori. È operazione non esclusiva degli umani, in verità: anche i corvi per esempio schiacciano le noci, solo che loro invece delle pietre si servono delle zampe degli animali di grossa taglia, tipo elefanti, o delle ruote delle automobili. Ma farlo in maniera massiccia e sistematica è una di quelle cose che ha portato l’uomo in una nuova storia.
Farina che è figlia della rivoluzione: la rivoluzione agricola, quel processo di domesticazione e controllo delle coltivazioni che è partito circa 10.000 anni fa, e che ha cambiato radicalmente la vita dell’uomo (e della Terra), rendendolo stanziale e provocando un boom demografico, permettendo l’accumulo di provviste e la costruzione delle città, causando lo sviluppo di mestieri non direttamente legati alla produzione di cibo e la nascita degli eserciti, la creazione del denaro e della scrittura, il benessere e la disuguaglianza, la schiavitù, i viaggi interplanetari e MasterChef. Tutto per un chicco di grano. Secondo alcuni, addirittura, la rivoluzione agricola del Neolitico sarebbe l’inizio di tutti i mali del mondo, dalle guerre al riscaldamento globale, dal patriarcato alla nostra insana predilezione per gli alimenti zuccherini: lo sostiene per esempio Spencer Wells nel bellissimo Il seme di Pandora.
Eppure, questa visione affascinante e rivelatrice potrebbe a sua volta essere semplicistica, deterministica fino alla rassegnazione: è andata così, non poteva che andare così. Il grande antropologo e attivista David Graeber si è speso in più di una occasione per argomentare il contrario: non abbiamo mai avuto la strada segnata, ci sono stati altri modelli di società in passato, ce ne sono attualmente, ce ne saranno. Tornando con i piedi per terra, in un campo di cereali: anche questa storia, prima rapidamente sintetizzata, non è così univoca. Non lo è nelle date, perché il passaggio all’agricoltura è avvenuto separatamente in vari luoghi del mondo, in alcuni anche solo 3 o 4000 anni fa. Non lo è nella sostanza, perché si è trattato di cereali molto diversi tra di loro, dal mais al riso passando per il teff; e non lo è nelle modalità, perché le strutture sociali sono state anche molto varie. Poi c’è da dire un’altra cosa: il consumo massiccio di cereali molto probabilmente non è entrato di colpo nella storia umana, tipo che il giorno prima si andava a caccia di mammut e il giorno dopo tutti ad arare campi e piantare frumento. Ci saranno stati secoli, millenni in cui gli uomini del Paleolitico approfittavano dei cereali selvatici, così come raccoglievano semi, bacche e frutti di qualsiasi pianta commestibile. E poi, raccolto dopo raccolto, avranno iniziato a capire il funzionamento, e come controllarlo, un po’ alla volta, prima semplicemente incendiando i resti (e le aree circostanti) per fare più spazio al ciclo successivo, poi passando alla semina diretta. Quello che intendo è che le due storie, quella alimentare e quella sociale, sono sì connesse, ma non saldamente legate: se abbiamo visto che la produzione di cibi lievitati è quasi certamente successiva di molto al passaggio all’agricoltura, non è azzardato supporre che un grande peso dei cereali nell’alimentazione sia di molto precedente alla loro effettiva domesticazione. E quindi che la stessa farina sia più antica dell’uomo del Neolitico.
Farina che è direttamente legata alla pizza contemporanea, fino a diventarne simbolo, per motivi intrinseci alla storia della sua evoluzione. La pizza moderna si può dire che nasca quando, con i mulini a cilindri e i grani d’importazione, si riesce a ottenere una farina raffinata e capace di sviluppare una maglia glutinica in grado di reggere la particolare lavorazione del disco di pasta. Prima – cioè fino all’Ottocento, come abbiamo visto nella parte uno – non è che non vi fosse pizza, ma certamente non era come oggi la conosciamo, la pensiamo. La pizza contemporanea, a sua volta, nasce in seguito alla ricerca di alternative: alternative al lievito di birra, come s’è detto nella parte precedente, con la scoperta/riscoperta di lievito madre e impasti indiretti; ma anche alternative alla solita farina 00. Altre macinazioni diverse da quella industriale, altri grani diversi dal frumento tenero standard, altri cereali diversi dal grano: oggi è raro entrare in una pizzeria che voglia darsi un minimo di tono, anche senza aspirare a gourmet, e non trovare la proposta di almeno uno o due impasti alternativi al classico. Che poi in certi casi sia solo una posa, una riga per dare lustro al menu, e alla prova dei fatti «mi spiace oggi il farro non è disponibile»; che poi spesso rischi di diventare una moda, un obbligo per elevarsi, sentirsi parte di un movimento, e in mano a lavoranti poco esperti dia invece origine a impasti pesanti, mezzi crudi e poco digeribili: tutto ciò non importa, ai fini del discorso presente. Conta l’apparenza, per una volta: il fatto che la farina, anzi le farine, siano un tratto distintivo della pizza di oggi. E forse di domani.
Farina che è polvere, pericolo. Fine, impalpabile, quasi inesistente se ne spargi un po’ per aria o sul tavolo di lavoro. Ma compatta e pesante se impilata nei sacchi: sacchi che ne contengono fino a venticinque chili, quelli per uso professionale, qualche decennio fa addirittura c’erano quelli da cinquanta, evidentemente i panettieri di una volta avevano un’altra forza. Farina che può contenere, perché il grano ne contiene, parassiti e tossine, insetti e invisibili patogeni: quando ci lamentiamo della filiera industriale pensiamo anche a questo, che agricoltori e mulini effettuano una serie di controlli meccanici e chimici che rendono il prodotto il più possibile sicuro. Non è stato sempre così, ma la visione bucolica di coltivarsi il proprio campicello di grano dietro casa, e farsi la farina da sé con una piccola macina a mano, non solo è una scemenza ma, come mi disse una volta un mugnaio, è il modo migliore per farsi venire un tumore nel giro di qualche anno.
Farina poi che come tutte le polveri è un potente esplosivo: certo ci vogliono determinate condizioni di concentrazione, temperatura e pressione, ma non vi consiglio di fare la prova, tenetela lontana dal gas acceso. Il 16 luglio del 2007 a Fossano, provincia di Cuneo, due esplosioni innescate forse da un sovraccarico, forse da condizioni di sicurezza non perfette, mandano in fiamme un silos e una cisterna del Molino Cordero: muoiono cinque operai, lo stabilimento chiude per sempre.
Farina che, forse, è stata ciò che mi ha allontanato dal mondo degli impasti, come il lievito mi ci ha avvicinato. La pesantezza dei sacchi da portare, da maneggiare: ci sono delle tecniche, piegare le ginocchia, non sforzare la schiena quando lo prendi o lo posi, appoggiarlo sulla spalla e non sulle braccia quando lo porti, ci sono dei metodi ok, ma venticinque chili restano venticinque chili. E intanto vedevo spuntare le prime vene varicose, classico effetto collaterale di quei mestieri dove devi stare sempre in piedi. Un’altra malattia professionale dei panificatori, mi spiegò un giorno Fagnola, è la piorrea: anche se non la vedi, moltissima farina è sospesa per aria in un laboratorio, ti entra in bocca e nelle vie respiratorie, si posa sulle gengive e te le consuma, ti secca le mucose – bisognerebbe lavorare sempre con le mascherine, altro che coronavirus.
Un velo di polvere che si posa dappertutto, ti entra nei vestiti: me la sentivo sempre addosso anche dopo ripetute docce, come una seconda pelle. Una pelle che a un certo punto, evidentemente, può iniziare a stare stretta.