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Adattarsi a cosa?

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È possibile un’ecologia dei discorsi correnti sull’intelligenza artificiale generativa? Come evitare attività didattiche e formative superficiali e approdare a un uso critico e collettivo, “vigilante”, di queste tecnologie?

Sono decisamente disadattivo, oltre che disadattato. È appena stata annunciata una mini-sperimentazione dell’intelligenza artificiale per personalizzare la didattica in 15 scuole italiane; contemporaneamente, i siti acchiappa-clic mettono sotto la luce dei riflettori una scuola privata inglese che ha da poco annunciato l’intenzione di dare vita a una classe governata dall’AI adattiva, assistita da qualche coach dell’apprendimento, per la modica somma di 27.000 sterline.

Puntualmente, le reazioni – nei social e in qualche residua conversazione con scambio diretto di onde sonore – sono per me insopportabili, perché confermano il prevalere nel discorso pubblico sui dispositivi digitali di quattro tipologie antropologiche: l’apocalittico ignorante, l’integrato insipiente, l’integrato ignorante e l’apocalittico insipiente. Il debate (dibattito, in italiano analogico) a scuola e dintorni è da almeno un lustro saldamente polarizzato, tra chi apprezza “a prescindere” qualsiasi innovazione e chi rifiuta aprioristicamente non solo qualsiasi modifica, ma anche ogni messa in discussione del profilo professionale.

Ma allora, cosa vorrei, oltre a discussioni aperte che abbiano come scopo il confronto o addirittura la sintesi in nome dell’interesse generale e non il prevalere di un posizionamento? Vediamolo in dettaglio.

In primo luogo, vorrei (ri)portare la questione “intelligenza artificiale [generativa!]” e quella più generale “dispositivi digitali” a una dimensione… politica, intesa come gestione partecipata del bene comune. La mia posizione di partenza sarebbe questa: abbiamo bisogno di servizi pubblici digitali in vari spazi della vita sociale; è quindi necessaria una profonda trasformazione dell’approccio. In ogni loro articolazione, gli apparati devono essere sottoposti a controllo democratico, depurati da investimenti oligopolistici, brevettazione e segreto industriale, sottratti all’epistemarketing accademico autopromozionale, verificati e adattati in termini di impatto ambientale, e conformati, fin dal primo momento della progettazione, a un’etica del rispetto, dell’interdipendenza e dell’equità.

In secondo luogo, vorrei trovare interlocutori con cui discutere su un piano totalmente paritario e in modo approfondito il manifesto di critica all’intelligenza artificiale generativa che ho steso e pubblicato da qualche settimana insieme a persone con cui rifletto da anni. Tra autori abbiamo molto in comune e parecchie differenze (sì, è possibile: si chiama tendenza alla problematizzazione) e per qualche mese abbiamo scambiato e messo in comune opinioni condivise e non, reciproche provocazioni, ma soprattutto letture. Non avevamo fretta, cioè spazi da occupare, pubblicazioni da promuovere, tavoli di convegno e interviste a cui aspirare. E così la presa di posizione più importante del nostro manifesto è il punto 10 della versione 3:

L’ossessione per la definizione di una “didattica del prompt” sembra un tentativo di depositare un marchio prima degli altri. Questo tentativo è ridicolo e destinato a fallire, perché siamo in una fase di beta-testing dell’IAG.

Detto in modo meno rissoso, ma in voluto attrito con i mantra del mainstream, affermiamo che molta accademia e parecchi dei suoi derivati hanno avanzato ipotesi di attività didattiche e formative superficiali e destinate a rivelare la propria inconsistenza operativa e culturale di fronte anche solo all’incalzare degli eventi tecnologici.

I fornitori di servizi digitali in generale e di assistenza artificiale in particolare hanno infatti chiaro di operare sul mercato della conoscenza, una parte del quale comprende l’istruzione. La stessa consapevolezza caratterizza i fornitori di software già consolidati. E stanno quindi proliferando da ogni parte moduli operativi tutti fondati sull’AI generativa, ma destinati ciascuno al supporto di attività differenti, ben precise e delimitate. Supporto che comprende anche quello delle eventuali chat, per cui la banalizzazione del rapporto con i dispositivi insito nel concetto di “didattica conversazionale” è destinata a emergere rapidamente.

Vorrei poi un’ultima opportunità di riflessione e di emancipazione, fondata sull’uso critico e collettivo, “vigilante”, di tecnologie in qualche modo promettenti. Tra i dispositivi destinati ad attività specifiche, ho infatti avuto modo di provare ed apprezzare – per la stesura del manifesto, ma non solo – quelli (UPDF e NotebookLM, per esempio) destinati a “leggere” (=scansionare, analizzare, classificare, sintetizzare e correlare secondo strutture predefinite) contenuti testuali raggiungibili via rete o forniti dall’utente, con cui aprire successivamente alla prima scrematura conversazioni di approfondimento. La loro potenziale utilità è evidente, dal momento che la quantità di materiali scritti disponibili è ormai esorbitante ed è quindi utile poterli in qualche modo filtrare, rifiutando di arrendersi all’overload informativo conseguente alla digitalizzazione dei supporti e alla trivializzazione di troppe produzioni intellettuali e editoriali.

La mia non è una fiducia assoluta e tanto meno una delega adattiva: prima di usarli ho testato l’attendibilità di questi apparati su materiali a me ben noti. Dal momento che essi rispondono a un’esigenza ben precisa del mercato intellettuale, e che molto probabilmente entreranno nel panorama delle funzionalità diffuse, auspico perciò – in modo presumibilmente ancora una volta illusorio e destinato a produrre ulteriore disadattamento – che i feedback sulla loro efficacia e sui loro limiti siano patrimonio trasparente e collettivo, non solo materia per il raffinamento di black box con vocazione al profitto.

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Marco Guastavigna

Insegnante nella scuola secondaria di secondo grado e formatore. Tiene traccia della sua attività intellettuale in www.noiosito.it.