A prescindere

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“Da quest’anno ci saranno in classe quasi mille nuovi giovani insegnanti. È una quantità di assunzioni notevole per questo momento economico. Senza contare che queste persone sono quasi native digitali, e comunque hanno una buona dimestichezza con le nuove tecnologie: un valore aggiunto per la nostra scuola”. Comincia così l’intervista dell’edizione torinese di Repubblica del 10 settembre al nuovo Direttore Regionale dell’Istruzione piemontese, Giuliana Pupazzoni.

 

La frase è – con tutta probabilità involontariamente – esemplificativa di una mentalità molto diffusa nella scuola dell’intero nostro Paese. In primo luogo, infatti, le tecnologie digitali dell’informazione e della comunicazione sono costantemente “nuove”, nonostante la connessione a Internet a banda larga si avvii a compiere il proprio terzo lustro di vita e “Time” abbia assegnato il premio di Persona dell’anno al Personal Computer addirittura nel 1982. Pur con questa connotazione di elemento non consolidato, di variabile infrastrutturale e operativa destinata a modificare le modalità di insegnamento, alle TIC in quanto tali viene attribuito da questo tipo di immaginario pedagogico un valore aggiunto assoluto. Indiscusso e indiscutibile, anche se non vi sono ricerche scientifiche o evidenze credibili che dimostrino che l’impiego dei dispositivi elettronici abbia determinato un effettivo incremento dei risultati di apprendimento degli studenti.

Nessuno dei decisori politici e dei rappresentanti delle istituzioni, poi, sembra considerare che il Rapporto OCSE ha messo fortemente in discussione il modello di innovazione praticato con le azioni del progetto “Scuola digitale”. La maggioranza di coloro che hanno un qualche interesse in merito sembra poi ignorare il fatto che lo stesso Prensky – ovvero colui che ha introdotto la fortunata classificazione tra nativi e immigrati digitali – è andato ben oltre, arrivando a definire categorie molto più convincenti e significative dal punto di vista cognitivo e culturale: stupidità, destrezza e saggezza digitale.

Appartengono al primo gruppo coloro che praticano il plagio, l’intrattenimento fine a se stesso, la violazione del copyright; che dimenticano di realizzare copie di sicurezza di dati importanti; che lasciano dati sensibili su dispositivi condivisi e così via. Ma anche coloro che rifiutano a priori – per snobismo o pregiudizio – di utilizzare le TIC nella propria attività di lavoro e in genere nella propria vita.

Il secondo gruppo comprende coloro che sono padroni delle strumentazioni digitali, ma le utilizzano senza autentica consapevolezza, senza un vero progetto di accrescimento delle proprie capacità logiche e culturali.

È invece un saggio digitale chi utilizza le tecnologie digitali per potenziare intenzionalmente le proprie abilità, la propria capacità di analisi e di giudizio, i propri processi decisionali. Per questa ragione il mio augurio agli studenti – soprattutto alle sparute minoranze coinvolte nelle attività della classi 2.0 e delle scuole 2.0 – è quello di poter contare su insegnanti caratterizzati da vera saggezza digitale, quale che sia la loro età anagrafica e professionale.

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Marco Guastavigna

Insegnante nella scuola secondaria di secondo grado e formatore. Tiene traccia della sua attività intellettuale in www.noiosito.it.

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