Le Case del malcontento

Tempo di lettura stimato: 7 minuti
Una lingua illustrata, vivida, aspra e poetica insieme, potentissima. Una scenografia – un grumo di case, la terra, la roccia, il cielo, la bottega, il campanile – in cui si muovono i personaggi, che sono «persone normali, gente meravigliosa, assediata dai mostri». “Le Case del malcontento” è uscito poco più di un mese fa per e/o: noi lo abbiamo letto, e poi una volta finito ci abbiamo pensato, e l’abbiamo riletto, e infine abbiamo sparato a Sacha le nostre domande. Ecco come si è difeso. L’intervista è uscita su Maremmatouring, che ringraziamo per aver acconsentito alla pubblicazione anche su «La ricerca».
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L’autore cerca di ricordarsi quand’è che ha acconsentito a questa intervista.

Che tipo di scrittore sei?
Vengo da questa scuola. Anche.
[Se aprite il link, e leggete, fino in fondo, fate bene. Poi però tornate qui, N.d.R.]

Da dove vengono le tue storie?
Ci sono, da qualche parte. O almeno: c’è un canile senza fondo, dove dalle celle latrano a oltranza. Però non conta niente: senza voce, delle storie mi interessa poco. Ho bisogno di un letto di silenzio (intendo il terremoto), altrimenti non apro nemmeno il computer. Per dirla come i poveretti: il modo di dire le cose è le cose.

Esiste una poetica che accomuna i tuoi libri, e se sì, qual è?
C’è, immagino. Dico questo perché la poetica è in fieri, la panoramica onesta su uno scrittore avviene solo dopo. E per “dopo” intendo quel dopo. (Ci sono pulsazioni, ovvio. Temi ricorrenti, guaiti particolari che potrebbero dare la bussola. Probabilmente non devo parlarne io).

Siamo rimasti folgorati dalla lingua che usi, dalla voce del borgo declinata nelle inflessioni dei personaggi. Come ci sei riuscito?
È una vena che ho. Nelle pagine de “Le Case del malcontento” metto in scena un’inclinazione al vivere che mi hanno stampato in fronte alla nascita, o forse anche prima: la terra parla tanto. Il gesto di scarto che fa la vita è fotografato per come l’ho dentro, dai primi passi. Le Case è una suggestione semantica. Ho provato a metterla in pagina.

C’è da qualche parte nel libro un autoritratto, una fugace apparizione dell’autore?
Ovunque. In tutto. Lo posso dire: lo stesso Samuele Radi che dà l’acchito al romanzo sono io. Con i simboli e gli spostamenti del caso.

La tua scrittura ha bisogno di preparazione? Studi, ti informi, leggi mentre scrivi? Ad esempio, per quanto riguarda il lessico, le frasi, le espressioni: hai un taccuino su cui appunti cose sentite in giro, o ispirazioni, oppure tutto nasce e finisce sulla carta/schermo nello stesso momento in cui sei alla scrivania?
In questo caso no, era tutto depositato, al vivo di me e del mio (ignorabilissimo) occhio sul mondo. In altre circostanze la battaglia è più complessa – penso al romanzo storico: studio, approcci sull’intenzione eccetera. A Le Case si respira per come respiro io (la stessa cosa avviene ne “I Cariolanti”, ne “L’ingrato”, ne “Le nostre assenze”…). Niente appunti: solchi che ci sono. E vanno a fare le pagine.

Ci mandi una foto della tua scrivania?
No.
[Cattivo, N.d.R.]

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L’autore forse alla scrivania, forse altrove.

Quali sono gli oggetti sul tavolo?
Una lampada di plastica. La sigaretta. “Notturno cileno.” “La morte di Bunny Munro.” “La figlia oscura.” Una bottiglia d’acqua. L’iPad. “Mattatoio n. 5.” Il telefono.

Hai dei riti, dei feticci, delle formule magiche?
Per niente. Però bisogna che sia centrato, almeno un pochino, sennò lo scrivere viene come un esercizio di stile – o peggio: un’esibizione. Quindi da vomito.

Chi è il tuo lettore?
Qualcuno che non ha paura di mettere almeno un dito nello schifo supremo. O in quella che per me è la luce delle cose.

Quando scrivi, a chi pensi?
Ci sono persone a cui indirizzo la scrittura, è vero. Mi fa “da asse”, in qualche modo. Forse è una debolezza. Forse è una potenza.

Quando hai iniziato a scrivere?
Da ragazzino. Poi al liceo potevo apparire un po’ strano, ma se mi toccavano quella cosa diventavo violento. Ci sono stati episodi incresciosi, che penso tutt’oggi con rimorso. Mi proteggevo nel modo sbagliato.

Sappiamo che sei anche un lavoratore culturale e che ti occupi di editoria: la scrittura arriva prima, dopo o è nata in quel contesto?
Il gesto della scrittura è il primordio. C’era anche quando non potevo dirlo; per esempio ai miei amici dell’adolescenza: se accennavo all’argomento cominciavano a sbadigliare. Il resto è venuto dopo.

Chi sono i personaggi de “Le Case del malcontento”?
Persone meravigliose, per me. Vere e distrutte e piene di tutto, dall’agonia dello spreco al colpo di meraviglia che può fare una giornata di pioggia uguale a mille altre. Sono assediate dai mostri. Insomma, gente normale.

Se Le Case è Roccatederighi, che è il tuo paese di origine, i personaggi sono il precipitato di quelli che popolano i tuoi ricordi d’infanzia, dei grumi di caratteristiche, pure creature della tua immaginazione?
Roccatederighi è un luogo bello, con l’andatura di quei borghi un po’ sospesi nel tempo. I personaggi di Le Case sono una colata densa della mia percezione: un piglio, un territorio. Una specie di inconscio collettivo. Però lancerei questa sfida: andate là. Fate un giro in quella geografia. Camminando nei vicoli delle contrade alte potreste avvertire delle risonanze speciali. È tutto lì. Ne “Le Case del malcontento” cerco di dare un nome a quella roba.

Qual è il meccanismo del libro? Come funziona?
Insiemi e sottoinsiemi. Nella volata alta c’è una storia d’amore, e questa sarebbe la linea orizzontale degli eventi (interiori e non). Va all’unisono con incursioni costanti e verticali: gli abitanti di Le Case, che capitolo dopo capitolo arrivano e ti raccontano la loro vicenda. Parte un canto. Le voci si ammucchiano. E si va là, dove secondo me si disegna l’intenzione di Maremma, nel gioco del piccolo che racconta il grande.

Che parola è il “malcontento”?
La domanda è strana. Secondo me la risposta va cercata lì dietro, nella polvere che alza, a seconda di chi legge.

“Le Case del malcontento” è un libro politico?
Ovvio. Tutti i libri sono politici. Viene messa in campo una vista sul mondo. Anche Pinocchio è un libro politico. O prendi Topolino, aprilo alla prima storia: uguale.

Hai scritto molti libri: qual è quello a cui sei più affezionato, se c’è, e perché?
Sono banale come la morte: l’ultimo. Questo. Perché mi sento “aumentato”. Perché mi sembra di dire con più semplicità le faccende complesse del vivere. Mi fa pro, tenendo conto della stradina senza reti di sicurezza che imboccai dodici anni fa, con il primo romanzo.

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La bellissima copertina di casette smaltate inganna. Poi lo apri e morde.

Ti rileggi mai?
Da pubblicato, mai. Prima è un calvario.

Come è stato fatto l’editing? Che rapporto hai avuto con la casa editrice, che rapporto hai avuto con il manoscritto che hai affidato alle cure di un professionista, se così è stato?
Naturalmente è stato così: non ci sono altre vie. Claudio Ceciarelli ha preso Le Case, ci è entrato, ne ha visto l’osso sporco. L’atto potrebbe far pensare a questo: prendere il cavallo impazzito e portarlo un pochino su una traiettoria. Un pochino.

Sei possessivo?
Sono irrisolto sotto tantissimi punti di vista.

Cosa stai scrivendo adesso?
Un romanzo. E un romanzo per ragazzi. E una raccolta di racconti. E delle sceneggiature.

Immagini “Le Case del malcontento” trasportato sullo schermo? E se sì, immagini proprio quei luoghi o potrebbe trattarsi di qualsiasi provincia?
Dovessimo portarlo sullo schermo, immagino proprio quel posto. Ci sono ascendenti indiscutibili legati alla terra, agli umori quotidiani. Potremmo trasportare tutto a Cody, Wyoming, e non cambierebbe niente. Si parla di matrici umane. Ma nell’impronta mi piacerebbe quell’ugola, quella baionetta precisa.

Esiste una maremmanità, anche sotterranea, che definisce la storia?
La maremmanità, a Le Case, è un gran pezzo d’anima. Definisce il taglio di tutto. Anche il modo di come i personaggi si dicono buongiorno.

Nota:

L’articolo è uscito su Maremma Touring, una rivista di promozione territoriale nata nell’ambito del Progetto “SMS – Social Media School” del Polo Bianciardi di Grosseto. L’anno scorso hanno partecipato alla redazione 3 classi di un istituto tecnico per la grafica e 3 di un istituto professionale per i servizi commerciali. Quest’anno gli alunni coinvolti sono una ventina. Ne parlavamo qui.


Sacha Naspini è nato a Grosseto nel 1976. Collabora come editor e art director con diverse realtà editoriali. È autore di numerosi racconti e romanzi, tra i quali “L’ingrato” (2006), “I sassi” (2007), “I Cariolanti” (2009), “Le nostre assenze” (2012), “Il gran diavolo” (2014), “Le Case del malcontento” (2018). Dal 2012 conduce laboratori di scrittura creativa. Dal maggio 2017 è membro del comitato scientifico Luciano Bianciardi – Fondazione Bianciardi Grosseto. Scrive per il cinema.
Il suo sito è questo: sachanaspini.com

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