Se una fontana si ammala

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Hai presente le gambe che tremano? Il cuore che non sta fermo, la voce che non sembra la tua e le mani che si nascondono dietro la schiena perché è lì che si annida ogni balbettare e loro non possono che stringersi l’un l’altra per farsi coraggio? È la poesia quando hai sette anni.
Lo scrittore tedesco Michael Andreas Helmuth Ende a dieci anni, 1939, www. michaelende.de

Il tema è natalizio, ovviamente (Comm’è bell’ Natale a sera ‘ra viggilia, / è tutt’ n’allegria p’a nascita e’ Gesù), e tu sei in piedi su una sedia, cosa che ti rende ancora più nervosa. Credi che sia colpa dei parenti, per quanto il clima allegro e il fatto che la cosa si ripeta ogni anno ti portino a pensare che applaudiranno lo stesso alla fine, che tu ti blocchi o no. Poesia, applauso, mazzetta del nonno: è così che va o non sarebbe Natale.

Eppure sei nervosa lo stesso e la poesia è solo un elenco di parole troppo lunghe e voragini improvvise in cui senti di inciampare ogni volta che finisce il verso, senza ricordare come inizia quello dopo. Così, quando in classe devi alzarti in piedi a sciorinare Il cinque maggio, non ti chiedi davvero che significa, cosa dice: ti attacchi alle rime come se fossero i binari e tu il treno, ci corri sopra come un razzo, altri due minuti e sarà finita.

No, non sai niente della poesia se non che devi ripeterla dieci volte con il quaderno chiuso se vuoi andare a giocare con la coscienza a posto. Questo finché la maestra non ve ne insegna una senza rime. La imparate per il primo maggio e fa così:

Nessuno ci ha offerto un lavoro.
Con le mani in tasca e il viso basso stiamo in piedi all’aperto.
E tremiamo nelle stanze senza fuoco.
L’attesa è lunga.
Chissà.

Non ti andrà più via dalla testa. E per anni, quando vedrai i disoccupati scioperare per strada o davanti alle fabbriche che hanno appena chiuso, ti verrà in mente una stanzetta buia e un uomo triste con le mani in tasca che fissa la porta chiusa.

Vent’anni dopo nella mia classe leggiamo La fontana malata.

Clof, clop, cloch,
cloffete,
cloppete,
clocchette,
chchch…
È giù,
nel cortile,
la povera
fontana
malata;
che spasimo!
Sentirla
tossire.

È così triste.
Il mio occhio allenato, la mia deformazione professionale scannerizzano i versi e visualizzano parallelismi, onomatopee, allitterazioni, anafore. I miei alunni no. Si concentrano invece su ogni suono trasformato in parola, descrivono la goccia che cade dalla fontana nel pozzetto d’acqua sottostante (clof), a terra (clop), su qualcosa di ferro, forse una grata (cloch).

Adesso vedono la fontana nel cortile, la immaginano piegarsi in avanti, tossire come un essere umano, ed è così brutto che una fontana si ammali che non ha senso in questo momento puntare il dito contro le parole, distinguere una figura retorica dall’altra. Le notano questo sì, quasi tutte: individuano subito l’angoscia dei suoni che si ripetono, delle parole che ritornano; la stanchezza del tornare subito a capo, i versi che suonano allo stesso modo. Solo, non li chiamiamo allitterazione, anafora, enjambement, omoteleuto.

Sono in prima media ed è la prima poesia che leggiamo insieme: è ancora presto. Non ci interessano la metrica, la biografia dell’autore. Ci interessa questa sensazione di tristezza e quest’idea luminosa, inquietante, che anche agli oggetti tocchi la stessa sorte degli esseri umani. Ci interessa la fontana che è una cosa materiale, banale, una visione ricorrente nelle strade o ai giardini, e ancora di più, che sia malata, perché questo la rende diversa, speciale: tra tutte le fontane, l’unica che sia come noi.

A che serve la poesia? Chiede sempre qualcuno di loro.
Non la capisco, fa eco un altro. Non si capisce.
Forse per questo la prima cosa che dovremmo insegnare della poesia è il modo in cui anima il mondo attraverso le parole. Ma questo insegnamento dovrebbe essere graduale, accompagnato da una lettura libera del testo che si soffermi su quanto ha suscitato nei ragazzi.

Spesso niente va detto: il senso di distacco da quanto viene letto in classe a volte è così accentuato, che pare che nulla li possa incuriosire o suggestionare. Per questo se vogliamo abituarli al salto tra reale e poetico dobbiamo giocare d’anticipo: assecondare alle elementari la tendenza dei bambini a interpretare la realtà in modo fantasioso, e non abbandonare tutto alle medie, come se di colpo la poesia diventasse qualcosa da tradurre necessariamente in prosa, o peggio, in un elenco di figure retoriche da indovinare.

Prendiamo la fontana malata, invece, e parliamone. Leggiamola tossire, sentiamo che muore. Leggiamo Gozzano, Rodari, Moretti, Lamarque; passiamo dai canti curdi a quelli degli Indiani d’America. Scegliamo poesie che siano belle e comprensibili, che possano parlare davvero alla loro età e leggiamole senza preoccuparci degli aspetti più tecnici del testo. Insomma, almeno all’inizio, proviamo a mostrare veramente cos’è una poesia. Proponiamo esperimenti col linguaggio poetico: cerchiamo di capire perché fontana rotta è meno poetico di fontana malata. Scegliamo la parola o il verso che ci trasmettono una certa emozione. Leggiamo solo quella parola o quel verso, in successione. Smontiamo la poesia e facciamola risuonare in classe come una cosa sospesa, che non serve, è solo bella. Quello che staremo cercando, sotto l’apparenza di lettere e suoni, è quel senso di assoluto che ha rincorso il poeta, tentando di scoprire come riesce a ottenerlo. Potremmo accontentarci per il momento di dire questo ai nostri alunni: che lo fa suggerendo. Una fontana gocciola e il poeta è poeta perché la sente tossire e suggerisce al lettore che sia malata. Poi potremmo divertirci un po’, trovare la poesia nell’accostamento di due parole, un oggetto e un modo d’essere tipicamente umano. Ecco che potrebbero venire alla luce un pallone nervoso; un fiore timido; un pupazzo di neve che suda, un fazzoletto che piange.

Non si tratta di scrivere poesie ma di giocare col poetico. Mostrare di quest’arte l’aspetto difficile senza dimenticare quello bellissimo, dimostrando che non esiste solo quello che appare e che le parole giuste avvicinate nel modo giusto possono aiutarci a illuminare il lato nascosto del mondo.

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Giusi Marchetta

vive a Torino, dove insegna. Ha pubblicato la raccolta di racconti Dai un bacio a chi vuoi tu (Terre di mezzo, 2008), vincitore del Premio Calvino, e i romanzi L’iguana non vuole (Rizzoli, 2011) e Dove sei stata (Rizzoli, 2018). Ha fondato e coordina il podcast del Tavolo delle ragazze (nato da Tutte le ragazze avanti!, Add editore). Per Einaudi ha pubblicato Lettori si cresce (2015) e ancora per Add il saggio Principesse, (eroine del passato, femministe di oggi) sugli stereotipi di genere nella cultura di massa

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