Figura sottorappresentata rispetto ad altre (il medico, l’avvocato, il poliziotto, l’insegnante ecc.), l’assistente sociale è raffigurato nel cinema – così come nelle fiction televisive – come “tendenzialmente donna, con un’età tra l’indefinibile e l’attempato, in bilico tra la frustrazione personale e l’insensibilità professionale, un po’ rubabambini un po’ burocrate distante dalla realtà, quando appare non è quasi mai protagonista, se non per vicende che afferiscono alla sua sfera privata, e molte volte non ha quasi un nome proprio ma solo una qualifica: l’assistente sociale” (da Presenze deboli saperi forti).
In particolare, nelle trasmissioni televisive è spesso rappresentato come uno dei responsabili di comportamenti e interventi inefficaci o addirittura dannosi. Si parla spesso dell’assistente sociale senza che esso sia presente in trasmissione, citato dagli ospiti o dai conduttori senza che egli abbia la possibilità di replicare o di fornire il proprio punto di vista. A volte è utilizzato come intermediario tra il giornalista e il mondo del degrado e della povertà, al quale viene quindi collegato in modo predominante.
Sulla stampa quotidiana l’immagine dell’assistente sociale oscilla tra la figura del “ladro di bambini” – metafora tra le più radicate e difficili da rimuovere – e quella dell’eroe intento a compiere la sua missione di salvezza. Anche qui, come in televisione, si parla spesso dell’assistente sociale in modo indiretto, all’interno di articoli di cronaca che privilegiano il punto di vista dell’utente (il bambino, il senza fissa dimora ecc.).
Anche nei romanzi l’assistente sociale, quasi mai protagonista, è rappresentato in modo stereotipato. Ancora su Presenze deboli saperi forti troviamo sintetizzate queste tipologie:
– la salvatrice del mondo, che sa sempre cosa è giusto;
– la madre, affettuosa e indulgente, sempre pronta a giustificare chi sbaglia;
– la burocrate, tutta regole e incartamenti;
– l’amica, disponibile e dall’approccio flessibile, capace di molta empatia con gli utenti;
– il funzionario in stile casual, con molto senso pratico e le maniere spicce.ù
In sintesi, emerge un quadro variegato e sfaccettato di raffigurazioni, tra cui dominano alcuni cliché (il “ladro di bambini”, il “missionario”, il “benefattore” ecc.) che non hanno comunque un grande successo mediatico, e rimangono quindi delle “presenze deboli”.
Va infine notato che si tratta di rappresentazioni che non rendono giustizia alla complessità e alla ricchezza del lavoro dell’assistente sociale, che rimane per lo più in ombra. I mass media d’altronde hanno bisogno di semplificare e di asciugare le storie per conservare i tratti essenziali dei personaggi, che devono essere riconducibili a poche metafore e schemi di storia. Inoltre, non è detto che chi scrive le sceneggiature o racconta i fatti di cronaca abbia una conoscenza approfondita del ruolo e delle competenze dei personaggi narrati. E questo vale per gli assistenti sociali come per i medici, i poliziotti, gli avvocati, gli insegnanti ecc. Tutti “vittime” delle rappresentazioni sociali del proprio ruolo che provengono dai mass media ma anche dal pettegolezzo e dalla conversazione quotidiana.
Ma perché, una volta constatata la presenza di stereotipi e di zone d’ombra, non abbandonare questo ruolo passivo di “personaggi narrati” per diventare autori e narratori delle proprie storie? Perché non scegliere di usare le storie esistenti per imparare a raccontare storie? E perché non cercare, nelle storie esistenti, i materiali più utili a costruire un’immagine veritiera e desiderabile del nostro ruolo? Potrebbe essere una strategia utile a contrastare i principali stereotipi e pregiudizi che gravano sul lavoro di molti e in particolare su quello dell’assistente sociale.
Buon lavoro sociale a tutti!