Nuove Indicazioni 2025 – Infanzia e Primo ciclo #5

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Quinto commento alla bozza delle Indicazioni nazionali 2025: l’umiliazione della didattica e della ricerca educativa.

Premetto, prima di rispondere puntualmente alle domande poste dalla redazione (Per quanto riguarda la parte generale di introduzione: quali sono le tue prime impressioni, le principali differenze rispetto alle precedenti ancora in vigore? Nella tua disciplina o nell’area di tuo interesse, cosa ti colpisce maggiormente? Visto che sono aperte le consultazioni, quali sarebbero i tuoi suggerimenti?), che ritengo queste Indicazioni irricevibili nel metodo e nel merito, per cui non potrò suggerire emendamenti o miglioramenti. Credo però che valga la pena discutere pubblicamente la rappresentazione della scuola e della società che emerge da questo documento. In qualche modo, proprio per la loro scarsa qualità professionale e scientifica e per il loro impianto sostanzialmente ideologico, queste Indicazioni nazionali 2025 possono aiutarci a ridare slancio al ruolo della ricerca educativa e delle didattiche disciplinari, le grandi avversarie di questa Commissione.

La parte generale

Fin dal primo sguardo colpisce l’inutile sovrabbondanza di parole, uno dei primi indicatori della scarsa qualità di un lavoro che dovrebbe servire da guida per scuole e insegnanti. Il documento potrebbe iniziare a pagina quindici, laddove si legge che «Con le Nuove Indicazioni nazionali si fissano gli obiettivi generali, gli obiettivi specifici di apprendimento e le relative competenze di uscita degli allievi per ciascun campo di esperienza e disciplina. In più si suggeriscono conoscenze, indicazioni metodologiche, moduli di apprendimento interdisciplinari e ipotesi di ibridazioni tecnologiche per agevolare il lavoro di progettazione del curricolo verticale di istituto»: da qui in avanti dovremmo trovare quel che effettivamente serve alle scuole per elaborare il loro curricolo verticale e, anche, l’occorrente per l’insegnante della disciplina, che deve domandarsi in che modo può contribuire a far sì che ogni studente si avvicini il più possibile alla finalità attesa (il profilo in uscita, che è aderente al quadro delle competenze-chiave per l’apprendimento permanente dell’Unione Europea).

Le prime pagine invece servono solo a enunciare minacciosi principi di filosofia dell’educazione circa il ruolo di sudditanza che l’apprendente (sic) dovrebbe sviluppare attraverso l’introiezione del «senso del limite» e di regole, in modo da evitare inutili fastidi al «Maestro» (sic). E anche nelle parti disciplinari si sarebbe potuto e dovuto dire di meno e meglio, evitando di elencare contenuti e sciorinare esempi, limitando il numero esorbitante di risultati e di obiettivi specifici di apprendimento (il modo migliore per boicottare dall’interno qualsiasi didattica orientata allo sviluppo di competenze e una valutazione formativa).

Non può inoltre passare inosservata la totale cancellazione di qualsiasi descrizione dello scenario in cui la scuola dovrebbe muoversi nel futuro prossimo. Il documento attualmente in vigore, che a sua volta deriva dalle Indicazioni nazionali del 2007, si apre con un paragrafo intitolato La scuola nel nuovo scenario. Non si tratta di una semplice formula retorica, ed è forse la parte del documento attuale che avrebbe avuto un maggiore bisogno di revisione, nonostante la stessa struttura istituzionale del sistema di istruzione e un quadro normativo europeo e italiano invariato. Semmai, anziché rivolgere lo sguardo a una filosofia dell’educazione della prima metà del Novecento – il personalismo comunitario di Mounier –, sarebbe stato utile studiare i risultati della ricerca educativa evidence based e guardare a quanto accade negli studi relativi alle didattiche disciplinari a livello internazionale. E avrebbe avuto senso, anziché prendere le mosse da uno dei più vieti stereotipi sul presunto declino della scuola dovuto ai processi di democratizzazione e da un pregiudizio sulla didattica e sulla ricerca scientifica, studiare qualche analisi sociologica ben articolata (non ne mancano, a partire da Nostra scuola quotidiana di Gianluca Argentin e La povertà educativa in Italia di Orazio Giancola e Luca Salmieri), o almeno i dati Istat sull’istruzione in Italia.

La disciplina Italiano (Lingua e Letteratura)

Non è facile parlare del modo in cui è trattato l’Italiano, disarticolato in due sottodiscipline, Lingua e Letteratura, senza accennare agli altri insegnamenti di quelle che vengono insistentemente chiamate «discipline umanistiche». Come anticipato a pagina 11, «La letteratura, la musica, le arti, la scrittura autobiografica, il cinema, il teatro sono i grandi ‘alleati’ degli insegnanti» per quella che viene definita «un’educazione del cuore che crei occasioni didattiche di esperienza di sentimenti basilari come la fiducia, l’empatia, la tenerezza, l’incanto, la gentilezza». Al di là della visione apparentemente ingenua, va sottolineato il ruolo implicitamente morale e moralistico attribuito alla lettura letteraria e all’arte in generale, se in un passo precedente si precisa che «Questo tipo di educazione è qualcosa di più dell’alfabetizzazione emozionale: allena bambine e bambini a ‘capirsi’ nella complementarità delle rispettive differenze e sviluppa sani anticorpi di contrasto di quella triste patologia che è la violenza di genere» (sic): una funzione educativa forte, che dovrebbe contribuire addirittura a contrastare la violenza di genere, derubricata a “malattia” che suscita la tristezza della Commissione e dei suoi membri.

Altrettanto evidente è la partecipazione dell’«insegnamento della letteratura nel primo ciclo scolastico» alla formazione dell’identità nazionale e occidentale, così ben descritta nella sezione dedicata alla Storia e su cui giustamente si sono già levate voci critiche autorevoli. La Commissione, infatti, fa discendere le finalità e i metodi dell’insegnamento della Storia da una visione etica ed etnocentrica del sapere storico, che non può non riverberarsi anche sull’insegnamento dell’Italiano, affidato nella gran parte dei casi alla stessa persona.

Leggiamo alcuni passi specifici, per avere un’idea più precisa. Nella scuola primaria, si legge a p. 70:

[…] sembra poi necessario che l’insegnamento abbia al centro la dimensione nazionale italiana, sia al fine di far maturare nell’alunno la consapevolezza della propria identità di persona e di cittadino, sia – vista la sempre maggiore presenza di giovani provenienti da altre culture – al fine di favorire l’integrazione di questi ultimi, integrazione che dipende anche, in modo determinante, dalla conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere.

Lo studio della storia, dunque, assume una decisa connotazione identitaria, strumentale allo sviluppo del senso di appartenenza alla nazione. Per questo le Indicazioni nazionali 2025 si premurano di valorizzare lo storytelling, ovvero la narrazione della storia in quanto fascinazione («La dimensione narrativa della storia è di per sé affascinante e tale deve restare nell’insegnamento»), rigettando decisamente i metodi attivi, lo studio delle fonti e persino l’idea che le persone possano sviluppare la capacità critica durante la scuola del primo ciclo.

Un analogo rigetto è presente decisamente sovrabbondanti indicazioni sull’Italiano, che mescolano esuberanti elenchi di letture formative – quasi fossero dei programmi, alternando forme ottative, indicative e più accondiscendenti condizionali – a lunghe enumerazioni di competenze attese e di obiettivi specifici di apprendimento.

La divisione della disciplina in due sottodiscipline, che rappresenta un’assoluta novità per la scuola italiana del primo ciclo, richiederebbe da parte della Commissione una qualche motivazione: si tratta di una scelta davvero bizzarra se indagata dal punto di vista teorico e storico, e che sicuramente ha un forte valore simbolico. Esaltando in questo modo il valore della parola scritta e della lingua come patrimonio di una determinata civiltà, la Commissione sembra voler confermare il disprezzo manifestato dagli ideologi della Commissione, Galli Della Loggia e Perla, per il lavoro scientifico di Tullio De Mauro e per le Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica del Giscel. Separare la Lingua dalla Letteratura, oltre a creare un’inutile confusione nella successiva articolazione del documento, ottiene intanto il risultato di esaltare la lingua scritta a discapito dell’oralità, della comunicazione interpersonale e, soprattutto, di tutto l’universo digitale, che ha un ruolo fondamentale nelle attuali Indicazioni e viene obliterato in questa bozza. Se dal 2007 in avanti si è cercato di dare all’insegnante di Italiano un ruolo decisivo nell’educazione all’uso consapevole dei media digitali, oggi – senza discuterne i motivi – si affida lo sviluppo delle competenze digitali esclusivamente all’area delle Stem. Le cosiddette discipline umanistiche, a esclusione della Geografia, si chiudono su loro stesse, assecondando gli umori più provinciali della società italiana.

Basti leggere l’inizio delle relative sezioni:

La lingua italiana costituisce il primo strumento di comunicazione e di accesso alla conoscenza. La lingua scritta, in particolare, rappresenta un mezzo decisivo per l’esplorazione del mondo, per l’organizzazione del pensiero e per la riflessione sull’esperienza e sul sapere tramandato di generazione in generazione.

E poi, poco più avanti:

Lo scopo dell’insegnamento della letteratura, nel primo ciclo scolastico, è fare in modo che gli studenti prendano gusto alla lettura, e che da ciò che leggono ricavino gli strumenti per capire meglio sé stessi e il mondo. Ciò significa, innanzitutto, che al centro dell’apprendimento devono stare i testi, e sui testi vanno saggiate e affinate le capacità di comprensione e di interpretazione degli studenti. Acquisire familiarità con la letteratura è un aspetto cruciale nella formazione di ogni individuo che voglia definirsi civile: leggere testi che contengono idee intelligenti aiuta chi li legge a diventare intelligente a sua volta […].

Sono frasi che possono apparire di buon senso, forse un po’ banali e per questo subdole, il cui significato va però letto prestando attenzione a ciò che viene escluso (tutta la lingua è ridotta alla sua dimensione testuale e alla scrittura), alle vaghe allusioni alla tradizione (c’è davvero bisogno di affermare che la lingua serve a riflettere sul “sapere tramandato di generazione in generazione”? Di quale sapere si parla? E di quale comunità?) e alla civiltà (è necessario stabilire un nesso tra letteratura e civilizzazione? A che serve? E quali sono gli effetti collaterali di questa come di tante altre frasi a effetto contenute nel documento?).

Inoltre, per capire l’impatto di questo incipit, forse è utile avere sott’occhio l’inizio della sezione Italiano delle Indicazioni nazionali del 2012. Ciascuno giudichi da sé:

Lo sviluppo di competenze linguistiche ampie e sicure è una condizione indispensabile per la crescita della persona e per l’esercizio pieno della cittadinanza, per l’accesso critico a tutti gli ambiti culturali e per il raggiungimento del successo scolastico in ogni settore di studio. Per realizzare queste finalità estese e trasversali, è necessario che l’apprendimento della lingua sia oggetto di specifiche attenzioni da parte di tutti i docenti, che in questa prospettiva coordineranno le loro attività.

Nel nostro paese l’apprendimento della lingua avviene oggi in uno spazio antropologico caratterizzato da una varietà di elementi: la persistenza, anche se quanto mai ineguale e diversificata, della dialettofonia; la ricchezza e la varietà delle lingue minoritarie; la compresenza di più lingue di tutto il mondo; la presenza infine dell’italiano parlato e scritto con livelli assai diversi di padronanza e con marcate varianti regionali. Tutto questo comporta che nell’esperienza di molti bambini e ragazzi l’italiano rappresenti una seconda lingua. La cura costante rivolta alla progressiva padronanza dell’italiano implica, dunque, che l’apprendimento della lingua italiana avvenga a partire dalle competenze linguistiche e comunicative che gli allievi hanno già maturato nel­l’idioma nativo e guardi al loro sviluppo in funzione non solo del miglior rendimento scolastico, ma come componente essenziale delle abilità per la vita.

Spirito di servizio

Le attuali Indicazioni nazionali, che in qualche punto peccano di eccessiva vaghezza, sono state scritte da una Commissione che sembra aver lavorato in modo unitario, con spirito di servizio, tentando davvero di creare un nesso tra il profilo in uscita – opportunamente modellato sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente che la Commissione e il Consiglio europei hanno definito nel 2006 e poi nel 2018 – e le singole discipline. D’altronde, questo è il ruolo del documento: guidare le scuole autonome e quindi ogni insegnante della scuola dell’infanzia, della primaria e della secondaria di primo grado nel percorso di insegnamento che dovrebbe portare ogni studente a sviluppare proprio quanto previsto dal profilo. Per farlo occorre dettagliare meglio il ruolo delle singole discipline, definendo dei traguardi di apprendimento che sono definiti in termini di competenza, e poi degli obiettivi specifici espressi in termini di conoscenze e abilità, che nelle attuali Indicazioni non sono prescrittivi – con ottime motivazioni pedagogiche – e nelle future invece lo diventeranno.

Per capire quanto le Indicazioni nazionali 2025 siano davvero inutili e scritte male sarebbe sufficiente provare a tracciare tante linee che provino a unire i singoli obiettivi e traguardi con il profilo in uscita. Ne risulterebbe un groviglio inestricabile, un guazzabuglio di idee e contenuti strampalati che non portano da nessuna parte, ma che servono a soddisfare l’ossessione identitaria e la vis polemica di una Commissione che ha deciso di mettersi al servizio del politico di turno, dimenticando completamente il proprio ruolo istituzionale.

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Simone Giusti

insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, ed è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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