La bozza delle “Nuove Indicazioni” 2025 si propone come un documento articolato, volto a ridefinire il ruolo della scuola pubblica italiana nella formazione della persona e nella costruzione della cittadinanza. Eppure, tra le pieghe del testo, affiora una tensione irrisolta: la scuola è chiamata a rispondere alla complessità del presente, ma il paradigma che sostiene la narrazione resta profondamente eurocentrico e occidentalocentrico.
Il primo indizio di questa visione ristretta sta proprio nella scelta del lessico. La persona — concetto cardine del documento — è definita fin da subito come «realtà che si costituisce attraverso la possibilità di dire ‘io’»[1] e che affonda le proprie radici nella tradizione latina e romana. «Il termine ‘persona’ ha radici storico-culturali occidentali. Esso si ritrova già nel lessico latino ed ha un particolare rilievo nel campo del diritto romano»[2]. È un passaggio chiave che sancisce l’orizzonte culturale di riferimento: la storia dell’uomo, e dunque dell’educazione, inizia e si legittima dentro la civiltà occidentale.
La pretesa universalità di una cultura eurocentrica e occidentalocentrica
In realtà, esistono tradizioni millenarie che hanno sviluppato riflessioni altrettanto profonde e articolate sulla persona e sulla relazione umana. Pensiamo alla filosofia confuciana, cuore della civiltà cinese da 2500 anni. Il concetto di Rén (仁), letteralmente “senso dell’umanità”, definisce la persona non come individuo isolato, ma come essere umano che si realizza nella relazione benevola (“portatrice di bene”) con gli altri. Il carattere stesso di Rén è formato da “uomo” (人) e “due” (二), a sottolineare che l’umanità si esprime nella relazione tra le persone, non nell’autonomia dell’io. Confucio mostra così una visione della persona fondata sulla reciprocità dei legami, dove l’essere umano si realizza non nella separazione dai vincoli sociali, ma nella loro piena interiorizzazione e adesione etica.
È evidente, allora, come la visione occidentale proposta dalle Nuove Indicazioni sia solo una delle possibili narrazioni della persona. Limitarsi a considerare la persona come prodotto della civiltà classica e giudaico-cristiana significa escludere visioni altrettanto dense e significative, capaci di offrire alla scuola una prospettiva radicalmente diversa sul rapporto tra individuo, comunità e bene comune. In questo senso, Confucio insegna che l’umano si costruisce nella relazione, e che la vera libertà non consiste nel liberarsi dai vincoli, ma nel viverli pienamente come espressione della propria umanità. Un pensiero che potrebbe fertilizzare profondamente la nostra idea di cittadinanza e di educazione alla convivenza civile.
Di tutto questo, nelle Nuove Indicazioni, non c’è traccia. Coerentemente, la libertà è presentata come «valore caratteristico più importante dell’Occidente e della sua civiltà sin dalla sua nascita, avvenuta fra Atene, Roma e Gerusalemme»[3]. È da qui, e solo da qui, che la scuola sembra dover trarre il proprio mandato educativo: educare alla democrazia, alla cittadinanza e ai diritti, eredità esclusiva di una storia europea.
Così facendo, la scuola rischia di trasformarsi — ancora una volta — in uno strumento di legittimazione di un modello culturale che pretende di essere universale, mentre continua a guardare il mondo (solo) con gli occhi dell’Occidente. Lo aveva già intuito Franco Frabboni quando, in un’analisi lucida e profetica, scriveva nel 2006: «La Pedagogia cresciuta nei paesi ricchi (occidentali) ha messo nel proprio mirino formativo l’umanità bianco-maschio-ricco-sazio. Mai ha posto attenzione all’umanità nera-femmina-povera-disperata che popola i Paesi della sopravvivenza quotidiana»[4].
L’idea di Altro: qualcuno da educare
Anche quando si parla di complessità, inclusione e cittadinanza globale, l’Altro lontano-da-noi resta sempre un destinatario di cura, un soggetto da educare, mai un interlocutore capace di portare un proprio sguardo sul mondo. «L’altro, infatti, non limita la persona ma è costitutivo del suo svilupparsi e completarsi»[5] — si legge — ma l’incontro è sempre asimmetrico, regolato dal nostro punto di vista.
Edgar Morin offre una lente preziosa per leggere questo impianto ideologico, affermando che «la conoscenza pertinente è quella capace di collocare ogni informazione nel proprio contesto e, se possibile, nell’insieme in cui si inscrive»[6]. Tuttavia, le Nuove Indicazioni non sembrano cogliere questa esigenza: la necessità di decentrare il nostro sguardo, di aprirci non solo alle altre culture, ma anche alle loro epistemologie.
La contraddizione (e separazione) tra le discipline
Sul rapporto con l’Alterità, intesa anche come un Altro-lontano-da-noi, emerge una contraddizione nelle discipline, ad esempio tra le funzioni affidate rispettivamente alla Storia e alla Geografia. La Storia è interamente piegata alla funzione identitaria. Ampio spazio viene dedicato al Risorgimento, evento considerato fondativo della coscienza nazionale. La narrazione diventa il paradigma metodologico dominante, con l’obiettivo dichiarato di «costruire il senso di appartenenza alla comunità nazionale» e «riconoscere l’unità e la continuità della storia d’Italia»[7].
Proprio il Risorgimento — più di ogni altro evento — dimostra quanto la Storia non possa essere semplicemente raccontata. Le molteplici interpretazioni storiografiche che nel tempo hanno decostruito il mito risorgimentale — tra élitismo, colonialismo interno e spinte democratiche soffocate — restano completamente eluse. La narrazione nazionale sembra imporsi come unica, tacitando il dissenso storiografico, l’analisi delle fonti, la riflessione critica. Aspetti, questi ultimi, che sono addirittura altamente sconsigliati, benché riconosciuti epistemologicamente fondativi da tutta la ricerca storica nazionale e internazionale. Si legge, infatti, come segue:
Anziché mirare all’obiettivo, del tutto irrealistico, di formare ragazzi (o perfino bambini!) capaci di leggere e interpretare le fonti, per poi valutarle criticamente magari alla luce delle diverse interpretazioni storiografiche, è consigliabile percorrere una via diversa. E cioè un insegnamento/apprendimento della storia che metta al centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende umane nel tempo. La dimensione narrativa della storia è di per sé affascinante e tale deve restare nell’insegnamento, svincolato da qualsiasi nozionismo così come da un inutile ricorso a “grandi temi”, disancorati dall’effettiva conoscenza degli eventi. Non è pertanto necessario che i discenti imparino tutto ciò che di più o meno notevole è avvenuto in ciascuna epoca, bensì che apprendano quanto è stato davvero determinante, in primo luogo nella vicenda storica italiana.[8]
Diventa dunque, la storia, una conoscenza mutilata, prodotta da un sapere che, parafrasando Morin, isola gli oggetti (dal loro ambiente), separa le discipline (piuttosto che riconoscere le loro solidarietà), disgiunge i problemi piuttosto che collegare e integrare. La storia, così ridotta a narrazione identitaria, perde la sua funzione emancipativa di strumento critico capace di allenare al dubbio, di smascherare le retoriche del potere e di restituire voce alle molteplici memorie sommerse. Si trasforma, invece, in un’educazione al consenso, finalizzata più a rinsaldare l’appartenenza che a formare cittadini consapevoli della complessità dei processi storici e delle contraddizioni che li attraversano. Questa visione diventa ancor più problematica se la si mette a confronto con la parte dedicata alla Geografia.
Quale Geografia con quella Storia?
In modo quasi antitetico rispetto alla Storia, l’approccio cambia radicalmente quando si passa alla Geografia. Qui, la disciplina viene finalmente riconosciuta come leva potente per superare il recinto dell’identità nazionale e proiettare lo sguardo oltre i confini. Si legge che «la geografia ha oggi il compito di allargare lo sguardo sul mondo, per abbracciare l’idea di essere parte di relazioni e legami a più scale, da quella locale a quella planetaria»[9]. È un passaggio significativo che restituisce alla Geografia la sua funzione originaria di sapere critico sulle interconnessioni globali e sulle diseguaglianze territoriali.
La Geografia, in questa visione, non è solo studio di luoghi, ma educazione alla complessità delle relazioni umane e ambientali, capacità di leggere le dinamiche dei fenomeni globali — dai flussi migratori ai cambiamenti climatici, dalla geopolitica alle crisi ambientali — e di collocarsi consapevolmente all’interno di un mondo interdipendente. Si tratta di una prospettiva che, se presa sul serio, potrebbe davvero aiutare la scuola a scardinare l’idea di cittadinanza chiusa nella nazione e a costruire un’educazione capace di formare abitanti della Terra, come suggerirebbe Morin.
Tuttavia, questa apertura rischia di restare isolata se la Storia continua a essere trattata come la narrazione di un’appartenenza univoca e indiscussa. La Geografia, per quanto più avanzata nelle intenzioni, non può da sola reggere la sfida della cittadinanza planetaria se non viene sostenuta da una revisione profonda dell’impianto storico e identitario, che percorre l’intero documento.
Come può la Geografia proporre una lettura problematica delle interconnessioni globali se la Storia resta perlopiù vincolata alla funzione di custode della memoria nazionale? Come possono convivere, nello stesso impianto curricolare, una Geografia proiettata sulla complessità e una Storia ancora legata al mito delle “radici”? Su questa contraddizione, Frabboni ricorda che «se proseguisse per questo suo angusto viottolo, la Pedagogia/bianca si trasformerebbe a breve in un soprammobile, in un pezzo di antiquariato. Da cestinare»[10]. Il rischio è evidente: una storia musealizzata e una geografia incapace, da sola, di reggere il peso della complessità.
L’incapacità di superare una visione addestrativa della scuola
È forse questo il nodo più profondo delle Nuove Indicazioni: l’incapacità di superare una visione addestrativa della scuola. Ancora una volta la scuola è chiamata non a costruire cittadinanza, ma a trasmetterla, a spiegare, insieme alle famiglie, «ai bambini e preadolescenti […] che la nostra Repubblica ha posto la scuola al centro del suo progetto di Paese»[11]. La “nostra” scuola, la “nostra” storia, la “nostra” civiltà.
Frabboni, in merito, offre invece uno scenario alternativo, che resta purtroppo lontano dall’orizzonte delle Indicazioni: «La pedagogia dovrà necessariamente godere di uno sguardo interculturale: cioè a dire, dovrà disporre di più calamite epistemiche. Aprendosi senza paura alle ibridazioni teoretiche, alle contaminazioni culturali, ai rispecchiamenti in altre pelli ‘antropologiche’. A meticciarsi»[12].
E Morin, con altrettanta chiarezza, indica la posta in gioco, esplicitando chiaramente l’obiettivo della scuola nell’età contemporanea: diventare cittadini del mondo. «Si è veramente cittadini […] quando ci si sente solidali e responsabili. Solidarietà e responsabilità non possono arrivare né da pie esortazioni né da discorsi civici, ma da un sentimento profondo di affiliazione (affiliare, da filius, figlio), sentimento matri-patriottico che dovrebbe essere coltivato in modo concentrico in ogni singolo Stato, in Europa, sulla Terra»[13].
Se davvero vogliamo che la scuola formi cittadine e cittadini del mondo e non suddite/i di una narrazione nazionale, occorre ripensare profondamente questo impianto. Occorre restituire alla Storia il suo statuto critico, alla Geografia la sua funzione problematizzante, per limitarsi alle riflessioni disciplinari qui condotte. Solo così la scuola potrà smettere di addestrare alla nostra visione del mondo e iniziare a preparare a viverne tante. Diversamente, rischiamo di costruire un’educazione che parla di complessità, ma resta prigioniera di un pensiero semplice, rassicurante, monocorde.
Salire sulla mongolfiera
Frabboni, con la sua consueta visionarietà, invita a salire su una mongolfiera per spingerci oltre i confini consueti della pedagogia europea, per — scrive — «raggiungere il sud dell’Equatore»[14]. Fare ciò significa abbandonare la sicurezza delle rotte tracciate e aprirsi a nuove geografie del sapere e dell’educazione. In questo modo,
La Pedagogia boreale potrà pervenire a questa invocata mutazione genetica (cambiando l’antica sua pelle “bianca”) soltanto se porrà nelle stive della Mongolfiera queste calamite ermeneutiche: le ibridazioni epistemiche (se saprà amare i tramonti dei dogmatismi, dei fondamentalismi e delle metafisiche), le contaminazioni culturali (se saprà amare l’andare oltre i confini etnici), il rispecchiamento dei meticciati (se saprà amare gli incanti delle pelli colorate). Per questo ha bisogno di “ali”. Per volare, incessantemente. Indossando l’abito regale di un’educazione aperta all’altrove.[15]
Solo così la Pedagogia occidentale potrà davvero prendere quota e superare i confini della nostra tradizione educativa, non per dimenticarla ma per lasciarsi trasformare dall’incontro. Le Nuove Indicazioni 2025, pur evocando scenari di dialogo e complessità, sembrano al momento limitarsi a scrutare l’orizzonte da terra. La Mongolfiera è lì, pronta, ma non si stacca mai dal suolo.
Una revisione sostanziale e formale
Le Indicazioni nascono come materiali per il dibattito pubblico. Proprio da questo spiraglio può ancora passare il vento di una revisione. Una revisione che deve essere sostanziale e formale, capace di accettare la sfida di trasformare la scuola italiana in una palestra autentica della «convivenza delle differenze», per usare le parole di Fabrizio Acanfora. Non l’inclusione paternalistica di chi accoglie l’Altro dentro il proprio spazio, ma il riconoscimento pieno dell’Altro come soggetto di parola e di mondo. Se davvero vogliamo che la scuola diventi il luogo dove si apprende non solo la cittadinanza, ma la convivenza autentica, occorre ripensare non solo i contenuti, ma la struttura stessa del discorso educativo. La sfida è alta e urgente: fare della scuola un laboratorio di società, dove si impari a stare insieme non solo perché uguali, ma anche e soprattutto perché diversi. Una scuola che sappia finalmente lasciare terra e alzarsi in volo, come una Mongolfiera.
Note
[1] MIM, Nuove Indicazioni 2025. Scuola dell’infanzia e Primo ciclo di istruzione Materiali per il dibattito pubblico, 2025, p. 8.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 10.
[4] F. Frabboni, Diamo cielo alla Pedagogia in «Ricerche di Pedagogia e Didattica», 1 (1), CLUEB, Bologna, 2006, p. 18.
[5] MIM, Nuove Indicazioni 2025, cit., p. 8.
[6] E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, tr. it. a cura di S. Lazzari, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000, p. 8.
[7] MIM, Nuove Indicazioni 2025, cit., p. 68.
[8] Ivi, p. 70.
[9] Ivi, p. 79.
[10] F. Frabboni, Diamo cielo alla Pedagogia, op. cit., p. 18.
[11] MIM, Nuove Indicazioni 2025, cit., p. 9.
[12] F. Frabboni, Diamo cielo alla Pedagogia, op. cit., p. 16.
[13] E. Morin, La testa ben fatta. op. cit., p. 75
[14] F. Frabboni, Diamo cielo alla Pedagogia, op. cit., p. 19.
[15] Ibidem.