Dentro uno scenario
Se volessimo far riferimento ai paradigmi utilizzati per descrivere il mondo oggi, potremmo isolarne sei capaci di dipingere, seppur in modo parziale, la contemporaneità: il paradigma della complessità di Edgar Morin[2], il neotribalismo suggerito da Michel Maffesoli[3], la società liquida (o, come dicono oggi alcuni, gassosa) di Zygmunt Bauman[4], il paradigma della velocità di Paul Virilio[5] e, infine, l’idea di un’antropologia macchinica elaborata da Deleuze e Guattari.[6] Avere coscienza del paradigma contemporaneo significa capire quali forme sta assumendo l’umano e quali dinamiche vive in continua interazione con l’ambiente circostante (naturale, sociale, culturale, economico, digitale).
La consapevolezza di questi paradigmi è essenziale, soprattutto per chi lavora nell’ambito educativo e scolastico, poiché si trova in continua interazione (o, si spera, relazione) con future donne e uomini, immersi pienamente in un mondo complesso, neotribale, veloce, macchinico, dallo stato liquido-gassoso. Questi macro-scenari prendono poi forme dettagliate e, tra loro, molto diverse nei singoli contesti educativi: le differenze si possono leggere tra una regione d’Italia e l’altra, tra uno stato e l’altro, tra periferia e centro, tra scuole paritarie e scuole statali. Tanti gli aspetti di diversità quante le sfide educative che si aprono davanti. La complessità passa dal contesto alla persona. Di fronte a ciascun insegnante c’è un soggetto in crescita, alla scoperta di sé, dell’Altro, del mondo. Una storia che si sta narrando. Di fronte alla soggettività e all’Altro, la dimensione relazionale diventa aspetto centrale: l’accesso all’Altro, il rapporto osmotico che si crea quando due o più identità entrano in connessione, è dato primariamente dalla relazione, che si fa relazione educativa in determinati contesti.
Definire la relazione educativa
L’etimologia di “relazione” può offrire spunti utili per una sua definizione. La parola deriva, con i dovuti passaggi, dal latino re-latus, il participio passato del verbo re-fero, che significa “portare (fero) di nuovo (re-)”. Questo “di nuovo” sottolinea il carattere iterativo e reciproco della relazione, un’esperienza che non si dà unicamente e unidirezionalmente. La relazione si fonda sempre su un io e un tu che entrano in dialogo, che si scambiano messaggi, che negoziano significati, che misurano le giuste distanze. La prima parola dell’espressione rimanda alla dimensione duale e di scambio tra un io e un tu (o un loro, volendo). La seconda, invece, apre a questioni etimologiche interessanti, su cui non c’è un reale accordo.
Tuttavia, la doppia etimologia possibile descrive pienamente i due movimenti principali dell’educare. La prima strada etimologica fa derivare “educazione” dal latino educare, verbo della prima coniugazione, che significa “allevare”, “nutrire”. La seconda da educĕre, della terza coniugazione: “tirar fuori”, “portar fuori”. L’educazione ha un dinamismo duplice: offre, dà, nutre dall’esterno all’interno e attiva, potenzia, promuove dall’interno all’esterno. È proposta e promozione[7]. Sara Nosari, nel suo lessico pedagogico, mette in luce gli aspetti essenziali della relazione educativa, che è definita come «la condizione di possibilità di un cambiamento con portata e valore trasformativi»[8]. Per fare ciò, chi educa è chiamato a indicare un orientamento, rendere noto che, in fondo, si cammina sempre verso qualcosa e per qualcosa. È chiamato a porre domande che richiamino alle domande-toste dell’umano: «chi sono?», «chi ero?», «chi sarò?», «che cos’è giusto fare», «quale direzione prendere?», «quali conseguenze?». È chiamato a richiamare una risposta, che non deve sapere di prescrittivismo ma di autenticità. È chiamato, infine, a trasformare in opportunità di crescita comune e formazione i conflitti che, naturalmente, scaturiscono nelle relazioni umane, ancor di più quando si vive una condizione di asimmetria, in cui l’equilibrio tra autorità e libertà può essere fragile. Insomma: dietro al semplice entrare in classe di ogni giorno, per un insegnante, si manifesta un compito arduo, complesso, sfidante.
«Il corpo è docente»
La sfida della relazione educativa è tanto grande perché chiede a chi insegna di compromettersi, cioè di farsi autentico, di sporcarsi le mani se serve, di immergersi nella vita. Chi accetta di vivere la relazione educativa scopre sempre più la necessità di avere un corpo-persona che comunica, che sa stare nella relazione, che sa usare lo strumento musicale della voce, che sa muoversi tra altri corpi-persona. Ma sa anche accettare l’imperfezione connaturata al lavoro educativo[9], sa che commetterà errori, sa essere riflessivo e condividere, quando lo ritiene importante, le ragioni delle sue scelte, sa riconoscere e verbalizzare, se serve, le sue e le altrui emozioni. Di fronte a una classe o nella relazione uno a uno, oltre alle parole, come ricordano Daniela Lucangeli e Luca Vullo, il corpo è docente[10]. Il corpo nella sua concezione fisica e olistica è capace di dire, di comunicare, di aprire alla relazione. Ne deriva la necessità, oltre all’approfondimento disciplinare e didattico, di riservarsi del tempo, come insegnanti, per prendere consapevolezza del proprio Sé, del proprio Sé corporeo e del proprio Sé professionale.
Una relazione educativa «topica»
Se il corpo è docente, le sue posture e i suoi movimenti assumono un ruolo fondamentale e simbolico. Nel saggio citato in apertura, i pedagogisti francesi mettono a punto l’idea di una relazione educativa «topica»: chi educa, chi insegna sa assumere la postura e la posizione più adatta a chi è con lui. A volte sarà necessario porsi davanti, come guide. A volte di fianco. A volte bisognerà abbassarsi per guardare con i suoi occhi. A volte starà dietro per lasciarlo sperimentare. A volte si nasconderà, invisibile, dietro la porta. A volte fermerà il suo cammino per far notare alcuni paletti orientativi. In modo più analitico, gli autori di Postures éducatives affermo l’esistenza di posture fondanti (postura d’autorevolezza, di accompagnamento, di animazione), posture di rilassamento (postura di negoziazione, postura di dialogo educativo), postura d’orchestrazione[11]. L’auspicio è quello di un insegnante riflessivo, consapevole delle posture che assume, e capace, metaforicamente, di cambiare postura; l’innovazione pedagogica, in classe, è «il risultato di un approccio creativo» e la sua «riuscita dipenderà dal clima e dal piacere di «suonare insieme» e di «fare con» per sostenersi reciprocamente nei periodi di lancio come nei momenti in cui la motivazione viene meno»[12]. La relazione educativa non è, dunque, un atto neutrale, ma è sempre – come ogni azione educativa – un atto testamentario, un modo di relazionarsi che ha valenza significativa nella costruzione dell’identità personale e collettiva.
Edda Ducci, Alberto Manzi e Danilo Dolci, maestri e maestre della relazione educativa
Il Novecento italiano è stato un secolo ricco dal punto di vista pedagogico e educativo, in particolare quel secondo Novecento che ha chiesto all’Italia di ri-fondarsi dopo il Fascismo e la Seconda guerra mondiale. Tra le diverse esperienze possibili, ne ho scelte tre che possano illuminare questa riflessione sulla relazione educativa: il contributo filosofico e pedagogico di Edda Ducci, l’esperienza scolastica di Alberto Manzi e quella educativa di Danilo Dolci.
Edda Ducci, filosofa e pedagogista (1929-2007), ha concentrato molti studi sul ruolo del dialogo in educazione, influenzata soprattutto dalla filosofia classica, da Fedinand Ebner, da Martin Buber ed Emmanuel Lévinas[13]. Come per quest’ultimo, la relazione con l’Altro – anche quindi quella con gli e le studenti – si fa ricerca e scoperta di sé stessi: in qualche modo, il volto dell’Altro è il mio volto. Ma chi è l’Altro? La domanda è centrale nel pensare la relazione educativa:
l’interlocutore [l’Altro], nel dialogo, non è un nemico da vincere. Non è neanche un ingenuo da persuadere, né un ignorante da istruire, e nemmeno un adulatore di cui si sia andati alla ricerca. È il compagno di strada con cui si impara a sincronizzare il passo, giorno dopo giorno, verso la meta che l’uno fa intravedere all’altro. Con cui si cerca pazientemente un punto in comune, solido, che tenga, che consenta l’abbandono del solipsismo e la mutua comprensione. Che è un cercante, una personal reale, colta e avvicinata nella sua realtà.[14]
La relazione educativa è un cammino in due (o, più, se si tratta di una classe), un cammino dialogico e maieutico. Una pratica – quella del dialogo e della ricerca – che ben collocherebbe il pensiero di Edda Ducci nella riflessione in merito all’orientamento formativo, il cui intento – è risaputo – non è quello di orientare a una meta precisa, bensì quello di dare strumenti per orientarsi e far vivere esperienze per orientarsi. Il dialogo, potenzialmente, può essere esperienza orientativa e riflessiva.
Il contributo di Alberto Manzi e di Danilo Dolci si inserisce e accoglie, nella concretezza delle azioni, gli orientamenti della filosofia dell’educazione di Edda Ducci, soprattutto in relazione alle categorie di “umano”, “dialogo” e “cammino”.
L’esperienza di Alberto Manzi (1924-1997) è sempre più studiata e approfondita allo scopo di mettere in luce le ragioni pedagogiche delle sue scelte educative, didattiche, politiche. Testimonianza concreta di cosa significasse per lui dialogo e relazione educativa emerge dalla celebre lettera che il maestro scrisse ai suoi allievi di quinta, nel 1976. La lettera si apre con l’elenco dei destinatari, riportando i nomi dei suoi studenti, uno a uno: i nomi, non i cognomi. Il primo verbo che incontriamo è di ducciana memoria: «Abbiamo camminato insieme per cinque anni»[15]. Passato prossimo indicativo, prima persona plurale: il cammino che abbiamo fatto insieme ha un valore ancora oggi, in cui ci riconosciamo compagni di strada. Una strada che, come afferma lo stesso Manzi, si divide: per il maestro l’inizio di un nuovo viaggio con altri studenti (apparentemente identico, ma sempre diverso) e per i ragazzi e le ragazze altre esperienze. Tuttavia, Manzi, in chiusura di lettera, ricorda loro che la sua presenza – il suo corpo, che è docente – rimarrà con loro, perché questi sanno dove trovarlo e sanno che, se servisse, hanno un alleato, un compagno di strada per tutta la vita:
E ricordatevi: io rimango qui, al solito posto. Ma se qualcuno, qualcosa, vorrà distruggere la vostra libertà, la vostra generosità, la vostra intelligenza, io sono qui, pronto a lottare con voi, pronto a riprendere il cammino insieme, perché voi siete parte di me, e io di voi.[16]
L’autenticità della relazione educativa può generare un’osmosi tra identità, che si sono riconosciute e accresciute vicendevolmente.
Danilo Dolci (1924-1997) si mosse su un campo attiguo a quello di Manzi, sebbene in contesti lavorativi differenti, a Partinico, nella Valle del Belice, a Trappeto.
Il suo progetto educativo è quello della maieutica reciproca: l’espressione richiama l’idea che la scoperta, la conoscenza, la crescita possano essere esperienze che nascono e si potenziano nella relazione e nella comunità. La maieutica vede un ruolo centrale dell’Altro, dell’educatore, dell’insegnante. Essa è possibile grazie alle domande, soprattutto quelle generative.
Siete mai andati a vedere la diga? L’avete vista la diga? (Tutti: sì, sì). Prima non c’era, poi la si è voluta, ci si è messi a lavorare e la diga adesso c’è. Oggi dovremmo pensare a qualcosa che ancora non c’è ma che, se pensiamo e lavoriamo bene, un giorno può esserci. Vi dirò prima tutte le domande che vorrei farvi, poi possiamo riprendere una alla volta.
Se voi poteste fare quello che pensate sia meglio, cosa fareste?
Se dovessimo costruire una casa per voi ragazzi, come la vorreste?
Cosa vorreste fare in questa casa?
Ci deve essere in questa casa qualche adulto, qualche grande, o no?
Queste domande se siete d’accordo incominciamo prima farle uno, poi ad un altro, uno alla volta. Siete d’accordo?[17]
Così, Danilo Dolci si rivolge ad alcuni bambini e bambine di Partinico. Sta iniziando a progettare, con la comunità tutta, il Centro Educativo, nella campagna limitrofa. Domande che rendono protagonisti attivi del cammino anche i bambini, visti come soggetti portatori di idee e diritti.
In conclusione, la metafora del cammino, e quindi anche quella dell’orientamento, riflette i molteplici significati racchiusi nella relazione educativa. Una sorta di peregrinatio – avrebbero detto gli uomini e le donne del Medioevo – che si compie, almeno in parte, insieme. La relazione educativa è un cammin in cui l’educatore, con la sua autenticità e consapevolezza, accompagna, guida, si fa distanza, si abbassa e si lascia trasformare dal rapporto con l’Altro. Le esperienze e le ricerche di Ducci, Manzi e Dolci ribadiscono che l’educazione non è mai un atto neutrale, ma un gesto intriso di significati e di responsabilità, personali, sociali e politiche.
Una delle domande-toste più generative nel mio percorso di vita, suggerita da Danilo Dolci, per intermediazione di don Teresio Scuccimarra, ai tempi in cui facevo l’educatore in parrocchia, è: «Sognate i vostri ragazzi? Come sognate ciascuno di loro?». Una domanda che può dare sostanza e linfa nuova quando si rileggono le relazioni educative vissute quotidianamente da chi insegna ed educa.
Note
[1] G. Le Bouédec, T. Lavenier, L. Pasquier, Les postures éducatives. De la relation interpersonnelle à la communauté apprenante, L’Harmattan, Paris 2016.
[2] E. Morin, Introduzione al pensiero complesso, tr. it. di M. Corbani, Sperling & Kupfer, Milano 1993.
[3] M. Maffesoli, Il tempo delle tribù. Il declino dell’individualismo nelle società postmoderne, Guerini e Associati, Milano 2004.
[4] Z. Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopia del mondo liquido, tr. it. di S. D’Amico, Editrice Laterza, Roma-Bari 2008.
[5] P. Virilio, Velocità e politica. Saggio di dromologia, Multhipla, Milano 1981 e U. Fadini, Velocità e attesa. Tecnica, tempo e controllo in Paul Virilio, ombrecorte, Verona 2020.
[6] G. Deleuze, F. Guattari, Macchine desideranti. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di vari, introduzione e cura di U. Fadini, ombrecorte, Verona 2012.
[7] S. Nosari, Capire l’educazione. Lessico, contesti, significati, Mondadori Università, Milano 2013.
[8] Ivi, p. 45.
[9] Si veda a proposito S. Tramma, L’educatore imperfetto. Senso e complessità del lavoro educativo, Carocci, Roma 2003.
[10] D. Lucangeli, L. Vullo, Il corpo è docente. Sguardo, ascolto, gesti contatto. La comunicazione non verbale a scuola, Erickson, Trento 2021.
[11] Le traduzioni sono mie: in francese si leggerebbe postures fondatrices (posture d’autorité, posture d’accompagnement, posture d’animation), postures de relais (posture de négociation, posture de “tenir conseil” – counseling), posture d’orchestration.
[12] Le Bouédec, Lavenier, Pasquier, Les postures éducatives, cit, p. 186.
[13] Mette bene a fuoco la connessione Franco Cambi in L’Essere: una categoria-chiave nella ricerca pedagogica di Edda Ducci, in «EDUCAZIONE. Giornale di pedagogia critica», VII, 1, 2018, pp. 117-126.
[14] E. Ducci, Approdi dell’umano. Il dialogare minore, Anicia, Roma 1992.
[15] A. Manzi, Lettera ai bimbi di quinta, 1976, reperita nell’archivo digitale del Centro Manzi (https://www.centroalbertomanzi.it/wp-content/uploads/2019/01/Alberto-Manzi-letterabimbiquinta-1976.pdf, ultima consultazione il 31 dicembre alle 12:00).
[16] Ibidem. La lettera ha un certo afflato evangelico, i richiami stilistici e contenutistici sono molti. Lo lascio come nota, per chi vorrà magari approfondire.
[17] D. Dolci, Chissà sei i pesci piangono. Documentazione di un’esperienza educativa, Mesogea, Messina 1973, p. 43.