Il vento di Canne

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John Trumboll, La morte di Lucio Emilio Paolo a Canne, (Yale University Art Gallery), da Wikipedia

Tranquillizzo subito i lettori: questo articolo non è un commento – e neppure una parodia, ovviamente – del celebre romanzo Canne al vento di Grazia Deledda. «Canne» è proprio «Canne della battaglia», frazione del comune di Barletta, cioè la località dove il 2 agosto del 216 a.C. si tenne una delle più celebri battaglie dell’antichità, che vide – nel corso della Seconda guerra punica – il cartaginese Annibale trionfare sull’esercito romano guidato dai consoli Gaio Emilio Paolo e Lucio Terenzio Varrone.

E il «vento» non è una metafora, ma un elemento che ha condizionato non poco quell’evento bellico – secondo il racconto dello storico Tito Livio – e che si è ripresentato anche nella splendida giornata di gennaio nella quale chi scrive ha visitato questo importante sito archeologico. Ma facciamo un po’ di chiarezza…

Le vittorie di Annibale in Italia

Annibale, dopo il grande viaggio dall’Africa all’Italia, l’attraversamento avventuroso delle Alpi, le prestigiose vittorie presso Ticino, Trebbia (218 a.C.) e Trasimeno (217 a.C.) era – per così dire – stato tenuto a bada dalla tattica attendista del dittatore romano Quinto Fabio Massimo; non mancava però nella pubblica opinione la volontà di affrontare di nuovo il generale punico in un campo aperto, e ciò avvenne appunto in Apulia, laddove i Cartaginesi si erano accampati, nella piana solcata dal fiume Ofanto.
Su quello che accadde in quel 2 agosto di molti secoli fa hanno scritto in tanti, a cominciare dagli storici antichi Polibio, Livio e Appiano, per giungere agli storici moderni, e in primis a quel Giovanni Brizzi che è per consenso generale il più grande conoscitore contemporaneo delle Guerre puniche. Dunque, nessuna cosa nuova potrei dire io su questioni – a me peraltro indigeste – di tattica o strategia militare.

Vento di ieri, vento di oggi

La rocca di Canne, vista dall’alto.

Visitando Canne, però, guardando la piana dell’Ofanto dalla rocca e cercando di evitare che volassero via sciarpa e cappello, non potevano non tornarmi alla mente i passi di Livio che proprio del vento locale parlano apertamente, e che qui riporto nella traduzione che per l’editore UTET è stata curata da Paola Remondetti e Lanfranco Fiore:

Ab Urbe condita, 22, 43 Presso quel villaggio [Canne] Annibale aveva posto l’accampamento in modo da volgere le spalle al vento Volturno, che, essendo i campi arsi dalla siccità, porta con sé nubi di polvere. Tale posizione non solo fu molto vantaggiosa per lo stesso accampamento, ma sarebbe poi stata specialmente favorevole (ai Cartaginesi) al momento di schierarsi a battaglia, poiché essi, per parte loro con le spalle volte al vento che avrebbe soffiato solo contro le loro schiene, avrebbero combattuto contro il nemico accecato dalla polvere sollevatagli davanti.

Ab Urbe condita 22, 46 Aveva il comando dell’ala sinistra Asdrubale, dell’ala destra Maarbale; Annibale stesso con il fratello Magone presidiò il centro dello schieramento.  Il sole, o perché appositamente si erano collocati così o perché per caso si trovarono schierati in questo modo, molto opportunamente cadeva di striscio su entrambe le parti, poiché i Romani eran volti a mezzogiorno, i Cartaginesi a settentrione; il vento — gli abitanti della regione lo chiamano Volturno — levatosi improvvisamente in direzione contraria ai Romani, sollevando grandi vortici di polvere proprio in faccia ad essi, impedì loro la visuale.

Dunque l’abilità e il “fiuto” di Annibale si erano palesati già prima dello scontro, con il posizionamento dell’esercito in favore di vento, e si manifestarono con ancora maggiore evidenza con la mossa a tenaglia con la quale stritolò le truppe di Roma e – soprattutto – le massacrò provocando un numero di morti impressionante.

Il massacro di una classe dirigente (e non solo)

La colonna commemorativa della battaglia di Canne.

Così, osservando l’orizzonte dalla colonna commemorativa della battaglia, cercavo di ricordare i fiumi di inchiostro letti a partire dagli anni – ormai lontanissimi – del Liceo e dell’Università, in relazione alla mattanza nella quale si trasformò quel memorabile scontro.  Nessuna descrizione, però, supera per efficacia e precisione quella che Giovanni Brizzi ha proposto in un suo recente libro, nel quale – comunque – sostiene che l’onta della sconfitta di Canne sia stata tale da suscitare nei Romani la reazione morale che ha consentito loro la vittoria finale nella guerra (202 a.C., battaglia di Zama).
Ecco cosa scrive Brizzi:

Nella più spaventosa disfatta della storia di Roma cadde il console Emilio Paolo, cadde il console dell’anno precedente Servilio Gemino, cadde il maestro dei cavalieri Minucio Rufo; con essi, tra la folla dei morti anonimi, perirono entrambi i questori, ventinove tribuni militari, vale a dire gran parte dell’ufficialità legionaria, ottanta senatori e un numero immenso di cavalieri. Qualunque sia la cifra da accogliere, uno o tre cioè siano stati i moggi di anelli che Magone, rientrato in patria, rovesciò poi davanti allo sbigottito gerontion di Cartagine, il ceto abbiente della res publica era stato falcidiato. E non solo. La grande armata romana inviata per distruggere l’esercito di Annibale aveva cessato di esistere. Afferma Polibio che 70 mila fanti caddero sul campo e che solo 370 dei cavalieri   riuscirono a scampare. Più credibili, le cifre di Livio sono ugualmente spaventose: 45 mila 500 fanti e 2.700 cavalieri rimasero uccisi, oltre 19 mila furono i prigionieri, mentre solo 15 mila uomini riuscirono per diverse vie a sfuggire al nemico. A ben guardare, anzi, concordano sostanzialmente con Polibio; il quale, come altre volte, somma al numero delle perdite quello dei prigionieri. Per questa splendida vittoria il Cartaginese pagò un prezzo tutto sommato irrisorio: poco meno – pare – di 6 mila uomini, ancora una volta in maggioranza Celti, che egli sacrificò come sempre senza scrupolo alcuno (G. Brizzi, Canne. La sconfitta che fece vincere Roma, il Mulino, Bologna 2016).

E nessuna riflessione, poi, supera per efficacia emotiva quella che lo scrittore Paolo Rumiz ha inserito in un suo reportage sui luoghi annibalici, suggestionato anch’egli dalla vista dei luoghi della battaglia e dai confronti con la storia più recente:

Sessantamila morti fanno seicento cataste di cento corpi ciascuna. Il doppio di Austerlitz. Più dei caduti americani in anni di guerra in Vietnam. Canne è la più orrenda strage del mondo antico, l’epifania di una morte sconcia, deturpante. Una morte “moderna”; la stessa che racconta Remarque a proposito della Grande guerra. A Canne si celebra l’epitaffio del duello omerico, quello che finisce con i corpi lavati e profumati da consegnare all’eternità (P. Rumiz, Annibale. Un viaggio, Feltrinelli, Milano 2008).

Il sito archeologico

Mi rendo conto che finora ho fatto quello che mi ero ripromesso di non fare, poiché ho parlato molto (anzi ho fatto parlare le fonti) della battaglia e poco del sito archeologico, aperto nel 1958 (per volere di Aldo Moro, che molto ha fatto per la sua Puglia) e il cui Antiquarium è stato rimodernato e riaperto nel 2019: accanto ad alcuni reperti, vi è infatti una sala con una bellissima animazione ricostruttiva della battaglia. Pur non amando troppo questo tipo di cose, devo ammettere che ho davvero gustato questo filmato!

L’Autore, mentre sullo sfondo vi è la piana di Canne.

Cercherò ora, comunque, di rimediare, anche se devo dire che dell’antico abitato prima peucezio e dauno e poi romano non resta pressoché nulla e i resti oggi visibili sull’arx sono relativi alla cittadella medievale bizantina e normanna – con tanto di castello e basilica – abbandonata poi in epoca angioina.

Canne. cripta della basilica paelocristiana

Certamente qualche modesto segno del passato romano non manca, sia per la presenza di una struttura urbanistica condizionata dall’incrocio di cardo e decumano, sia perché nell’area sono disseminate alcune “antiche pietre”, soprattutto are, cippi e colonne miliarie, monumenti un tempo iscritti e oggi non troppo leggibili.

Costuzioni medievali e miliario romano, lungo il decumano di Canne

Insomma, per un cultore della romanità c’è indubbiamente pochino; eppure non si è avverato quello che qualche amico mi aveva predetto («sarai deluso…»), perché la suggestione del luogo è comunque enorme.
Un luogo che si raggiunge con una stretta strada affiancata da ulivi, che sembra volerti portare indietro, molto indietro, nel tempo e trasformarti da turista curioso nello spettatore di uno di quegli eventi che hanno fatto la storia.
Un luogo dove non è impossibile intravvedere all’orizzonte l’immagine eroica del console ferito Emilio Paolo che rifiuta l’aiuto del tribuno militare poiché – dice Livio – «ha preferito morire bene piuttosto che vivere vergognosamente» (22,50); ma anche quella pulp di «un Numida tratto ancor vivo con il naso e gli orecchi mozzati di sotto ad un Romano che gli era steso sopra morto, poiché questo, non servendogli più le mani ad afferrare un’arma, diventata rabbia la sua ira, era spirato straziando con i denti il nemico» (22, 52).
E poi, il vento… sì, lo stesso vento che riempì di polvere gli occhi dei soldati romani sibila ancora tra quei ruderi, e sembra oggi volere purificare quella piana dalla sconcia carneficina di vite umane della quale già si è detto.

Verso Canosa, con la mente a Zama

Canosa, capitello romano nell’area di San Leucio

Il vento mi ha poi accompagnato nel breve viaggio in auto verso Canosa; e con lui il solito interrogativo: «Perché il plurivincitore Annibale non ha sferrato l’attacco finale a Roma? Perché sì è fermato oltre un decennio in Italia meridionale, tra ozi veri e presunti, scorrerie, razzie, azioni di brigantaggio, consentendo ai Romani di riorganizzarsi e addirittura di attaccare la sua Africa?». Ovviamente le risposte possibili sono tante, e tutte parzialmente vere: l’esercito stremato, la mancanza di forze fresche, l’illusoria attesa di una rivolta antiromana dei popoli italici ecc. Anche qui, nessuno storico antico o moderno ha risparmiato le proprie opinioni.

Personalmente credo che l’errore maggiore del Barcide sia stato proprio l’auspicio di diventare leader di una coalizione di alleati “forzati” di Roma che volentieri si sarebbero da essa emancipati, ma che invece – conoscendo la tradizionale (e chissà se davvero reale?) perfidia dei Cartaginesi – non avevano troppa intenzione di affidarsi un nuovo e forse peggiore dominatore.

 

Canosa, fonte del battistero di San Giovanni.

Giunto a Canosa, però, dopo avere visitato il bellissimo sito archeologico di San Leucio (basilica paleocristiana su antico tempio di Minerva), alcuni ipogei dauno-ellenistici e i resti della Via Traiana, sono stato condotto da un intraprendente volontario locale a vedere i resti dell’imponente (e oggi malconcio) battistero di San Giovanni, voluto dal vescovo Sabino tra il V e il VI sec. d.C.

L’area non è – come le altre canusine – né del tutto chiusa né del tutto aperta alle visite, consentite soltanto previ accordi telefonici con i membri della benemerita «Fondazione Archeologica Canosina»: è di tutta evidenza, però, che questi siti meriterebbero ben altra visibilità e maggiore fruibilità. Ma il lettore si starà ora chiedendo cosa c’entri un battistero paleocristiano con la battaglia di Canne. Forse nulla, eppure mi è stato fatto notare che proprio al di sotto di quel monumento sono stati trovati scheletri di uomini di corporatura alta e robusta, compatibile – secondo alcuni – con la stazza dei soldati cartaginesi o dei loro alleati. Ovviamente la vulgata li vuole fatti prigionieri dei Romani o dai loro alleati e, magari, morti in prigionia…

Canosa, scheletri di presunti Cartaginesi.

Sono sincero: non ho avuto tempo, neppure tornato a casa, di fare una vera, seria, ricerca bibliografica per capire quanto ci sia di vero (nel senso di validato scientificamente) in queste affermazioni. Eppure nel vedere quegli scheletri e nell’ascoltare quelle storie ho colto plasticamente, visivamente, le difficoltà di Annibale e dei suoi: plurivincitori, fortissimi, determinati, privi di scrupoli etc., eppure oppressi dalla difficoltà dei combattenti d’ogni epoca in terra straniera, e per di più giunti in una sorta di pur ampio cul de sac “chiuso” da genti (in parte) alleate di Roma. Perché talora non basta essere armati fino ai denti e massacrare migliaia di nemici per vincere una guerra “lontana”, come ben sanno gli Americani (e i loro alleati) ritiratisi senza troppa gloria dal Vietnam ma anche – in tempi più recenti – da Iraq e Afganistan.

Busto del cosiddetto Annibale, marmo bianco, seconda met… del XVI sec, Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica.

Tutto questo quel geniaccio di Publio Cornelio Scipione l’aveva capito, e vedendo Annibale nuotare ormai con poco ossigeno nella tonnara italica osò l’inosabile: portare lui la guerra in Africa. Così l’esercito annibalico tornò in patria in fretta e furia, logorato da troppi anni in terra straniera e fu sconfitto dall’Africano a Zama nel 202 a.C. I fasti di Canne erano ormai lontani, e un’altra piana si colorì di sangue, se è vero che – tra Romani e punici – in questo nuovo, definitivo, scontro morirono circa trentamila soldati.

Morti antiche e moderne

Numeri che non sono solo tali, ma che si riferiscono a vite umane in carne ed ossa: e così la mente non può non andare, stavolta, a ciò che di orrendo sta succedendo nel mondo. Perché in Ucraina – ad oggi (febbraio 2024) – sono già oltre duecentomila i morti tra Ucraini e Russi, e più del doppio i feriti; mentre dopo quattro mesi di guerra tra Israele e Hamas si contano quasi trentamila morti (1400 sono israeliani, i restanti palestinesi, e tra loro – in entrambi i casi – moltissimi civili). Così, nell’attesa di quella utopica «abolizione della guerra» che il compianto Gino Strada considerava «una necessità urgente e un obiettivo realizzabile», qualche confronto numerico tra passato e presente è possibile. Se si pensa infatti alla quantità di popolazione di allora (molto inferiore) i cinquantamila morti in un giorno a Canne e i trentamila a Zama sono numeri che hanno dell’incredibile. Davvero dell’incredibile, tanto da farci ribaltare la prospettiva suggerita da Paolo Rumiz: non è forse quella dei caduti a Canne una morte «moderna», ma quella delle vittime di oggi una morte «antica», troppo antica, e per questo inaccettabile per tempi che si vorrebbero moderni, evoluti e civili.

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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