Dieci libri italiani di didattica #8

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L’ottavo libro della rassegna è “La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto”, di Cristiano Corsini, Franco Angeli, Milano 2023.

 

Una delle principali novità del pensiero di John Dewey, notava Aldo Visalberghi in un suo libro del 1951, può essere ravvisata nella possibilità che dà a chi lo legge e ne approfondisce il pensiero di superare alcuni sterili dualismi che ancora appesantiscono e informano di sé la mentalità comune, e che, supportati e accompagnati da una pletora di stereotipi, di generalizzazioni e semplificazioni, contribuiscono all’inquinamento del discorso pubblico sulla scuola e sull’educazione.

Si legga quanto scrive Visalberghi alle pagine 121 e 122 del suo John Dewey (La Nuova Italia, Firenze 1961, II ed.):

Esaminiamo qualche espressione fra le più usate nel comune discorrere intorno ai problemi educativi. Quante volte ci sentiamo ripetere che occorre «estirpare a tempo gli istinti cattivi» o che bisogna «educare la volontà a dominare gli impulsi naturali», a prescindere dai casi patologici, non esistono «istinti cattivi» come non esistono «istinti buoni», che i fattori primari di un’individualità non si controllano davvero che promuovendone lo sviluppo attivo più libero e più armonico possibile, dove nulla venga sacrificato, ma ogni elemento vada integrandosi progressivamente con ogni altri, arricchendosi di «significati» dell’esperienza, fondendosi in quel tutto qualitativa che si dice una «personalità». Persino parlare di «tendenze» buone e cattive può essere pericoloso: se qui la qualificazione è legittima, illegittima è l’illazione che se ne trae, circa un nostro diritto a «reprimere» le seconde. In ogni tendenza, in ogni abito di comportamento c’è qualcosa che è possibile eliminare e altro che non è possibile né eliminare né coartare senza danno. Trasformeremo ogni educatore in uno psicologo o addirittura in uno psicoanalista? Non si pretende tanto. Forse è sufficiente che ogni educatore impari a riflettere sulla sua esperienza senza i paraocchi di falsi luoghi comuni.

Questo libro di Cristiano Corsini, La valutazione che educa. Liberare insegnamento e apprendimento dalla tirannia del voto, appena uscito per le edizioni Franco Angeli di Milano, può essere considerato parte integrante di quello sforzo collettivo che, dal dopoguerra in avanti, ha spinto tante e tanti docenti e intellettuali a mettere costantemente in discussione i modi dell’insegnare e dell’apprendere, ricorrendo all’argomentazione puntuale e ai risultati e ai metodi della ricerca educativa per contrastare la forza reazionaria di quel particolare fenomeno che lo stesso autore ha definito vanverismo pedagogico, un’espressione che così viene spiegata a pagina 79 del libro:

[…] uso, in ambito educativo, di stereotipi e di luoghi comuni a sostegno di generalizzazioni indebite e di opinioni paternalistiche e retrive, spesso accondiscendenti verso un passato idealizzato («ai miei tempi avevamo insegnanti e studenti migliori!») e quasi sempre sospettose nei confronti delle giovani generazioni (definite, alla bisogna, alienate, apatiche, fragili, incompetenti, ignoranti, viziate).

Rifacendosi a sua volta al magistero di John Dewey, – e ponendosi sulla scia del lavoro di Pietro Lucisano, traduttore dell’articolo intitolato L’unità della scienza come problema sociale (1938) – Corsini richiama più volte l’attenzione sulla necessità di assumere un atteggiamento scientifico come unico rimedio all’induttivismo grezzo di chi continua a ragionare per rozze generalizzazioni, dicotomie oppositive e formule banalizzanti. Con “atteggiamento scientifico”, si legge in Dewey (citato a pagina 74), si intende

[…] l’intenzione di acquisire conoscenze, e di verificare quelle che si hanno, sulla base dei fatti osservati, riconoscendo anche che i fatti sono privi di significato a meno che non indichino anche che i fatti sono privi di significato a meno che non indichino delle idee. È, a sua volta, l’atteggiamento che riconosce che le idee, pur essendo necessarie per organizzare i fatti, sono ipotesi di lavoro da verificare in base alle conseguenze che producono.

Tutto il libro – nel cui sottotitolo figura l’espressione «liberare dalla tirannia» – può essere letto tenendo presente questo movimento dialettico tra politica e scienza, tra discorso pubblico sull’educazione e ricerca educativa, tra errori e bias cognitivi e paziente argomentazione, con una costante attenzione alla dimensione sociale della didattica e della valutazione come strategia didattica tra le più incisive e determinanti per promuovere il cambiamento – o, anche, per selezionare e segregare la popolazione studentesca. Se è vero che «valutiamo per riprodurre o per trasformare perché insegniamo per asservire o per liberare» (p. 33), dobbiamo leggere le indicazioni operative che pur sono presenti nel volume alla luce dei valori e delle finalità che vogliamo attribuire alla scuola e ai suoi strumenti, che possono essere usati per andare nell’una o nell’altra direzione, verso l’asservimento o la liberazione, secondo una visione autoritaria, selettiva e competitiva dell’istruzione oppure in una prospettiva democratica e progressista, saldamente fondata sulla fiducia nella scuola e nell’insegnante e sulla convinzione che sia possibile, con la didattica e quindi con la valutazione, favorire lo sviluppo umano.

La prima parte del libro – dotato di un impianto argomentativo solido, a cui corrisponde una prosa limpida e fluente – si intitola «Perché valutare: dalla valutazione come fine alla valutazione come mezzo» e affronta fin dalle battute iniziali la dimensione politica dell’atto valutativo, opportunamente presentato come una forma di gestione del potere (p. 14):

Il potere gestito nei processi valutativi può essere amministrato autocraticamente o democraticamente, più o meno condiviso, finalizzato al controllo o allo sviluppo di altri esseri umani. Con il beneficio d’inventario, considerando che ogni schematizzazione sacrifica sfumature intermedie e provando a non cullare speranze nell’esistenza di un potere buono in sé, è possibile proporre quattro livelli nella condivisione del potere da parte dell’insegnante che valuta: la monarchia assoluta, la monarchia costituzionale, la democrazia rappresentativa, la democrazia diretta.

Si trascorre, in estrema sintesi, da uno scenario in cui chi studia rimane escluso dal processo valutativo, al punto da non avere accesso al perché, al cosa e al come della valutazione, a una situazione in cui dominano l’autovalutazione e la valutazione tra pari, e i soggetti valutati assumono il controllo sul perché, sul cosa e sul come della valutazione. Ed è proprio questa partecipazione attiva – auspicata e sollecitata nel corso di tutto il volume – a dare l’occasione di integrare la dimensione politica con la scientifica, poiché è proprio rendendo attivi studenti e studentesse che è possibile, secondo le evidenze empiriche raccolte dalle indagini sull’efficacia scolastica, migliorare l’insegnamento e l’apprendimento. La valutazione, quindi, va intesa come una strategia didattica, mezzo e non fine dell’insegnamento: un’azione complessa, che non si risolve nel voto e non coincide con esso, ma che consiste in una continua osservazione, descrizione e misurazione della distanza tra il risultato desiderato e quello ottenuto, in modo da ottenere informazioni utili a dare forma alle attività future.

Una volta chiarito che «se insegniamo per asservire valutiamo per riprodurre», e allora «i voti fanno al caso nostro e la valutazione coincide con essi», mentre «se insegniamo per liberare, valutiamo per trasformare, e allora abbiamo bisogno dei riscontri descrittivi propri della valutazione educativa» (p. 28), Corsini cerca di dare una risposta alla domanda «A quali condizioni la valutazione educa?», come recita il titolo della seconda parte del libro, che si apre con un’analisi del discorso pubblico sulla scuola ai tempi del lockdown. In questo periodo, infatti, gli «elementi di irragionevolezza e le assurdità che erano quietamente sommersi dalle consuetudini della quotidiana presenza» sono emersi in tutta la loro evidenza, gettando luce «sull’assurdità che caratterizza la nostra quotidiana routine» (p. 30). Superando l’impulso a “dare la colpa” alla DaD – interpretazione conservatrice e conservativa – sarebbe opportuno, suggerisce Corsini, ricorrere a una chiave interpretativa più radicale e potenzialmente trasformatrice, che rivela un problema di fondo nella relazione educativa, evidentemente fondata sulla mancanza di fiducia, quindi sul controllo poliziesco e una concezione premiale o punitiva della valutazione. La valutazione, si legge nel prosieguo, per essere educativa deve avere almeno tre caratteristiche fondamentali, descritte e analizzate nei minimi dettagli:

  • esprimere un giudizio;
  • misurare la distanza tra obiettivi e realtà;
  • fornire indicazioni per ridurre la distanza.

Per ciascuna di esse Corsini, in quelle che sono le pagine più tecniche del libro, fornisce a chi legge gli elementi indispensabili per orientarsi autonomamente tra le acquisizioni più aggiornate della docimologia, proseguendo senza sosta il suo percorso di svelamento e rovesciamento di quelle credenze e di quei comportamenti automatici che sono alla base degli effetti distorsivi della valutazione (definiti «inciampi valutativi»), andando ad aggredire alle fondamenta il più pernicioso dei luoghi comuni, secondo cui il voto numerico sarebbe universale, oggettivo e comprensibile da chiunque. Confondendo la valutazione con la misurazione e riducendo la prima alla seconda, chi sostiene questo primato schiacciante dei numeri sui giudizi descrittivi sottovaluta innanzitutto il carattere performativo delle misure, che ottengono sempre un effetto su chi viene misurato e su chi assiste alla misurazione. Il voto, se non accompagnato da giudizi descrittivi che mettono chi apprende e chi insegna in condizione di prendere decisioni utili al miglioramento del processo e del risultato, rischia di divenire il fine stesso dell’istruzione e di contribuire – attraverso il sistema dei premi e delle punizione – all’assurdità e all’insensatezza del percorso scolastico. Per questo è fondamentale esplicitare gli obiettivi – i risultati di apprendimento attesi – e ricorrere a misure valide dal punto di vista del contenuto, del costrutto di riferimento (esplicitandone le dimensioni essenziali) e delle conseguenze della misurazione. Un tipico caso di scarsa validità dal punto di vista delle conseguenze è quello delle prove INVALSI, che potrebbero e dovrebbero fornire informazioni utili alla valutazione dell’efficacia e dell’equità del sistema educativo nel suo complesso, ma dal momento che vengono impiegate per valutare l’efficacia delle singole istituzioni scolastiche o addirittura degli apprendimenti degli studenti ottengono effetti deleteri sulla didattica (per esempio con il teaching for test) e sull’equità del sistema scolastico (il fenomeno dello skimming, la tendenza a selezionare in ingresso i soggetti più adatti ad affrontare i test).

Premesso che l’autore non fornisce ricette e preferisce invitare ad acquisire un senso della misura che può essere dato solo da un atteggiamento scientifico di stampo deweyano, la seconda parte si chiude con tre suggerimenti pratici per rendere più valida e affidabile la valutazione:

  • concepire la valutazione come un mezzo;
  • costruire valutazioni partecipate;
  • rendere la valutazione rigorosa.

La terza parte – «Cosa e come valutare?» – presenta in apertura un ampio excursus analitico sulle prove OCSE, IEA e INVALSI, le quali forniscono in modo diverso delle informazioni preziose che tuttavia, si legge a pagina 82, «non sono relative alle competenze», che non possono essere misurate con strumenti di questo tipo. Si tratta di un problema di grande rilievo, a cui Corsini dedica alcune tra le pagine più dense e politicamente e pedagogicamente rilevanti del libro, poiché

l’assunzione dei risultati delle ricerche internazionali come benchmark di politica educativa, conferendo rilevanza a una versione immiserita delle competenze, rischia di comportare un impoverimento delle prassi didattiche volte allo sviluppo delle competenze.

Ancora più problematico è il caso dell’INVALSI, che fornisce certo informazioni utili a evidenziare la maggiore iniquità e la maggiore capacità di segregazione della scuola secondaria rispetto alla primaria, ma allo stesso tempo contribuisce, come abbiamo visto, a orientare la didattica in senso opposto a quello auspicato dalla norma e a stimolare la competizione fuori e dentro gli istituti, senza fornire indicazioni per migliorare le scelte future di scuole e docenti, né tantomeno degli e delle studenti.

Come valutare, dunque, le scuole e, soprattutto, gli apprendimenti di ogni studente? Anche in questo caso Corsini ricorre alla letteratura scientifica per inquadrare il problema e offrire un ampio ventaglio di strumenti di rilevazione (prove oggettive, tradizionali e autentiche), individuandone le caratteristiche, fornendo esempi concreti e analizzandone punti di forza e di debolezza.

Tra le tante riflessioni sulla valutazione autentica – senza la quale non si può parlare di valutazione educativa – colpisce il seguente passo, in cui viene esplicitato il valore imprescindibile delle discipline, che secondo Corsini sarebbe immiserito dalla valutazione inautentica, mentre verrebbe esaltato dall’approntamento di «prodotti che conservano significato al di là della situazione didattica» (p. 108):

Nell’accertamento autentico alle discipline viene restituito il ruolo che hanno avuto nello sviluppo dell’umanità: lenti che ci hanno consentito di vivere esperienze più ricche e più significative, formalizzando patrimoni di soluzioni che hanno permesso di affrontare la realtà in maniera efficace ed esteticamente appagante. 

Infine, dopo aver fornito alcuni esempi di rubriche e griglie – «dispositivi assimilabili a strumenti di ricerca» (p. 111) – Corsini tira le fila dell’intero volume in tre auree paginette conclusive, in cui ribadisce come il maggior ostacolo all’introduzione della valutazione educativa a scuola e all’università sia «la ritrosia a considerare la valutazione una strategia didattica» (p. 120). E tuttavia, senza accompagnare al voto dei riscontri descrittivi utili a colmare il divario rispetto ai risultati attesi, senza dare spazio alla voce degli e delle studenti, senza fornire loro l’occasione di riflettere su esperienze significative, tutto verrà divorato dal voto.

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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