Questione comune, dolore privato

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Gli effetti della pandemia in un contesto già da tempo segnato da un malessere in crescita e da una rete di servizi carente hanno lasciato segni evidenti, specie fra le categorie più fragili. Per arginare gli effetti di questa crisi servono scelte politiche coraggiose, capaci di fornire l’adeguato supporto senza cadere nella trappola della medicalizzazione.
La vista da una finestra del Liceo cantonale di Locarno

Non tutte le perdite di una crisi sono quantificabili. Il sogno positivista di una realtà sempre inscritta nei confini della ragione è caduto nelle trincee del primo conflitto mondiale, insieme ai corpi dei soldati falcidiati dall’avanzare dell’industria bellica. Mandante di quella moderna carneficina si rivelò essere la stessa scienza che, tradita la promessa di richiudere il Vaso di Pandora della Belle Époque, squarciava a colpi di mitra la superficie di una ragione fatta di calcoli monchi e ingenuità plateali. Così quella ratio, lievitata a dismisura, decadeva di fronte all’incapacità estrema di contare i propri morti. Ma questi sono fatti noti. All’errore dei calcoli fatti, spesso imprecisi nonostante quella scienza strabiliante, si aggiungeva l’onta di quelli nemmeno tentati, per un fenomeno che non conveniva indagare.
Lo shellshock – termine con cui veniva indicato quel particolare tipo di PTSD sorto nelle trincee in migliaia di soldati – era un disturbo di cui non si teneva traccia, anche perché la sua esistenza difficilmente veniva riconosciuta dagli ufficiali e dagli psichiatri incaricati delle cure. Si trattava semmai di vigliaccheria, debolezza di spirito e costituzione, finzione necessaria al ritiro. In questo modo i soldati venivano rispediti al fronte a combattere e tornavano, al termine del conflitto, nelle loro abitazioni, emarginati dalla comunità e incapaci di assolvere alla loro funzione sociale. Lo shellshock era così una morte, ma psichica e invisibile, e in quanto tale non chiedeva di essere quantificata.

È difficile definire oggi quale sia stato l’impatto della pandemia sulla salute psicologica di quanti l’hanno vissuta, specie se tentiamo di prendere in considerazione le specificità dei diversi gruppi sociali. Nonostante l’aumento dei ricoveri per disturbi psichiatrici in età via via più precoce parrebbe richiedere un’attenzione speciale, dal 2017 in Italia mancano rapporti ISTAT sull’incidenza di disturbi mentali e suicidi. La maggior parte delle informazioni attualmente disponibili sono relative a dati diagnostici incompleti perché manchevoli di tutti quei casi che non trovano riconoscimento da parte dell’ambiente medico. Una disattenzione, questa, che è sintomatica di un clima più generale, inquinato dallo stigma e dalla trascuratezza con le quali storicamente si è guardato alla salute mentale. Comunque, le segnalazioni dei ricoveri parlano chiaro: i reparti di neuropsichiatria di tutta Italia arrancano, dovendo gestire richieste quasi raddoppiate con mezzi carenti già in partenza – si parla di 9 posti letto ogni 100mila abitanti a fronte di una media europea di 73. Eppure l’emergenza psicologica non è certo iniziata con quella virologica: le previsioni dell’OMS, che da anni definisce la depressione “la malattia del secolo”, stimavano già prima della pandemia un aumento prolungato della sua incidenza, che avrebbe contribuito a renderla la patologia più diffusa dopo quelle cardiovascolari già nel decennio in corso. Malgrado ciò, e malgrado anche l’interferenza della pandemia, tanto l’attenzione mediatica quanto quella politica sono rimaste sottodimensionate all’entità del problema.

Non ha mancato di sottolinearlo, chiedendo tempestività e efficienza nell’azione, un Policy Brief rilasciato dalle Nazioni Unite nel maggio 2020, dal titolo COVID-19 e il Bisogno di Agire sulla Salute Mentale. Il documento, contenente una serie di linee guida per la strutturazione di una risposta efficace alla pandemia nelle sue ricadute psichiche oltre che respiratorie, sottolineava come le azioni volte a contrastare il malessere psicologico dovessero essere considerate componenti essenziali della risposta nazionale a COVID-19. Eppure le misure prese finora dai tre esecutivi susseguitesi fanno pensare più che altro a dei cerotti posti frettolosamente su un’emorragia: così il bonus per i colloqui psicologici su modello francese è stato attivato da appena qualche mese, e oltre 2000 scuole in Italia non dispongono ancora di uno sportello di ascolto. Se si considera come il primo basterà a coprire le richieste di appena 16mila persone – un numero nettamente inferiore all’effettiva domanda – e come pure le scuole dotate di sportello non siano in grado di soddisfare una richiesta che necessiterebbe di tempi e fondi nettamente superiori, si capisce facilmente l’arretratezza italiana in materia.
Le assunzioni straordinarie di psicologi all’interno del sistema sanitario nazionale seguite all’emergenza pandemica, poi, al di là della carenza numerica, si configurano appunto come una misura emergenziale, inadatta a porre rimedio a una crisi che con la pandemia non è né iniziata né finita. Manca ancora la messa a sistema di figure intermediarie, come gli psicologi delle cure primarie, – in sostanza, specialisti che attraverso la collaborazione con il medico di base garantiscano già nella medicina di prossimità il sostegno psicologico del disagio e la diagnosi precoce – capaci di rendere tempestiva e capillare la risposta a un malessere che, ci dicono i dati, otto volte su dieci non trova supporto in un percorso di cura. E manca allo stesso modo una ristrutturazione del ruolo della malattia mentale e delle figure che se ne prendono cura nell’immaginario collettivo. Il risultato è che proprio quanti sono più esposti al rischio di disordini psichici perché in condizione di svantaggio, sia esso economico o culturale, non sono in grado di permetterselo.

La gravità di questa situazione, stretta tra l’incudine del COVID-19 e il martello della guerra, ha faticato molto a ricevere la giusta attenzione, così che le categorie più fragili si sono trovate ad affrontare l’emergenza senza una rete di servizi adeguata. Lo si è visto nella sanità, dove il personale costretto a un rischio e a un carico di lavoro sfiancante ha sofferto più di ogni altra categoria di lavoratori. E lo si è visto anche nelle scuole, dove gli studenti si sono dovuti confrontare con le pretese di quanti, attorno a loro, avrebbero voluto che il rientro costituisse a tutti gli effetti un ritorno alla normalità. Le ferite inflitte dall’esperienza di un trauma collettivo su una psiche che, oltre ad essere naturalmente più fragile, ha anche patito i danni maggiori dell’isolamento, solo occasionalmente sono rientrate nelle valutazioni del corpo docente, col risultato di nuove vette nel tasso di abbandono scolastico.

Malgrado la straordinarietà della situazione, comunque, quanto è avvenuto non ha niente di imprevedibile: tanto il definanziamento della sanità, che nella pandemia ha avuto le conseguenze disastrose che conosciamo, quanto la difficoltà degli studenti di trovare una risposta alla loro domanda formativa in un sistema scolastico incapace di mostrare attenzione alle loro esigenze particolari, hanno conosciuto nella crisi un approfondimento e non un innesco.
Riconoscere le radici politiche di un simile scenario allora è quanto mai importante. Non attardare, ma invertire radicalmente il diffondersi di questo malessere deve essere l’obbiettivo. E per raggiungerlo, anziché tappare le falle con bonus e aiuti straordinari bisognerebbe innanzitutto mettere a sistema una nuova rete di sostegno psicologico capace di attuare un approccio preventivo – come del resto puntava a fare il DDL della senatrice Boldrini relativo all’istituzione dello psicologo delle cure primarie, fermo in Senato da oltre due anni.
Soprattutto però, è importante ricordarsi come un’azione efficace non possa prescindere da uno sguardo al contesto entro il quale la sofferenza mentale è andata dilagando: accertata la maggiore incidenza dei disturbi psicologici in contesti di precarietà economica e sociale, sarebbe quantomeno irrealistico pensare di ridurla senza ripensare il terreno su cui cresce. Farlo significa comprendere la necessità della depatologizzazione di una serie di condizioni che di privato hanno ben poco, contrastando l’idea ancora altamente virale che la malattia mentale sia più una responsabilità personale da superare con una buona dose di forza di volontà che una patologia a tutti gli effetti di cui è vitale prendersi cura.
Abbattere, insomma, quella logica del merito alla quale siamo educati già fra i banchi scolastici e che troppo finisce per addossare ogni responsabilità, sia essa del successo o del disagio, sull’individuo, dimenticandosi o volutamente omettendo il ruolo di un contesto esterno, politicamente determinato, nell’aprire o chiudere le porte che ci permetterebbero un’esistenza piena. Necessità, queste, che gli studenti di tutta Italia hanno capito bene, traducendole in rivendicazioni che solo a uno sguardo superficiale possono apparire slegate.
Tenere conto del nesso strettissimo tra il disagio psicologico – fatto spesso di una preoccupazione per il futuro che tra conflitti, pandemia e crisi climatica pare quanto mai incerto – e le scelte politiche che anziché arginarlo lo sostanziano significa realizzare come una risposta di tipo assistenzialistico, se collocata all’interno dell’ordine socioeconomico esistente, non possa bastare a emancipare da una condizione di malessere che è frutto di un’oggettiva instabilità esistenziale.
Le proteste contro il sistema dell’alternanza, che molti hanno cercato di ricondurre a una ormai proverbiale idiosincrasia dei giovani d’oggi all’occupazione, hanno visto in questo modo la presa di coscienza di una generazione che nel proprio futuro ha come unica promessa un mondo del lavoro fatto di precarietà e assenza di tutele, e che nel proprio presente trova uno Stato che, non considerandoli una fetta di elettorato interessante, non è in grado di dare una risposta alle loro esigenze. Del resto viene difficile contraddirli quando le riforme più importanti in materia scolastica degli ultimi anni hanno puntato a esternalizzarne la formazione affidandola a enti e aziende che, come si è visto, alla messa in sicurezza delle vite di chi lavora al loro interno prestano ben poca attenzione.

Ciò che anche le proteste studentesche ci dicono è che intervenire sul disagio con una rete capillare, che punti a intercettare e dare una risposta adeguata al dilagare della malattia mentale prima che si cronicizzi, è quanto mai necessario. E questo significa assicurare la presenza di psicologi specie laddove è più probabile vi sia una condizione di fragilità, scuole per prime, come anche lavorare sullo stigma che continua ad accompagnare questa condizione, per promuovere un nuovo approccio educativo, più attento alle esigenze individuali e ai successi collettivi. Ma per arginare davvero il dilagare di un malessere che ha ben poco di soggettivo non si può pensare di prescindere dall’ambiente che lo concima. Servono allora scelte politiche coraggiose, capaci di porre un freno a una situazione di crisi ambientale e sociale che ci impedisce di vivere serenamente il nostro futuro. Si può decidere di riconoscere questo disagio e agire per arginarlo. Oppure si può sempre continuare ad addossare agli individui e alla comunità immediatamente circostante il peso di una guerra totale in cui sono stati gettati a capofitto. Eppure anche la ragione di stato dovrebbe sconsigliarlo: costa molto meno un adulto sano.

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Giada Letonja

Nata a Torino, è iscritta al primo anno di università. Cura il podcast di “Tutte le ragazze avanti”. Scrive occasionalmente per il mensile Zainet.

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