Suicidio: libertà, scelta, paradosso linguistico

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Nelle sue “Note sul suicidio” (trad. A. Cristofori, Carbonio, Milano 2022) Simon Critchley cerca di riflettere su questo delicato tema, lasciando da parte ogni pregiudizio morale, sociale, religioso, e tentando invece una possibile lettura letteraria del gesto di levar la mano su di sé
GustaveDoré, illustrazione per il canto XIII dell’Inferno di Dante Alighieri.

0. Quest’articolo parla del suicidio, o meglio ragiona apertamente su come riflettere e raccontare il suicidio, partendo da una esperienza in ambito scolastico. L’articolo, però, non ha un fine didattico, ma è – se proprio si deve fornire una descrizione di ciò che si scrive – una riflessione esistenziale. Rispetto alla buona regola dell’impersonalità, almeno in ambito saggistico, questo testo contiene un uso piuttosto frequente del pronome “io”: ciò è dovuto al fatto che il suicidio pone come problema centrale la singolarità di ognuno, la sua irriducibile unicità.
Non è possibile, quindi, parlare di suicidio e non usare il pronome “io”.

1. Il presupposto di tale riflessione nasce da alcuni fatti accaduti negli anni a scuola, momenti in cui il tema del suicidio è apparso improvviso: ad esempio durante una sonnolenta lezione su Dante o Boccaccio, o una riflessione sulla letteratura resistenziale, o nel bel mezzo della produzione di un tema, e suscitando di solito imbarazzi, parole non dette, un vergognoso pudore oltre che il timore di non aver dato il giusto spazio alle fragilità, che i ragazzi con pervicacia nascondono e non fanno trapelare. Ho condensato tutto questo in tre episodi che mi sono occorsi nell’ultimo anno;

  1. In una solita mattina a scuola – metti via il cellulare, ascolta me non fare i compiti per l’ora successiva, hai una domanda? Ok vai in bagno, No non puoi andare al bar ecc. – stiamo commentando il sonetto CCLXXII del Petrarca La vita fugge e non si arresta una hora. Per motivi didattici ho scelto di far leggere loro alcuni sonetti del Canzoniere, usando le note appuntate di Leopardi. Così, mentre ragioniamo di terzine e quartine, rime, inversioni ecc., arriviamo ai versi 7 e 8: «se non ch’ i’ ò di me stesso pietade/ i’ sarei già di questi pensieri fora», e quindi leggiamo Leopardi che chiosa gli endecasillabi petrarcheschi: «mi sarei già ucciso spontaneamente». Dopo aver letto questo breve e incisivo appunto leopardiano, gli alunni mi guardano e uno mi chiede: «Quindi lui vuole uccidersi ma non lo fa perché ha paura? Si vuole uccidere perché Laura non c’è più?». Non mi viene in mente nessuna risposta sensata. La riflessione esistenziale che Petrarca porta avanti nelle prime due quartine è così assoluta da travalicare il sentimento d’amore, lo assolutizza, lo fa diventare “qualcosa” che mostra l’inanità della vita; c’è un filo lunghissimo che unisce Petrarca a Pavese: «Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla». Così preferisco invece abbozzare una spiegazione meno profonda, più semplice, legata alla vanitas delle cose, ma quella domanda e il loro sguardo rimangono a interrogarmi.
  2. Sto spiegando la selva dei suicidi di Dante, stiamo osservando la descrizione di Pier Delle Vigne, faccio notare come per Dante i suicidi siano rappresentati come non più uomini, hanno perduto il loro stato di esseri viventi e sono diventati “cose”, “pezzi”, “oggetti”, che si possono strappare, rompere. «Il suicidio – dico – per Dante non è solo un negarsi della vita, ma è un negarsi dell’umano. È il decidersi dell’uomo di farsi cosa». «Però – uno degli studenti mi ferma – se si decide, significa che si è umani, perché non si è costretti». Mentre mi dice queste cose, io penso a Primo Levi, al suo gesto, all’assenza di suicidio nei lager, perché nei campi di concentramento si diventa cose. E le cose non si uccidono, ma si rompono, mentre il suicidarsi è degli uomini: è umano. La campanella mi salva da qualsiasi risposta.
  3. Stiamo leggendo il Decameron, la novella prima della quarta giornata, ci stiamo soffermando su Ghismunda e sulla bellissima risposta a Tancredi. Siamo alla fine di un percorso dove abbiamo investigato l’immagine del cuore mangiato. Stiamo terminando un cammino iniziato nei versi di un lai in un romanzo di Tristano e Isotta, siamo passati dalle vidas provenzali e ora siamo al cospetto di questa grande invenzione narrativa di Boccaccio, che ha trasformato una figura femminile passiva e muta in Ghismunda, un personaggio il cui discorso anticipa e annuncia la nascita di una nuova idea di essere umano. Dico: «Se vogliamo, è Ghismunda più che l’Ulisse dantesco a preannunciare con anticipo i temi dell’umanesimo». Ho aggiunto che la scelta di uccidersi rendeva più forte e drammatica la verità contenuta in quell’orazione. E mentre raccontavo questo, mi sono venute davanti alla mente l’immagine Virginia Woolf che si lascia morire nel fiume come Ophelia, e la foto di Sylvia Plath che mi terrorizza nei sogni, e ho dovuto fermarmi.

2. Questi tre episodi hanno in comune una particolare forma di silenzio, la mia; una forma di mutismo, in cui convivono paura, difficoltà, responsabilità e un certo grado di ignoranza: è giusto parlare di suicidio, e se sì in che modo? E in che modo parlarne con i ragazzi? E in che modo è necessario farlo diventare un discorso pubblico e educativo? È chiaro che non esistono sentenze certe e univoche: ciò che mi sono risposto, e che potete leggere in questo pezzo, è frutto di alcune meditazioni e di un libro uscito quest’anno dal titolo sobrio ma indicativo: Note sul suicidio di Simon Critchley (traduzione di Alberto Cristofori, Carbonio Editore, Milano 2022).
Per Critchley il suicidio è appunto prima di tutto un problema di lingua:

Ci manca un linguaggio per parlare onestamente del suicidio, perché troviamo l’argomento difficilissimo da affrontare, nello stesso tempo profondamente spiacevole e cupamente affascinante.

Il nodo è appunto questo: come facciamo a parlare con chiarezza (è il compito di un insegnante, anzi di ogni intellettuale, essere chiaro) di qualcosa che nell’affrontarlo produce in noi afasia? La tesi forte di Note sul suicidio può essere racchiusa in questa idea di trattare il suicidio come se fosse un testo, sottoporre l’atto suicida a una sorta di pragmatica testuale, perché

scrivere è la cosa più vicina alla morte, nel senso che scrivere è un prendere licenza dalla vita, un temporaneo abbandono del mondo e delle proprie meschine preoccupazioni per tentare di vederci più chiaro.

L’abilità di Critchley non è appunto di quella di rendere il suicidio interessante o seducente, ma di renderlo un’esperienza comunicabile, un tabù che può essere detto, un gesto non per forza avvolto nel mistero e quindi seducente.

3. Uno dei capitoli centrali di Note sul suicidio è il resoconto di un workshop di scrittura creativa tenuto dall’autore, nel quale è stato chiesto ai partecipanti di scrivere i loro biglietti d’addio per un eventuale suicidio. Scrive l’autore:

Il messaggio di addio dei suicidi, quindi, è una forma di messa in scena, il sintomo di un deliberato esibizionismo. […] Ci permette di lanciare un’occhiata all’interno di una condizione mentale nascosta o proibita, ed esercita una sorta di attrazione morbosa.

Quindi si può provare guardare a questi biglietti, lettere e piccole frasi come una sorta di testo che contiene un paradosso finale: si guarda al passato a ciò che è stato, ma ci si proietta nel futuro, perché sono parole dovute a chi resta e a chi rimane. Ancora una volta torna in mente Pavese, e le sue ultime parole nel Mestiere di vivere in cui brilla l’uso del verbo al futuro: «Non scriverò mai più». Che cosa mette in chiaramente in evidenza lo scrivere un messaggio di addio? Critchley dice che tale messaggio è tentativo di rendere il nostro “io” un oggetto: noi possiamo uccidere solo qualcosa che reputiamo una cosa:

dato l’intenso amore che proviamo per noi stessi, per ucciderci dobbiamo trasformarci in oggetti. […] Il suicidio a rigor di logica è impossibile. Io non posso uccidere me stesso. Ciò che uccido è l’oggetto odiato che sono diventato. Io odio la cosa che sono e voglio che essa muoia. Il suicidio è un omicidio.

In Questa è l’acqua David Foster Wallace parla di suicidio, e sostiene che coloro che si sono uccisi fossero

quasi tutti già morti da un pezzo. […] Date retta me, il valore reale e schietto della vostra cultura umanistica dovrebbe essere proprio questo: impedirvi di trascorrere la vostra comoda, agiata, rispettabile vita da adulti come morti, inconsapevoli, schiavi della vostra testa e della vostra naturale modalità predefinita che vi impone una solitudine unica, completa e imperiale giorno dopo giorno.

Riflettere sul suicidio, guardarlo in viso, non vergognandosene né di parlare né di dichiarare di aver avuto pensieri tali, rappresenta l’andare al centro di uno dei temi fondamentali della cultura umanistica: l’essere umano e la sua libertà.

4. Che il suicidarsi abbia a che fare con la libertà, lo ricorda Dante, per il quale la libertà è così importante da rifiutare la vita. L’immagine del “rifiuto” è molto simile a ciò che DFW descrive nel suo intervento, e possiamo ravvisare una tensione duplice:

i) a non essere come gli altri vogliono che io sia;
ii) a non essere ciò che odio essere.

Suicidarsi è una sorta di affermazione, estrema, dell’io: è il modo ultimo che abbiamo di dire io, di dire che non siamo l’oggetto, che distruggiamo gettandoci da una altezza, o che soffochiamo con la corda, o che spegniamo con i medicinali, o che sfregiamo con la pistola; suicidandoci affermiamo che siamo persone. «Io voglio aprire uno spazio», leggiamo in Note sul suicidio, «per pensare al suicidio come a un atto libero, che non dovrebbe essere moralmente rimproverato o silenziosamente condannato»; questo perché «il suicidio deve essere capito e noi abbiamo un disperato bisogno di una discussione più adulta, clemente e meditata sull’argomento».

5. Se parli di suicidio – come ora scrivendo queste note – le persone ti guardano come se dovessi da un momento all’altro e improvvisamente buttarti con una macina al collo, oppure ti chiedono come ti comporteresti nel caso in cui una persona che ami o un tuo parente si togliesse la vita, se – nel caso – saresti capace di non perdere la calma.

C’è una rabbia, un disprezzo, covato e nascosto, dietro l’argomento suicidio che è necessario in qualche modo raffreddare: ho conosciuto nella mia vita persone che hanno tentato il suicidio, ho conosciuto persone che hanno dovuto affrontare il lutto, il sopravvivere al proprio caro che si è tolto la vita. Guardo a ognuno di loro con grande rispetto, ma nella mia mente io cerco sempre di difendere chi è riuscito ad andare fino in fondo, chi ha scelto di compiere il gesto ultimo e di farcela. È il mio tentativo ultimo e tormentato di comprendere e di pensare la libertà dell’individuo, che è più forte dell’amore per i genitori, per i compagni, per i figli, per gli amici che rimarranno, che è più forte anche dell’amore che sentiamo per noi stessi. Rispettare la volontà di chi ha deciso di farla finita, non condannarlo, per quanto questo sia doloroso, per quanto questo possa sembrare estetizzante, o pericoloso, è questo l’insegnamento più profondo che possiamo dare.

6. Posso immaginare il possibile contro argomento: è corretto tenere un discorso del genere a dei ragazzi di 16/17 anni? La mia risposta è sì, si deve, è necessario, bisogna loro fornire strumenti per comprendere la propria vita, la propria moralità, la propria libertà. La scelta della letteratura, delle humanitates, dell’umanesimo è la riflessione ultima sull’uomo e sulla sua volontà; usando una parola oggi di moda potremmo dire che il centro di questo nostro discorso è l’autodeterminazione.
Ora, il tema dell’autodeterminazione è uno dei più centrali del dibattito culturale contemporaneo, e credo che una riflessione sul tema del suicidio, letto in quest’ottica, potrebbe risultare importante per il confronto in corso e muovere a riflessioni determinanti. Si discute spesso e giustamente di autodeterminazione rispetto al proprio genere, al proprio orientamento sessuale, se e quanto sia importante per la donna scegliere se abortire o no: autodeterminarsi è diventato fondamentale. Perché il suicidio, l’atto di rinuncia alla vita, non è concepibile come un atto di autodeterminazione?

Eppure il levare la mano su di sé è uno dei modi più potenti di auto affermarsi, una affermazione dolorosa e tragica, ma ben precisa, il suicida dice: «Io sono quello che sono e sono così convinto di essere ciò che sono che lo nego».

Il problema, lo dico da credente, è anche legato dall’atteggiamento della chiesa cattolica, non c’è bisogno di rileggere la splendida scena dei becchini nell’Amleto di Shakespeare per comprendere come la chiesa eserciti una profonda “repressione” sul dibattito. Eppure lo stesso catechismo della chiesa cattolica afferma due cose molto diverse. Nel capitolo II, della seconda sezione, della Terza Parte, leggiamo la proposizione 2281 che recita:

Il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell’essere umano a conservare e a perpetuare la propria vita. Esso è gravemente contrario al giusto amore di sé. Al tempo stesso è un’offesa all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi. Il suicidio è contrario all’amore del Dio vivente.

La condanna sembra senza se e senza ma, ma la Chiesa non è Dio, non è lei è scrutare le viscere, a vagliare i reni, a penetrare nei cuori, ma è Dio stesso e infatti il Catechismo sa che l’amore di Dio è una così strana e particolare realtà e deve aggiungere la proposizione 2283:

Non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può loro preparare l’occasione di un salutare pentimento.

Il cuore del suicida è un luogo che nessun uomo, nessun pensiero umano, può conoscere.

7. Il suicida, quindi, non è un uomo triste, non è un semplice depresso: il suicidio non è la risposta alla domanda “perché la vita è brutta?”, il problema che il suicida pone è più complesso e riguarda il dire sì alla vita, il pensare che la vita è questa, è accettare questa vita è così come è. Il problema – il paradosso? – del suicida non è legato al senso della vita, come bene dice Critchley:

La domanda sul senso della vita è sbagliata e dovremmo rinunciarvi. La grande rivelazione non arriverà mai […], la nostra mente non cesserà mai di aggirarsi fra i suoi dubbi, i suoi inganni, le sue autocommiserazioni e i suoi sensi di colpa», ma la vera domanda è «in virtù cosa la vita è o non è indicativa.

Ciò che rende significativa la vita è che a un punto essa si arresta e in quel momento di stupore la vita appare completa, unica, irripetibile. C’è un’immagine che io coltivo come tra le più belle della letteratura, che mi pare perfettamente in equilibrio tra paura, gioia, bellezza e terrore. Sono alcune righe che seguono il celebre incipit de La signora Dalloway di Virginia Woolf (Feltrinelli, a cura di N. Fusini). Ogni volta che le leggo mi pare di sentire la vita, credo di provare su di me tutto ciò che Woolf ha sentito e che non ha potuto sopportare o che, forse, ha sopportato fino al momento in cui questa bellezza le è parsa essere alle sue spalle, come se lei fosse passata, fosse andata da un’altra parte.

Com’era fresca, calma, più ferma di qui, naturalmente, l’aria la mattina presto, pareva il tocco di un’onda, il bacio di un’onda; fredda e pungente […] solenne, perché in piedi di fronte alla finestra aperta, levi, aveva allora la sensazione che sarebbe successo qualcosa di tremendo, mentre continuava a fissare i fiori e gli alberi che emergevano dalla nebbia e che a cerchi si sollevava fra le cornacchie in volo.

Il suicida guarda questo qualcosa di tremendo, ma diversamente da noi non lo scansa, lo attraversa e lo fa anche per noi, ci permette quindi di guardare queste onde che mi muovono e decidere di rimanere: certo si accetta il rischio di essere i prossimi, ma per adesso si decide di rimanere qui e ora:

Quando la vita si arresta e noi abbiamo di fronte l’infinito mare in movimento, indifferente e grigiastro, quando ci manteniamo aperti con tenerezza a quell’indifferenza, senza desiderare, commiserarci, lamentarci, o aspettare una ricompensa o un premio scintillante, allora potremmo essere diventati, per un attimo, qualcosa che è durato e che durerà, qualcuno che può trovare una sorta di autosufficienza: qui e ora.

Sarà questo che d’ora in poi mi guiderà nelle risposte ai miei ragazzi.

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Demetrio Paolin

vive e lavora Torino. Collabora con il «Corriere della sera». Ha scritto saggi e romanzi. Nel 2016 è stato tra i 12 finalisti del premio Strega con il romanzo “Conforme alla gloria” (Voland). Il suo ultimo libro è “Anatomia di un profeta” (Voland).

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