Alle sei del mattino di giovedì 12 marzo 2020 sono entrato nella cucina ancora in penombra della casa palermitana in cui abitavo da due messi e mezzo e, ognuno seduto su una sedia ai lati del tavolo, ho trovato Achab e Bartleby.
Queste sono le prime righe dell’incipit di Tre orfani, un racconto breve che Giorgio Vasta ha pubblicato da poco con Edizioni Casagrande (2021). A colpire immediatamente il lettore, più che l’apparizione dei due personaggi creati dalla fantasia di Melville, è l’inciso – «ognuno seduto su una sedia ai lati del tavolo» – che costituisce la temperatura del racconto: l’Io narrante non è per nulla colpito dalla presenza di Achab e Bartleby, ne prende atto – «ho trovato» – e descrive la presenza di questi due personaggi letterari come normale. Dopo una breve esitazione, infatti, ha chiaro che tutto quello che vede è reale, non è un’illusione o un’allucinazione; così infine riprende a preparare la colazione: «Ho raggiunto i fornelli, ho messo il caffè sul fuoco e ho tirato giù tre tazzine».
I paragrafi successivi descrivono il rito del caffè con metodica precisione, «nella sua caldaietta l’acqua assorbiva calore preparandosi a filtrare nella polvere»: questa vertigine descrittiva – «lui se n’era stato a guardare il nero facendogli penetrare dentro la lamina arcuata del cucchiaino, dedicandosi allo stesso modo al bianco granulare screziandolo di piccole tracce brune» – è il marchio stilistico dell’intero racconto e viene usata da Vasta per riprodurre e dare la sensazione della durata del tempo, del lungo e monotono sgranarsi di secondi, minuti e ore.
Tre orfani, infatti, è il resoconto di una giornata vissuta da questi tre personaggi solitari, l’Io narrante, Achab e Bartleby, «tre orfani misantropi». Il tempo e il suo passare sono temi fondamentali del racconto, questo lo si evince anche dalla presenza nell’incipit di una data e un’ora precisa: le 6 del mattino del 12 di marzo, compleanno dell’io narrante. Nelle pagine del racconto, nel dilatarsi e farsi sempre più preciso del dettaglio, il tempo in maniera impercettibile subisce una metamorfosi: non più un tempo scandito dall’orologio, legato al kronos, ma a un tempo speciale (kairos) che “scorre” diversamente. Infatti, nelle pagine finali del racconto, leggiamo
Più tardi – e nessuno di noi a quel punto sapeva se fossero trascorsi alcuni minuti, se fosse notte fonda o già il 13 marzo, se il 2020 se ne era andato via – ci eravamo ritrovati seduti sulle nostre tre sedie, davanti alla ringhiera.
Alla precisione dell’incipit si oppone qui un indefinito «più tardi», che viene rinforzato ancora una volta da una frase incidentale, quasi l’Io narrante volesse affidare a questa parte sintattica, che –ricordiamo – può essere espunta dalla lettura senza che il senso logico della frase principale cambi, per metterci “a parte” delle sue consapevolezze: ovvero l’idea di un tempo che nessuno può, in qualche modo, conteggiare.
Ne Il senso della fine (il Saggiatore) Kermode sostiene che l’unità mima di una narrazione può essere rintracciata nel “tic tac” dell’orologio. Il tempo è il nucleo esperienziale di Tre orfani, che sottintende una domanda ricorrente in questi tempi: «Che esperienza del tempo abbiamo avuto in questi ultimi 2 anni?». Vasta nel suo racconto ci dà, forse, il primo resoconto di questo nuovo tempo dilatato, che non è più legato alle lancette, al calendario, al susseguirsi dei giorni lavorativi e giorni festivi, ma un tempo che recupera una sorta di arcaica circolarità, in cui ogni levarsi del sole è simile a quello precedente, dove i secondi, le ore, i giorni e gli anni diventano un semplice «Più tardi».
In queste pagine assistiamo a uno svuotamento del tempo, ne è simbolo la lenta e esasperante operazione di cancellazione di email/messaggi/appuntamenti che Bartleby compie sul cellulare e pc dell’Io narrante, che apre lo spiraglio verso un mondo diverso dal sistema produzione/consumo capitalistico; un tempo che si riscopre religioso. È questo, sembra dirci Vasta, il tempo di Achab, che si abbandona alla folle ricerca della balena; un tempo in cui gli opposti si incontrano, in cui non esiste vicino o lontano, un tempo che non finisce, ma che in qualche modo modifica per sempre il nostro essere nel tempo, in cui passato e futuro stanno in un sempre presente: il tempo di Tre orfani è il tempo della rivelazione, dell’apocalisse:
Osservandoli avevo pensato a come, in quel giorno lontano o vicino o mai del tutto terminato i cui avevo compiuto cinquant’anni, ero diventato ramponiere. Poi, pieno di nostalgia per flutti audaci della mia vita trascorsa – quella passata e quella futura – avevo allungato anch’io una mano verso il pattino […].
Si noti ancora una volta come proprio le due incidentali siano il fulcro del ragionare, una notazione così continua che viene a chiedersi se proprio questo “mettere tra parentesi, virgole, trattini” abbia in sé una connotazione che non è solo grammaticale, ma anche filosofica. Ognuno ha fatto esperienza di un tempo, questo nostro, vissuto tra due trattini, in cui il fermarsi, il rallentare, prossimo all’immobilità, della vita ha mostrato l’esistenza di qualcosa altro, che si annida nelle nostre esistenze e che non vediamo, ma c’è.
[…] lo spazio davanti a noi non era il prospetto posteriore del condominio dove abitavo da due mesi e mezzo, non aveva nulla a che fare con le quisquilie della vita urbana, al limite qualcosa con la natura cetacea di Palermo: perché quello spazio era l’Atlantico magnifico.
L’esperienza del tempo nuovo ci insegna anche un nuovo spazio
eravamo seduti davanti alla ringhiera del terrazzino che si affaccia sul retro di un condomino in via Re Federico 115, a Palermo, e alle nostre spalle si dilatava un appartamento infinito in cui le camere si dissolvevano senza nome e senza scopo, ma eravamo a New York in una strada stretta delimitata da un muro e mattoni, ed eravamo in un punto preciso e perduto dell’Atlantico sterminato.
Lo spazio, creato da questo nuovo tempo, è delimitato dalla letteratura – il muro e i mattoni di Bartleby e l’oceano di Achab. L’interrogarsi sul ruolo della letteratura e il suo futuro è un altro tema di Tre orfani; e mi pare che la risposta di Vasta sia giustamente conservativa: la letteratura continua a produrre le stesse immaginazioni, continua a fare le stesse cose. In tal senso Bartleby e Achab, descritti da Vasta, sono sempre loro, gli stessi che abbiamo veduto agire e che abbiamo letto nelle pagine di Melville. La letteratura non deve ripensarsi, perché essa è già proiettata nella profezia. Non è casuale, a questo proposito, l’elezione di Melville come convitato di pietra di queste pagine; nelle opere dell’autore statunitense si vede come la letteratura sia tale perché anticipa ciò che sarà, perché prevede e, in un certo senso, produce il nostro tempo “attuale”.
Emanuele Trevi, nell’introduzione all’edizione di Bartleby lo scrivano (Garzanti), parla proprio di questo intento anticipatorio dell’opera di Melville e si domanda cosa potessero pensare i lettori di metà Ottocento nel leggere una novella del genere. La riflessione di Trevi identifica il valore della letteratura nel futuro: Melville non scrive nel presente e non scrive del presente, ma è come se avesse veduto/vissuto il futuro, e lo avesse raccontato. Questa “contemporaneità” futura della letteratura, di Melville e non solo, è quella che Vasta racconta in Tre orfani. Proprio per questo la scena, che chiude il racconto, ha un profondo valore simbolico: l’Io narrante prende il bastone di una scopa, che Achab con cura ha appuntito, e lo scaglia dal suo balcone, come se fosse sulla rampa di una baleniera; nel lanciarlo questo bastone si trasforma in un rampone che
prima verso l’alto e poi verso un punto il più possibile esatto e lontano, […], trapassava senza suono, uno strato dopo l’altro, il cielo nero e i suoi arcipelaghi stellari, l’etereo e il subacqueo, una babele di silenzi, dirigendosi cieco verso il suo bersaglio.
Proprio come l’ascia di Kafka il ruolo della letteratura per Vasta è quello di «un rampone che con un rumore colmo, profondo, tenero e aspro, si conficcava nella carne del buio».