Allora, ‘sta fine del mondo arriva o no? Secondo i soliti catastrofisti sta per arrivare, sta sempre per arrivare. Secondo una visione più politica, per così dire, la fine del mondo, o meglio la fine del mondo as we know it, della realtà che conosciamo, è già avvenuta e non ce ne siamo accorti: o forse solo adesso incominciamo ad accorgercene, con la pandemia e i suoi effetti globali e quotidiani, con il riscaldamento globale sempre più tangibile. Secondo altri, ed è l’ipotesi più accreditata in ambito scientifico, l’apocalisse non appartiene né al passato né al futuro, bensì al presente: ci siamo in mezzo, è l’acqua in cui nuotiamo.
Solo che sta succedendo talmente al ralenti che non ce ne capacitiamo: l’estinzione delle specie viventi, che si sta verificando a un ritmo dieci, cento volte più rapido rispetto alla media, e che quindi corre a una velocità pazzesca per i tempi geologici, tanto da farci parlare di sesta estinzione di massa, è però, rispetto al punto di vista di una vita umana – letteralmente un punto su una retta infinita – talmente lenta da essere impercettibile. Come dice Massimo Sandal in La malinconia del mammut (il Saggiatore) non è che uno si sveglia una mattina, si affaccia alla finestra e dice toh, un’estinzione di massa.
Scriveva Kermode, di cui il Saggiatore ha da poco ripubblicato Il senso della fine, che proprio da questa certezza continuamente disattesa – dal fatto cioè che l’apocalisse è sempre percepita come prossima e mai si verifica – nascono i miti, e poi le religioni, e poi la narrativa. La fine del mondo da imminente diventa immanente, in progress, un po’ come l’impero romano di Ermanno Cavazzoni, che sono duemila anni che sta crollando: la sensazione di essere alla fine dei tempi come condizione di vita, the new normal.
Nell’indecisione tra passato, presente e futuro, per non offendere nessuno la casa editrice effequ se n’esce con un libro assurdo, un libro che è tre libri, firmati da tre autori: Trilogia della catastrofe, per l’appunto. Questo piccolo editore fiorentino, un pezzettino alla volta – tra un’analisi linguistica femminista e un’incursione nella theory fiction, tra un viaggio nei tarocchi e uno nell’incubo digitale – sta contribuendo a costruire un nuovo modo di fare cultura in Italia: competente e vivace, militante e bizzarro. Trilogia della catastrofe, in un catalogo giovane ma che ha già le sue belle punte di originalità, è sicuramente la scommessa più azzardata. Ma vinta.
Prima durante e dopo la fine del mondo: questo il sottotitolo, questo il senso della tripartizione. Del prima si occupa Emmanuela Carbé, in un pezzo breve e sorprendente, ansiogeno e visionario. Quand’è che – si chiede, come prima o poi tutti ci siamo chiesti – è iniziato tutto? Se lo chiediamo a un economista, probabilmente dirà la rivoluzione industriale (200 anni fa), mentre per uno studioso della tecnologia come Morozov sarà l’avvento dei computer e poi di internet (meno di mezzo secolo addietro); il musulmano dirà l’Egira (1300 anni fa) e il cristiano la nascita di Gesù (due millenni); il paleoantropologo punterà sull’invenzione dell’agricoltura (10-12mila anni) oppure sulla conquista della posizione eretta (5-7 milioni di anni) mentre magari il biologo sosterrà la tesi del grande evento ossidativo (che 2 miliardi e mezzo di anni addietro creò le condizioni per la vita complessa; ma che dal punto di vista dei batteri anaerobi rappresentò la prima grande estinzione di massa, e perciò viene anche detta catastrofe dell’ossigeno).
Carbé, con un aplomb pari solo all’enormità che sta per affermare, dice che tutto è iniziato con il Congresso di Vienna. Sembra uno scherzo, un ricordo da liceale che arrivava all’interrogazione sperando nell’argomento a piacere, e in effetti è proprio così. D’altra parte: perché no? Se ogni inizio è arbitrio, convenzione, perché il Big Bang non potrebbe essere in un punto qualsiasi della storia, e produrre i suoi effetti sia in avanti che all’indietro negli anni, scoccando contemporaneamente due frecce del tempo? Il Congresso di Vienna secondo Carbé diventa così una specie di festino di demiurghi un po’ sbiellati: è un racconto surreale e onirico, allucinato e paradossale; quindi credibile.
Il durante è affidato a Jacopo La Forgia, e tra tutti e tre è il pezzo più classico, voglio dire più inquadrabile in un genere, in una forma riconosciuta e riconoscibile, quella del reportage. (Reportage di stile moderno e taglio personale, s’intende, dove le peripezie che portano alla costruzione del pezzo sono esse stesse il pezzo, con ampio uso della narrazione in prima persona, secondo la lezione del new journalism, che appunto ormai è topos, classico.) La sua stranezza, che ne giustifica la presenza in questo libro assurdo, non è interna ma esterna, non è data dal testo ma dal contesto. Dal fatto cioè che stando alla dispositio della Trilogia, il cuore della catastrofe, il centro dell’apocalisse, sarebbe un episodio semisconosciuto della storia moderna dell’Indonesia: è una metonimia fortissima, la parte per il tutto che fa esplodere il senso, una provocazione che smette di essere tale nel momento in cui la storia si dispiega, e gli eventi vengono resi noti.
Sappiamo molto delle dittature sudamericane, dei desaparecidos cileni e delle carceri segrete argentine, dei colpi di stato finanziati dalla Cia, dei sogni infranti di un’intera generazione, di un intero continente. Dall’altro capo del mondo, dell’Indonesia sappiamo pochissimo, non è un luogo che appartiene all’immaginario collettivo occidentale: al massimo, quelli di noi che se la tirano per aver letto qualche articolo su Internazionale o Limes, diranno che pur non essendo un paese arabo è la nazione musulmana più grande al mondo. Ma quanti sanno che non è stato sempre così? In Indonesia, la fine del mondo è arrivata nel 1965: pochi anni dopo l’indipendenza, in un paese democratico e politicamente vivace. Un finto golpe comunista è stato usato come pretesto per un vero golpe militare e religioso, reazionario e nazionalista: sono seguiti anni di torture feroci e persecuzioni insensate, mezzo milione di persone uccise, morti e altri milioni di cittadini imprigionati, seviziati, terrorizzati. Peggio ancora, sono seguiti decenni di oblio: noi non ne sappiamo niente – apprendiamo con colpevole sollievo – perché anche la maggior parte degli indonesiani non ne sa niente, la storia è stata cancellata, o viene raccontata la favoletta filogovernativa, il massacro è stato insabbiato. La Forgia è bravissimo a farci entrare in questo clima soporifero e sospettoso, in cui ancora oggi chi indaga o si batte per far riconoscere la verità, per ottenere non si dice giustizia, ma perlomeno memoria, rischia come i “comunisti” dell’epoca. Sembra un delirio, un brutto romanzo distopico, ma è quello che è successo, che continua a succedere: la catastrofe ineluttabile.
Dopo: arriva a recitare il de profundis, come un prete laico, Francesco D’Isa. Dei tre, il suo è il pezzo più catastrofista, alla lettera, cioè quello che parla apertis verbis, e non per vie traverse come gli altri, della catastrofe ambientale e climatica che stiamo vivendo, che abbiamo causato, che ci ucciderà. Lo fa con dovizia di particolari, dati informazioni e considerazioni. Si sofferma soprattutto sul mistero più grande, quello che fa scervellare chiunque abbia un minimo di senno, quello che Amitav Ghosh ha chiamato La grande cecità: perché anche se sappiamo di stare correndo verso il baratro, non facciamo nulla per fermarci? Anche qui, le ipotesi si sprecano: perché siamo egoisti, o scemi, perché il climate change è un iperoggetto, perché psicoevolutivamente siamo fatti per preoccuparci solo di pericoli tangibili e a breve termine, perché non riusciamo a ragionare al di là di una generazione.
Ma – e qui arriva il bello – il pezzo più oggettivamente catastrofista è anche quello più naturalmente costruttivo, quasi ottimista. Il fatto è che D’Isa, oltre che artista, è filosofo: ma di quelli che intendono la filosofia non solo come speculazione, ma come pensiero che condiziona l’agire, che detta una linea di condotta. D’Isa parte da una considerazione: non sappiamo gestire la morte; dobbiamo imparare a farlo. La morte, che da un lato è la grande rimossa della nostra cultura materialista, dall’altro è il motore, la molla di ogni fatto della vita: dietro ogni azione umana, anche la più positiva e creatrice, come fare un figlio o scrivere una trilogia, c’è il senso della fine, il terrore della morte e la spinta a fuggirla. (Nota curiosa e personale: ho appreso, leggendo queste pagine, non solo di essere perfettamente d’accordo con D’Isa sul punto, cioè di considerare quanto ho appena esposto non un’opinione o una tesi ma un dato autoevidente, un postulato che non richiede dimostrazione; ma pure che, d’altro canto, non è questo il pensiero dei più. Alla fine, Francesco, stai a vedere che quelli strani siamo noi.)
Qual è, infine, la consolazione della filosofia? Mettendo insieme questi due aspetti in apparenza lontani – la fine dell’universo mondo e la gestione della morte individuale – D’Isa ci suggerisce che quando avremo imparato ad avere a che fare con l’idea della nostra morte, forse saremo anche in grado di affrontare l’idea di un’estinzione di massa. Se poi questo comporti la capacità, o almeno la possibilità di evitarla anche, è conclusione che ci viene pietosamente risparmiata. D’altra parte, non siamo qui per salvarci, ma per rimanere coscienti fino all’ultimo.
Bene. Quindi questo libro assurdo, per quanto assurdo, o in quanto assurdo, funziona. Possiamo leggerlo e rileggerlo e goderne appieno e uscirne arricchiti. Se però siamo particolarmente antipatici, possiamo non accontentarci, e invece proseguire chiedendoci: perché funziona? Che cos’è che tiene insieme queste tre parti così diverse, accomunate solo dal fatto di essere degli ibridi formali, e quindi di appartenere al vago e difficilmente definibile ambito della theory fiction (concetto che possiamo approfondire qui e qui) oltre che di essere state concepite dalla mente di un editore in sospetto stato di ebbrezza? Io me lo sono chiesto, e il fatto di non riuscire a rispondere mi stava facendo arrabbiare più del dovuto.
Per fortuna subito dopo ho letto, per caso, un libro che in apparenza non c’entrava niente: altro genere altra provenienza altra epoca. L’opera galleggiante (minimum fax), il capolavoro post-modernista di John Barth. Per caso, ma mica tanto: cerco sempre di alternare letture recenti con recuperi e anacronismi; l’universo del leggibile è così vasto che le mie lacune sono spaventevoli, come quelle di chiunque. Quello di Barth è un libro che avevo in wishlist da decenni, e sul comodino da un paio d’anni: e dire che il post-moderno è uno dei miei stili preferiti, figuratevi come sto inguaiato.
Che poi, per essere una delle colonne portanti del post-moderno, mi è sembrato anche troppo romanzone classico americano: si vede che il post-qualcosa l’abbiamo talmente digerito che da avanguardia è diventato prima demone e poi canone. Sì certo, le sperimentazioni formali di alcuni capitoli, di alcuni passaggi: ma sempre condotte con mano leggera, con delicatezza e rispetto per il lettore. E poi le divagazioni, come no, ma molto più lineari e sorvegliate rispetto a certi classiconi alla Tristram Shandy. Lungo ma non indigesto, stimolante ma non labirintico, soprattutto divertente, uno spasso continuo: anche quando parla di morte, specialmente quando parla di morte.
Per caso, l’ho letto, ma mica tanto: io nel Caso ci credo, e questa è la maniera migliore di non sentirsi preda della casualità. In questa storia scoppiettante e poco credibile (un ménage à trois che dura anni), affiora continuamente la morte, la guerra, la vecchiaia, il suicidio. Il suicidio in particolare è ampiamente discusso, dibattuto in teoria e applicato in pratica, se pur con alterne fortune: il senso della fine è il percorso sotterraneo che tiene insieme L’opera galleggiante.
Ma non è solo questo. Barth descrive una chiatta che percorre i fiumi e la costa, e che mette in scena il suo spettacolo d’arte varia dopo aver attraccato in ogni città. Il protagonista del libro però a un certo punto immagina che le cose si potrebbero svolgere in modo diverso, che l’opera vada avanti mentre l’imbarcazione è in movimento, e facendo su e giù per il fiume passi e ripassi davanti agli spalti: gli spettatori coglierebbero solo alcuni momenti della vicenda, e gli altri dovrebbero immaginarli, dedurli. Un po’ come avviene in quelle rappresentazioni teatrali contemporanee in cui gli spettatori sono mescolati agli attori, che recitano in varie stanze di una casa o castello, perciò rendendo impossibile assistere a tutte le scene, cogliere la realtà nella sua interezza. Un’idea tipicamente post-moderna, come tipicamente post-moderno è il fatto che Barth cerchi di mettere in pratica questo stesso principio nel libro che ne parla in teoria: L’opera galleggiante è un’opera galleggiante, una storia in cui certe parti sono omesse, certe volutamente ritardate, certe anticipate.
Una storia in cui si viaggia avanti e indietro nel tempo – per dimostrare, ohibò, forse che il tempo non esiste? Forse solo che il tempo non è così importante – tra passato, presente e futuro, mescolati e allineati. Passato presente e futuro, prima durante e dopo: proprio quello che fa, quello su cui è basata, la Trilogia della catastrofe. Poi magari è tutta una mia fantasia, tipo quella cosa della morte, ma a me questi due libri sono sembrati intimamente connessi, reciprocamente giustificati. Cosa vuol dire allora: che il post-modernismo a distanza di 60-70 anni ha generato la theory fiction, o addirittura è ricomparso sotto mentite spoglie? Più semplicemente, che è arrivata la fine del mondo, e finalmente so cosa mettermi: un’opera galleggiante, una trilogia come un vestito triple face, elegante comodo ed eccentrico, adatto a qualunque sia il modo in cui andrà a finire.