È da poco in libreria Pechino pieghevole (Add editore, Torino 2020), della scrittrice cinese Hao Jingfang: titolo accattivante che ci auguriamo attiri l’attenzione del pubblico italiano. La fascetta sottolinea incalzante: “vincitore del premio Hugo”, riferendosi al primo dei racconti contenuti. Di che anno, ci si potrà chiedere? Del già lontano 2016, quando, sbaragliando una concorrenza agguerrita (fra gli altri Stephen King), l’autrice, allora poco più che trentenne, vinse il prestigioso premio assegnato dalla Worldcon (World Science Fiction Convention) in California: prima autrice cinese a raggiungere l’ambito traguardo. Eppure, come ci informa Simone Pieranni nella sua illuminante recensione apparsa su «Il manifesto» del 15 luglio, ancor oggi lei, diventata famosa, non trascura i suoi impegni primari di ricercatrice presso la China Development Research Foundation, e riesce a dedicare alla scrittura solo le prime due/tre ore della sua intensa giornata.
Gli appassionati italiani di fantascienza, grazie alla rivista Robot, nell’inverno di quello stesso 2016 ebbero la possibilità di avvicinare questo sorprendente testo. Marco Crosa, il traduttore, si era basato però sulla versione intitolata Folding Beijing, già apparsa su Uncanny Magazine, e redatta da Ken Liu direttamente dall’originale. Quest’ultimo, cinese naturalizzato americano, è uno degli autori contemporanei di fantascienza più apprezzati. Ha contribuito alla fama presso il pubblico anglofono del talentuoso Liu Cixin, traducendone nel 2015 il romanzo The Three Body Problem (San Ti, in italiano Il problema dei tre corpi). Il premio Hugo, in cui trionfò quell’anno, servì come trampolino di lancio verso il successo planetario dell’autore dello Shanxi; in Italia, Mondadori si affrettò a pubblicare tutta la Trilogia di cui fa parte, intitolandola Il passato della Terra.
Per Hao Jingfang, il riconoscimento internazionale ha significato essere subito tradotta e pubblicata, oltre che nei paesi anglofoni, anche nel resto d’ Europa, appunto.
Pékin Origami: nel 2016 Michel Vallet proponeva di intitolare con questo titolo poetico-esistenziale il racconto Beijing zhidie, inserendolo in un’antologia, L’insondable profondeur de la solitude (in cinese Jimò de shḗndù), composta da racconti della stessa Jingfang, realizzati fra il 2010 e il 2016. Il titolo è raccontato dall’autrice muovendo dall’impressione che le suscita la fantascienza: immaginare mondi possibili ai cui margini vivono gli umani, che vi si sentono straniati e inadatti. In questo caso, la ben nota “libertà interpretativa” di molte traduzioni francesi dal mandarino permetteva di cogliere già dal titolo l’inquietudine perturbante presente nella SF della giovane autrice di Tianijin.
Ora, dunque, in Italia possiamo finalmente leggere quest’antologia, che contiene 11 racconti, e Pechino pieghevole, che è eponimo del volume, tradotti direttamente dalla lingua originale, ad opera della valente sinologa Silvia Pozzi e grazie al contributo dell’istituto Confucio dell’Università degli studi di Milano.
In particolare, la nuova versione della novella, non più condizionata dall’urgenza di essere pubblicata quasi in contemporanea con l’assegnazione del premio, ha potuto maggiormente valorizzare gli aspetti stilistici e lessicali. Così Silvia Pozzi, già avvezza a impegnative prove come la traduzione dei testi ardui e polisemici di Yu Hua (ad esempio, Arricchirsi è glorioso; Brothers; Il settimo giorno, tutti pubblicati da Feltrinelli) o di A Yi (E adesso?, edito da Metropoli d’Asia), cimentandosi con la fantascienza cinese ci offre un testo rivitalizzato e capace di suscitare molti interrogativi su un futuro che è già in gran parte presente.
Accenno brevemente alla trama, perché è su un confronto fra le due traduzioni che vorrei concentrare le mie successive osservazioni.
In un non lontano futuro Pechino, ipermegalopoli popolata da 80 milioni di individui, in seguito ad una imponente ristrutturazione urbanistica assomiglierà alle facce di un cubo di Rubik. Tra le 6 del mattino e le 6 del giorno successivo la città che si mostra agli occhi dei viaggiatori è abitata e a disposizione dei membri della Prima Classe, una sorta di élite politico-economica, composta da 5 milioni di individui. Costoro, una volta terminati i loro impegni, possono fare del tempo ciò che vogliono: fare acquisti in negozi eleganti, mangiare al ricco buffet di selezionati party, passeggiare in parchi lussureggianti. Ma all’alba si avvia una transizione imponente e silenziosa. La superficie di questa metropoli ruota su sé stessa e gli eleganti edifici e le ordinate strade scompaiono per lasciare il posto allo spazio urbano riservato alla Seconda e alla Terza Classe. La Pechino dello Spazio Due è popolata da venticinque milioni di persone, funzionari di medio livello, impiegati, laureati in attesa di specializzarsi. Essi hanno l’opportunità di vivere la propria vita in maniera decentemente comoda, per 16 ore, tra le 6 del mattino e le 10 di sera. A quel punto subentra una nuova trasformazione: i palazzi si ripiegano e scompaiono sottoterra, e i 50 milioni di uomini e donne della Terza Classe sbucano fuori dalle loro misere unità abitative per il turno di lavoro manuale che solitamente va dalle 10 di sera alle 5 del mattino. Smontata dal lavoro, la gente per un’ora affolla le strade e i modesti locali, consuma affamata cibo popolare, e torna negli stipati condomini, dove nel letto-capsula li attende una dose di gas narcotizzante sufficiente a farli dormire per le successive 40 ore.
Lao Dao, il protagonista, è un addetto al riciclaggio rifiuti del Terzo Spazio che vive un pericoloso, proibito viaggio attraverso queste tre realtà, per consegnare una lettera di un innamorato della Seconda classe a una avvenente giovane donna della Prima Classe. Il messaggero d’amore si presta alla rischiosa impresa in cambio di una cospicua somma di denaro. Potrà così offrire alla sua figlioletta adottiva l’iscrizione a una scuola di qualità, che altrimenti le sarebbe preclusa.
Chaohuan, espressione coniata tempo fa dal blogger e scrittore pechinese Ken Ningche che può corrispondere a “ultra-realismo”, “super-fiction”, ben si attaglia a questo genere di racconto, visionario, capace di proiettare le angosce della nostra attuale modernità in un preoccupante futuro prossimo venturo, con l’ansia e l’interrogativo di fare in tempo per stornarlo.
Usando una frase-guida del racconto Tra vita e morte presente nell’antologia, se «la forma nasce dall’essenza», il congegno che muove la Pechino pieghevole è mosso a sua volta da stringenti e ciniche leggi politico-economiche. Per consentire un alto livello di vita e una economia sempre in crescita, occorre derubare una gran parte della popolazione del suo tempo di vita, smorzarne i bisogni e le aspettative narcotizzandola, creare delle abitudini che diventino inveterate e inalterabili.
Dunque questa «distopia claustrofobica e cupa» (secondo la definizione di Paolo Tosatti nella sua recensione su «Il manifesto» del dicembre 2016), che scrive di futuro per esaminare e puntare il dito sul presente, chiede ai suoi lettori un pieno coinvolgimento. E la nuova traduzione di Pozzi raggiunge pienamente lo scopo.
La struttura del periodo o della frase, non più ingabbiata dalla necessità di riprodurre le forme sintattiche anglosassoni, è stata resa più sciolta e aderente alla lingua colloquiale. Da una parte ritengo che non si sia voluto trascurare il gergo dei millennial cinesi, nel quale anche un giovane lettore italiano si può riconoscere ( cfr. ad es., «zio» sostituito a «nonno» nella esclamazione di un ventenne rivolta familiarmente al protagonista, p. 22; oppure «gli era preso un colpo» invece di «aveva sconvolto Lao Dao», facendo riferimento al costo spropositato della retta di un asilo, p. 11; o ancora «un po’ tonta» al posto di «dall’aria spenta!, riferendosi alla badante dei due vecchi genitori di Lao Ge, p. 51; infine la scelta, coerentemente applicata in tutte le sequenze del testo, di usare il «tu» informale nelle conversazioni non solo fra amici ma anche fra estranei, mentre la precedente traduzione preferiva il «lei» di rispetto).
D’altronde, la scrittura dei cosiddetti post-1990 (jiulinghou) a cui la scrittrice Jingfang idealmente appartiene fa uso dello slang (liyu), dove oralità, gergo ma anche linguaggio triviale si mescolano. E quindi la scelta di vivacizzare la traduzione è pertinente.
Nel lessico usato, poi, c’è un’altra novità, che attualizza il testo. Tutta la terminologia tecnologica ed economica è stata aggiornata. Gli esempi che riporto ne dovrebbero dare conferma.
«Discarica» sostituisce «impianto di riciclaggio dei rifiuti»; «netturbino» è usato al posto di «appartenente alla squadra di nettezza urbana»; «gas narcotizzante» meglio di «gas soporifero»; «differenziare» invece di «smistare i rifiuti»; «frequentava un master» per «era un laureato che studiava per specializzarsi»; così come «laurea» per «diploma»; «apparecchio per la traduzione simultanea» invece di «interprete»; «mero burocrate» invece di «quadro amministrativo di basso livello»; «ventiquattrore» al posto di «valigetta di lavoro»; «distributore automatico» per «macchinario»; «cellulare» per «telefono» e «applicazione per la navigazione satellitare» per «mappa»; «abilitato alla connessione» meglio di «autorizzato a scaricare»; «digitò» per «premette sulla carta»; «bip» per «segnale acustico»; «camice blu» in luogo di «ceto impiegatizio»; «badge» invece di «piccola spilla»; «economia verde» per «economia ecologica»; «risparmio energetico» per «conservazione energetica»; «economia del riciclo circolare» per «economia del riciclaggio globale e sistematico»; così come «impianti di rigenerazione» per «impianti di rilavorazione»; «trattamento dei rifiuti» per «riciclaggio dei rifiuti»; «assistenzialismo» in luogo di «migliorare la Previdenza»; «welfare» invece di «attuare politiche per proteggere il lavoro»; «video-call» al posto di «video chiamata»; «attivò gli auricolari» al posto di «alzò la cornetta»; «location del convegno» per «sede della conferenza».
La stessa rappresentazione della vita quotidiana semberebbe resa con maggior aderenza: le abitazioni della Seconda e Terza classe sono spesso dei «monolocali» più che degli «appartamenti»; i servizi sono forniti di «doccia» piuttosto che di «vasca da bagno»; si usano gli «assorbenti» al posto di «tamponi femminili»; al collo una ragazza si allaccia un «ciondolo» e non una «collanina»; per i muscoli irrigiditi non ci si «sgranchisce» ma si fa «stretching»; si dorme in un’abitazione con «climatizzatore» invece del tradizionale «riscaldamento».
Altri particolari mostrano la grande cura terminologica usata dalla traduttrice: la raffinata Yi Yan, la giovane donna a cui il protagonista Lao Dao deve consegnare la lettera e il dono dell’innamorato dello Spazio Due, indossa un paio di décolleté nere (nella traduzione precedente erano «scarpe nere dai tacchi alti»); le figure femminili che animano le strade della Pechino Due portano «foulard» intorno al collo piuttosto che «sciarpe» e hanno «borsette rigide dalla linea pulita» e non «borsette rigide e compatte». Inoltre i cibi, che di frequente protagonista e comprimari mangiano e a volte divorano, sono stati tutti tradotti in modo da rendere comprensibile al lettore italiano le loro caratteristiche culinarie: vermicelli di riso, spaghetti saltati, stracotto di maiale e non i loro corrispettivi cinoamericani: «chow mein» «chow fun», «maiale huiguo»; o ancora «spaghetti di lapi della Cina nordorientale», è stato sostituito con «fettuccine del Nord est»; «impasti di semola da Shangai» con «spugne di crusca di Shangai»; «carni affumicate» con «pancetta piccante dello Hunan».
Gli altri racconti del libro non hanno la stessa forza visionaria di Beijing zhidie, e qualcuno si avvicina più al genere fantasy che alla sci-fi. Mi ha convinto, in particolare, Cerere in volo, che racconta il destino di un pianeta nano dove si vive in armonia e serenità ma che per interessi politico-economici da parte degli abitanti di Giove, da cui dipende amministrativamente, viene destinato a una rischiosa missione esplorativa nel cosmo. I coloni di Cerere danno una dignitosa lezione di confuciana accettazione del proprio destino e collettivamente intraprendono il viaggio verso l’ignoto.
In qualche modo, la rappresentazione di questo corpo celeste, Cerere, mi ha ricordato l’unica altra raccolta della Jingfang finora tradotta dalla lingua originale in italiano: I pianeti invisibili. Si trova nella rivista online Caratteri, pubblicata nel 2015 da Foreign Languages Press Co. Ltd Beijing. La bella traduzione di queste 9 microstorie tra sociologia e fantascienza è merito di Cristina Codaluppi.
Il titolo è già un omaggio alle Città invisibili di Italo Calvino, autore tra i più noti e letti in Cina. La stessa cornice riprende l’idea di un dialogo, anche se fra personaggi non così famosi come Marco Polo e Kublai Kan, bensì un io narrante e la sua bambina. L’insieme cerca di avvicinarsi al modello calviniano, proponendo una serie di descrizioni ipotetiche di mondi alieni, con le cui tessere il lettore possa riuscire a crearsi una mappa dell’umanità e del nostro pianeta grazie alla quale sopravvivere.
Hao Jingfang, dunque, rivela una sensibilità particolare sulle disuguaglianze sociali e riflette senza pietismi sulla crudeltà della contraddittoria società in cui vive. Fra gli autori della nuova narrativa cinese è, però, l’esponente che in particolare testimonia con convinzione il bisogno di recuperare un rinnovellato umanesimo. L’essere umano con le sue capacità e vulnerabilità è sempre al centro delle pagine che scrive, pagine in cui si raccontano mutazioni, inquietudini e interrogativi che tutti noi ci poniamo. Qual è l’avvenire di una società se accetta supinamente di uniformarsi e preferisce le comodità materiali e una relativa sicurezza alla preservazione della sua libertà d’azione? Il mondo che sta nascendo sarà liberatorio o conservativo? Basterà la scienza a sciogliere tutti i nostri dubbi?
Per una mappa succinta che permetta al lettore di orientarsi sul complesso fenomeno letterario della fantascienza contemporanea cinese, rimando al mio intervento in tre parti pubblicato dal sito de «La ricerca»: qui il primo articolo.