Che cosa fare con i “nostri” miti?

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I miti ci interrogano, stupiscono o spaventano, e si scontrano con i valori del presente: è giusto continuare a leggerli in classe? Come possiamo affrontare quel nucleo di violenze e sangue racchiuso nei racconti del passato? Dobbiamo rassegnarci a rivisitarli o addirittura a bandirli dalla scuola? C’è un modo per affrontarli senza ipocrisie?
Gian Lorenzo Bernini, Apollo e Dafne, 1622-25, marmo (Roma, Galleria Borghese).

Qualche anno fa, la protesta di alcune studentesse della Columbia University contro la lettura in classe delle Metamorfosi di Ovidio ha dato voce a una questione che in Europa, la terra di quegli stessi miti, ha avuto poca eco. A creare disagio era l’analisi del mito di Apollo e Dafne, uno dei più letti e interpretati: la pur pregevole descrizione dei capelli che si trasformano in fronde, dei piedi in radici e via dicendo, è infatti il verbale di una tentata aggressione sessuale. Il dio Apollo, approfittando della propria autorità divina («Non sono un montagnolo io, […] Giove è mio padre!»), pensa che Dafne sia una ninfa a sua disposizione, la insegue senza il suo consenso, infine lei disperata invoca il padre, il dio-fiume Peneo, che scatena la metamorfosi salvatrice.
A essere messo in discussione a New York non fu tanto l’eurocentrismo culturale, ovvero la prevalenza, nei percorsi di studio, di autori bianchi eterosessuali imperialisti ecc. (questa è un’altra faccenda); le studentesse lamentavano che un atto brutale travestito da metamorfosi fosse presentato in maniera superficiale, senza i necessari strumenti culturali integrati nella didattica, specialmente se in presenza di chi quelle violenze avesse subìto o visto da vicino. Da allora nei programmi accademici, quando si affrontano testi e argomenti di questo tenore, si aggiunge un trigger warning, cioè una specie di avviso ai/alle naviganti, dispensati/e dalle lezioni che possano risvegliare in loro traumi.

L’aggressione sessuale è, per la verità, una delle innumerevoli declinazioni della violenza bruta presenti nei miti antichi: non si contano, specialmente nei racconti delle origini, i parricidi, i fratricidi, gli infanticidi. Che in Italia, fin dalla scuola media, attraverso le lezioni di «epica», vengono letti a ragazzi e ragazze insieme con le poesie elegiache di Antonia Pozzi o con i romanzi di Roald Dahl. Se però i vari tipi di omicidio e strage sono analizzati senza tanti giri di parole, sulle violenze sessuali calano spesso degli eufemismi fissati nella lingua scolastica e dei quali non ci si rende più conto.

Facciamo un esempio. I racconti della fondazione di Roma, come ha messo in luce il film Il primo re (2019), vantano una variopinta crudezza che nemmeno il creatore di Squid Game è riuscito a eguagliare. Gli storici che li riferiscono (Livio, Plutarco) ci presentano, in successione: le lotte per il trono di Alba Longa; lo stupro di Rea Silvia, una sacerdotessa vestale vincolata al voto di castità, da parte di un uomo (forse il dio Marte); il tentativo di infanticidio dei due gemelli così concepiti, Romolo e Remo, salvati dai pastori Faustolo e Acca Larenzia (forse una prostituta, la lupa, epiteto ingiurioso ancora ben vivo nella Sicilia di Verga); l’omicidio di Remo (forse un fratricidio); il ratto delle Sabine.

Pietro da Cortona, Il ratto delle Sabine, 1630, olio su tela (Roma, Pinacoteca Capitolina).

I delitti tra e contro i maschi erano lotte per il potere e, nel caso di Remo, avevano a che fare con probabili sacrifici umani nella fase premonarchica della storia di Roma. Quelli che invece riguardano le donne sono a tutti gli effetti «violenze di genere»: non portano all’uccisione della vittima, ma hanno come fine la sottomissione della o delle donne, colpite in quanto parte del genere femminile, nella loro sessualità, non per le eventuali funzioni professionali o politiche ricoperte.
Le figure di Rea Silvia e Acca Larenzia, inoltre, fissano le uniche due tipologie di donna che sembrano concepibili in questi racconti e nelle relative società: la casta (spesso violata) e la meretrice. È una tradizione che, nel mondo romano, prosegue ben oltre il mito, riguardando, per il primo tipo, Lucrezia e Cornelia, per il secondo Cleopatra, Messalina, Poppea. Come avrebbe scritto Simone de Beauvoir a proposito delle civiltà primitive, «idolo o schiava, non è mai stata la donna a scegliere il proprio destino».
Diciamo poi, una volta per tutte, che il ratto delle Sabine non è una vivace riunione tra vicini di capanne, ma un atto di assimilazione coatta, se non addirittura uno stupro etnico simile a quelli avvenuti nella ex-Jugoslavia negli anni Novanta. Raccontano gli storici che le Sabine furono «onorate» dai loro aguzzini e che accettarono di sottomettersi per evitare altri conflitti, ma questo non significa che, se avessero detto no, le cose sarebbero andate diversamente. E aggiungiamo che le parole «ratto», «seduzione», «conquista» di donne non sono altro che fastidiose coperture per quella rape culture così difficile da scardinare.
Basti dire che la serie di stupri subiti nel Seicento dalla pittrice Artemisia Gentileschi fino a poco tempo fa, anche in saggi accademici di vaglia, era presentata appunto come frutto della «seduzione» di una «ragazza lasciva» (non citiamo, per pietà, la fonte). È la solita beffarda colpevolizzazione della vittima, che «se l’è cercata» e che continua a patire l’onta della violazione dell’onore anche quando una verità giudiziaria ha condannato il maschio responsabile.

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come martire, 1615, olio su tavola (collezione privata).

A questo punto possono essere mosse (almeno) due obiezioni:
1) come affrontare argomenti tanto importanti e vasti con ragazzi e ragazze senza correre il rischio di turbarli/e?
2) è legittimo applicare ai testi di Livio & Co. le categorie culturali contemporanee (maschilismo, parità di genere ecc.)?
La prima obiezione è la più spinosa, soprattutto perché non tutti/e gli/le insegnanti si sentono pronti/e ad affrontare esplicitamente certe questioni, per di più in classi in cui quelle stesse violenze possono aver segnato la vita quotidiana. L’alternativa, però, sarebbe o non leggere i miti che ne parlano (e a ben guardare sono tanti, troppi!) oppure continuare a presentarli come delle fiabe con un po’ di sangue sparso qua e là e le bravate di quei vitelloni degli dèi o dei compagni di Romolo.
Si invoca tanto il contesto, e in effetti è questa l’unica strada per salvare i testi classici dall’oblio in cui qualcuno vorrebbe relegarli. Chiamare le cose con il loro nome, pur con le cautele del caso, è esattamente presentarle in un contesto: nel contesto storico originale (il rapimento violento delle donne di un’altra etnia frutto della pratica del matrimonio esogamico), ma anche nel contesto storico attuale (la mancanza di vero consenso, la violenza di genere). Citare qui la violenza sessuale non è un’indebita intrusione dell’oggi nello ieri: in qualunque società, di qualunque secolo – urliamolo! – uno stupro è uno stupro. Cambiano le connotazioni delle parole che lo identificano, le leggi per perseguirlo, il più o meno esplicito biasimo della collettività, ma il nocciolo dell’atto, le motivazioni che ne sono alla base, le conseguenze fisiche e psicologiche sulla vittima sono analoghe.

A questo proposito subentra la seconda obiezione: non dovremmo accusare i primi Romani e i loro storici di maschilismo, mentalità patriarcale o misoginia, perché quei comportamenti facevano parte delle consuetudini del tempo. Anche in questo caso ci si appella al contesto, il contesto sociale, etico e culturale, che andrebbe presentato in maniera neutra, senza condanne. Niente di più ottuso. In nome del presunto rispetto del contesto originario dovremmo allora presentare il colonialismo e il nazismo come fenomeni tutto sommato accettabili perché i loro sostenitori credevano nelle false teorie della razza e, poverini, non si rendevano conto delle conseguenze? Studiare la storia significa anche interpretarla e il nostro sguardo sul passato sarà sempre, inevitabilmente, un poco anacronistico. Questo non significa rassegnarsi ad accettare un sapere filtrato, non autentico; significa capire perché quelli che per noi sono valori imprescindibili, in un passato remoto o prossimo non lo erano.

Continuiamo dunque a citare i Marte, i Romolo e Remo, gli Apollo, ma chiamiamo con il loro nome quello che hanno fatto alle Rea Silvia, alle Sabine, alle Dafne.

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Johnny L. Bertolio

Si è diplomato alla Scuola Normale Superiore di Pisa e ha conseguito il PhD alla University of Toronto, dove ha maturato una variegata esperienza nella didattica dell’italiano. Attualmente collabora con Loescher come autore e redattore nell’ambito umanistico.

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