Il sottotitolo è scomparso nella traduzione – il memoir non ha mai goduto di particolare fortuna dalle nostre parti – ma bisogna essere grati a Bompiani per aver deciso di pubblicare un’opera che a distanza di trent’anni dalla sua apparizione, e pur essendo diventata una pietra miliare nella scrittura di sé nei paesi anglofoni, rischiava di rimanere sconosciuta in Italia.
La cornice del racconto è costituita da lunghe passeggiate che una figlia ormai matura e un’anziana madre fanno attraversando New York da un quartiere all’altro per andare a un concerto, a un museo, o semplicemente per riscoprire un angolo della città che, nella sua vitalità urbanistica e antropologica, si presta a rispecchiare la mutevolezza degli umori e delle stagioni della vita. Camminare consente alle due donne di confrontarsi, di ricordare, di far scorrere sul presente che le circonda il deposito di ricordi e di esistenza comune che le lega. Le passeggiate sono dunque, più che una cornice, il motore cinetico in senso tanto letterale quanto figurato, della narrazione.
Con un dispositivo dei più semplici, le chiacchiere tra madre e figlia (ripreso poi nel recente Mi chiamo Lucy Barton da Elizabeth Strout), Vivian Gornick racconta il meno neutrale e semplice dei rapporti. Mettendo in scena il racconto stesso nel suo farsi mentre passeggiano, Gornick usa le parole in una delle loro funzioni più ambiziose: quella di arrivare alla verità. Si tratta di una verità psicologica che l’autrice vuole afferrare rispetto a se stessa e alle proprie vicende familiari, e con tecnica impeccabile la lascia affiorare nel sovrapporsi dei racconti, dei punti di vista, delle sfasature temporali, delle rivelazioni brucianti, con cui la vita di un condominio abitato da sole famiglie ebree, nel Bronx, si dipana nella rievocazione a distanza.
Gornick è consapevole di costruire una saga al femminile, lo dichiara fin dalla prima pagina: “Ho vissuto in quel condominio dai sei ai ventun anni. C’erano venti appartamenti, quattro per piano, e me lo ricordo come un edificio pieno di donne. Degli uomini quasi non ho memoria. Ce n’erano tantissimi, ovvio – mariti, fratelli, padri – ma io mi ricordo solo delle donne”.
Se la società fuori, pur nell’emancipata America, è ancora del tutto improntata a valori e gerarchie patriarcali, la vita intima, quotidiana e familiare dell’autrice e delle persone che le ruotano intorno è costantemente alle prese con la definizione di un’identità femminile straripante nel voler stabilire le regole, straripante nell’espressione dei sentimenti, straripante nel giudicare tutti e tutto con un severo codice morale: una madre di origine russa, fiera di parlare inglese senza accento, fiera di essere ebrea e comunista. Accanto a una matriarca tanto imponente nel regno del dover essere, si staglia un’altra figura non meno importante, quella della vicina di pianerottolo, Nettie Levine, un’ucraina sposata a un ebreo, subito vedova, di una bellezza sensuale e disarmante, una seduttrice che conosce solo le regole dell’attrazione fisica e non crede a niente altro che a quelle. Fra questi due poli l’io narrante cresce e si tortura in un apprendistato alla vita e all’essere donna funestato dalla precoce morte del padre, dopo la quale, fra le pareti del piccolo appartamento del Bronx, la madre troneggia con il suo dolore monumentale e agglutinante.
Si potrebbe leggere il memoir di Gornick come la storia di un’emancipazione lunga tutta la vita, lunga tutto il libro, visto che nella pagina finale dopo che l’autrice ha rievocato un matrimonio fallito, due amori importanti vissuti con pienezza, una carriera professionale riuscita, siamo di nuovo fra le pareti di un appartamento, stavolta a Manhattan, e la madre chiede alla figlia: “Perché sei ancora qui? Perché non esci dalla mia vita? Non sono certo io a fermarti”. Ma ciò che Gornichk riesce a raccontarci è di più della storia di un amore madre-figlia prismatico e soggiogante, fondativo di qualsiasi altro rapporto con il mondo: è la possibilità di scegliere in modo diverso il proprio destino – non necessariamente come moglie o come madre –, possibilità che per la sua generazione diventa concreta, ed è una conquista epocale, che affascina anche la madre e le fa riconsiderare la propria esistenza sotto una luce diversa. In questo senso Gornick costruisce un’epica femminile: c’è una meta da conquistare, l’emancipazione e la scrittura come lavoro, ci sono nemici da combattere, i pregiudizi sociali, i propri demoni interiori, il senso di colpa di chi si è evoluto, e c’è un mondo da salvare, quello della madre che pur nelle sue numerose contraddizioni l’autrice ama e traghetta, tanto nelle passeggiate quanto nelle proprie pagine, come Enea porta sulle proprie spalle il padre Anchise, con infinita pazienza e amore.
Qualche anno dopo l’uscita di Fierce attachments di Gornick, Philip Roth ci ha consegnato il ritratto indelebile di un padre e della sua eredità in Patrimony. A true story (1991) tradotto nel 2009 da Einaudi: sarà ora interessante per i lettori italiani riallineare queste letture, e queste voci non dissimili nell’estrazione sociale e nella comune cultura ebraica newyorkese, eppure così profondamente diverse nel delineare il proprio stare al mondo in relazione al genere di appartenenza.