La passione secondo Carol Rama

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La mostra, visitabile dal 16 ottobre 2016 fino al 5 febbraio 2017 nelle sale della Gam di Torino, è la più grande retrospettiva a oggi organizzata sull’artista, scomparsa nel 2015.
Un ritratto di Carol Rama

L’esibizione, ideata dal Museu d’art contemporain di Barcelona e dal Musée d’art moderne de la ville de Paris, e curata da Teresa Grandas e Paul B. Preciado, dopo essere stata a Barcellona e a Parigi porta finalmente anche in Italia una raccolta di duecento opere datate fra il 1936 e il 2005, un insieme ragguardevole per quantità e varietà di tecniche nel lungo percorso di Carol Rama (che era nata a Torino nel 1918).

I curatori hanno preferito disporre le opere non in senso strettamente cronologico, ma assecondando la naturale tendenza dell’artista a scegliere specifici supporti in relazione a temi e materiali che andava esplorando e sui quali era solita elaborare vere e proprie serie di variazioni.

Le sezioni sono dunque quattro: gli acquerelli degli anni trenta-quaranta, i dipinti della breve fase di adesione al Mac (Movimento per l’arte concreta) degli anni ’50, i collages e le tecniche miste con un insistito uso del caucciù degli anni ’60 e ’70, la figurazione legata al tema della mucca pazza e al riuso di carte del catasto o fogli da manuale di disegno che contraddistingue gli anni ’90 fino al termine della sua carriera.

Siamo ancora lontani da un esaustivo censimento dell’intera opera dell’artista, in gran parte collocata in collezioni private, né ci si deve aspettare un assestamento definitivo della critica, anche se finalmente la mostra è di respiro internazionale ed estesa a tutta la sua carriera, dopo che Lea Vergine aveva portato all’attenzione del pubblico la produzione giovanile di Rama nella storica mostra milanese del 1980, L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, seguita dalla personale sempre a cura di Lea Vergine del 1985 e dalla mostra allo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1998 replicata poi a Boston negli Stati Uniti e dall’antologica alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo nel 2004.

Carol Rama, al di là delle sporadiche attestazioni fotografiche che la vedono in compagnia di nomi illustri del ventesimo secolo, Man Ray, Andy Warhol, Meret Oppenheim, ebbe una cerchia di estimatori e interlocutori piuttosto ancorata all’ambiente torinese: Francesco e Felice Casorati, Carlo Mollino, Edoardo Sanguineti, Paolo Fossati e i galleristi che ospitarono le sue mostre.
Donna, in una cultura egemonicamente maschile come quella italiana, anticonformista molto prima che esserlo fosse di moda, non ebbe un inizio di carriera facile: pare che la sua prima mostra di disegni e acquerelli, nel 1945, venisse censurata ancora prima di aprire.

Dentiere, scopini da cesso, pennelli da barba, pissoirs, scarpe, nudi femminili intenti a procurarsi piacere o a brandire aggressivi serpenti fuoriusciti da ani e vagine: c’era di che scandalizzare l’etica perbenista borghese, e ancora di più il sostrato fascista di una visione del mondo in cui la donna e il corpo potevano solo essere idealizzati come elementi della riproduzione e della perpetuazione etnica.

I primi acquerelli di Carol Rama, dai colori pastello morbidi e velati, rivelano un’attenzione vitalmente curiosa e critica verso le funzioni corporali, nella seria “Appassionata” e “Dorina” il corpo femminile mutilato o paralizzato su sedie a rotelle si scorpora dallo sguardo voyeuristico dei nudi maschili che lo circondano. Si può richiamare la lezione di Egon Schiele, ma il tratto di Rama è più morbido e meno caratterizzante in senso individuale al tempo stesso. Ciò che qualifica lo sguardo di Rama è piuttosto, come afferma Paul B. Preciado nel saggio in catalogo, la consapevolezza politica, assai precorritrice, dell’uso e della definizione sessuale dei corpi. Una frontalità che taglia la strada a qualsiasi tentazione morbosa. L’origine du monde di Courbet si riscatta dalla passività cui la relega lo sguardo del pittore francese negandocene la testa: le vagine di Carol Rama hanno testa e lingua, spesso più di una, a suggerire il riappropriarsi del desiderio, della corporalità anche quando questa è dolente, bassamente creaturale.

Un immaginario attento alla fisicità e alla sua traslazione simbolica che ritroviamo anche nella fase dei collages, dove occhi da tassidermista e da bambola, cannule vaginali e siringhe, fili metallici, pelo, unghie e denti di animali s’incuneano come punctuum visivo per l’osservatore in superfici trattate con la sapienza compositiva e la potenza coloristica già ravvisata negli acquarelli e nei dipinti della fase di adesione all’arte concreta, marcati da una visibile sensibilizzazione a Paul Klee.

Nella gomma di biciclette, camere d’aria e pneumatici, Carol Rama trova poi un elemento molto congeniale. Duttile ed elastica come la pelle umana di cui talvolta ha il colore, la superficie del caucciù può essere tirata, stesa, incollata, bucata e arricciata, o lasciata spenzolare come viscere, come membri maschili afflosciati. Nella serie Spazio più che tempo o in Movimento e immobilità di Birnam l’artista compone ampi quadri dove l’astrazione del segno è solo apparente, la materia protesica e mimetica della corporeità umana riaffiora e lega, ora in maniera tattile e tridimensionale, l’essere nel mondo verso cui Rama registra sempre una spinta vitale e al tempo stesso la consapevolezza di uno scacco inevitabile, di un’inadeguatezza fisiologica all’essere mortali.

  • xUn ritratto di Carol Rama – © PEPE fotografia – Artribune.
  • xCarol Rama e Andy Warhol nel 1975 © Dino Pedriali, Courtesy Artnet.
  • xCarol Rama, «Idilli», 1996.
  • xCarol Rama, «Nonna Carolina», 1936.
  • xLo studio di Carol Rama.
  • xL’esposizione al MACBA.
  • xCarol Rama, «Lusinghe», 2003, collezione Charles Asprey Londra, photo Andy Keate, Archivio Carol Rama.
  • xCarol Rama, «Bricolage», 1967.
  • xCarol Rama, «Bolle di vetro», 1939.
  • xCarol Rama, «Bisbigli», 2003, © Archivio Carol Rama, Roberto Goffi.

La poetica delle cose, dei tanti oggetti che affiorano nelle sue opere, come la definiva l’amico poeta Edoardo Sanguineti, è sua volta intrisa di ossessioni memoriali – il padre aveva una fabbrica di biciclette, lo zio una di attrezzi ortopedici, la madre un atelier di pellicce – ma ancora una volta il discorso che svolgono non è intimistico: anche con i titoli Rama suggerisce la presenza di uno sguardo politico su questi oggetti che sono merci, scarti dell’industria, rimossi della società e sono quello che sono – camere d’aria, occhi di vetro, animali scuoiati – ma sono anche il loro molteplice equivalente simbolico.

Il riuso di materiali, come gomme e sacchi postali, e la figurazione vera e propria si fondono nella serie che tiene impegnata l’artista negli anni ’90 del secolo scorso: La Mucca pazza sono io, dove l’artista compie un’immedesimazione con l’animale, colpita dalla malattia che fece sterminare centinaia di migliaia di bovini affetti da demenza in seguito all’ingestione di farine animali, un caso di autocannibalismo prodotto su scala industriale.

La gioiosa adesione che Rama dichiara all’animale, pazzo e condannato, è un ulteriore maschera della condizione umana: forse l’artista ci sta dicendo che solo la pazzia ci libera, a prezzo dell’autodistruzione, dai mostri che noi stessi produciamo e di cui ci alimentiamo.

Eresia, erotismo, sfrenatezza, trasgressione, i sostantivi che già Lea Vergine aveva selezionato per definire l’arte di Carol Rama non bastano ancora, e rimane valida la sua domanda: chi è Carol Rama?

Estranea al femminismo intellettuale o militante degli anni’ ‘60 e ‘70, con cui pure avrebbe potuto condividere molto, Carol Rama non è incasellabile in nessuna etichetta culturale di facile consumo. La sua esplorazione del corpo e della materia non è né femminista, né riconducibile a una cultura egemonica maschile, per questo la lettura transgender di Paul B. Preciado risulta, ora, promettente nel superare le dicotomie e le categorie maschile/femminile.

Rimane da circostanziare meglio la posizione di Carol Rama nella storia dell’arte e su questo terreno, come si diceva, molto dovrà essere fatto.

A distanza di più di trent’anni appare una scelta molto saggia da parte di Lea Vergine quella di aver inserito l’artista torinese nel gruppo delle pittrici e scultrici dell’antinovecento Valori Plastici, perché se c’è un punto fermo nella valutazione della sua arte è nel riconoscimento della capacità di assimilare e reinventare la tradizione, attraversando con baldanza e disincanto un secolo lunghissimo e accelerato come nessun altro prima.

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Alessandra Sarchi

Ha studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, laureandosi in storia dell’arte; ha poi svolto un dottorato di ricerca a Ca’ Foscari, Venezia. Ha lavorato alla Fondazione Federico Zeri di Bologna, occupandosi di catalogazione fotografica. Collabora con vari giornali e blog culturali. Con Einaudi Stile libero ha pubblicato due romanzi: «Violazione» (2012), «L’amore normale» (2014) e l’ultimo, «La notte ha la mia voce», uscito nel 2017.

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