Vite oscure di scienziate eminenti

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Tredici affascinanti biografie di scienziate per iniziare a tracciare una storia della scienza al femminile. Dall’ultimo numero de La ricerca, “STEM. Roba da ragazze”.

Quando mi è stato chiesto di partecipare alla stesura di un libro capace di raccontare storie di donne di scienza dimenticate o non adeguatamente ricordate nonostante le loro eccezionali scoperte, ho accettato all’istante. Il motivo è presto detto: se proviamo a riportare alla memoria i nomi illustri in cui ci siamo imbattuti nel nostro percorso scolastico studiando matematica, fisica, biologia o chimica, ci rendiamo conto immediatamente di come la quasi totalità degli scienziati a cui si fa abitualmente riferimento siano uomini.

Questo accade solo in parte perché, nei secoli passati, esistevano barriere di ordine sociale, psicologico e materiale che impedivano alle donne l’accesso stesso alle professioni scientifiche. In realtà, personalità femminili di spicco non sono affatto mancate nel mondo della scienza, e il fatto che se ne parli poco o nulla è semplicemente il sintomo del persistere di un tenace pregiudizio di genere.

Del resto, numerosi sono gli studi che dimostrano come ancora oggi, in Italia e nella maggior parte dei Paesi occidentali, esista una disparità tra scienziati uomini e donne in termini di numero di pubblicazioni, citazioni, premi assegnati e trattamento salariale; e la differenza risulta tanto più marcata quanto più si sale di livello. Non a caso, il raggiungimento di un’effettiva uguaglianza di genere è uno degli obiettivi dichiarati dall’Agenda 2030.

Solo di recente, anche a livello istituzionale, si è deciso di portare alla luce il tema del cosiddetto gender gap in ambito scientifico, e qualche tentativo di colmare le differenze si sta facendo.

Quando, con queste premesse, con Stefano Gianni ci siamo messi a fare ricerche per Vite oscure di scienziate eminenti, le sorprese non sono mancate: infatti, le donne capaci in passato di raggiungere in vari campi scientifici risultati assolutamente notevoli, ma il cui nome è sconosciuto ai più, sono molte più di quante credessimo, e comunque assai più numerose di quelle che un libro come il nostro sarebbe stato in grado di contenere.

Dovevamo decidere anche come trattare vicende già abbastanza note: quelle le cui protagoniste sono diventate simboli delle persecuzioni sofferte in passato dalle donne di scienza e quelle centrate su figure femminili capaci di spiccare in epoche e in contesti in cui le donne istruite non erano normalmente contemplate.

Pensiamo a Ipazia, eletta a simbolo della libertà di pensiero del mondo classico al cospetto dell’intransigenza misogina della mentalità del nuovo Cristianesimo trionfante. Oppure a Maria Gaetana Agnesi, trattata per la sua perizia matematica come una sorta di fenomeno, a dispetto della sua stessa volontà e della mentalità raziocinante e tendenzialmente egualitaria che si ritiene caratteristica del secolo dei Lumi, nel cuore del quale ella visse.

Abbiamo presto capito come la duttilità e la freschezza del genere biografico fosse ideale per far uscire le scienziate già note dallo stereotipo del quale risultavano prigioniere, rivelandone lati nascosti, e per esaltare la specificità e la grandezza delle loro sorelle meno conosciute, permettendo alle une e alle altre di comporre il racconto di una storia nuova, affascinante e per molti versi inedita nel suo insieme: quello della scienza al femminile.

Così abbiamo deciso di raccontare la storia di tredici scienziate, vissute fra il IV e il XXI secolo e scelte nell’una e nell’altra categoria sulla base dell’originalità dei loro contributi alla propria disciplina d’elezione e del fascino della loro parabola esistenziale. Abbiamo volutamente escluso dalla selezione figure come quella di Marie Curie, tanto celebrate dalla pubblicistica da diventare ingombranti e da finire per mascherare gli squilibri di genere presenti in ambito scientifico nella loro epoca.

Sono fisiche, matematiche, astronome, chimiche, e anche un medico – anzi, una medichessa: la mitica e sfuggente figura di Trotula de’ Ruggiero, capace, a Salerno e in pieno medioevo, di fondare l’ostetricia e la ginecologia come “specializzazioni” aventi una propria dignità all’interno del complesso delle pratiche sanitarie e del sapere ad esse sotteso.

Quasi tutte le scienziate eminenti della nostra galleria, nel loro percorso umano e professionale, si sono scontrate con una società che le riteneva inadeguate e le faceva sentire fuori posto. Si pensi che, nella progredita Europa, le Università non hanno aperto le loro porte alle studentesse fino all’inizio del XX secolo, e che anche negli anni successivi hanno stentato ad accogliere donne nel corpo docente e a riconoscere ufficialmente i risultati delle loro ricerche.

Disparati sono stati i loro rapporti con i maggiori esponenti del mondo accademico e della cultura “ufficiale”: abbiamo il caso di uomini di scienza di primo piano (come Carl Friedrich Gauss, Karl Weierstrass o Max Planck) che, dimostrando di possedere una mente aperta, di fronte a intelligenze femminili rare, sono stati in grado di superare i pregiudizi vigenti accogliendo allieve destinate a grandi cose; ma anche quello di altri noti scienziati (come Ernest Rutherford) che sono rimasti ancorati a un atteggiamento ostile o indifferente nei confronti delle colleghe donne proprio in quanto donne.

Molte di loro hanno potuto contare sul sostegno di una famiglia che credeva nell’importanza di un’istruzione ad alto livello anche per le figlie femmine, e che aveva gli strumenti finanziari per sostenerla: come Ada Lovelace, figlia di Lord Byron, che divenne la prima programmatrice della storia, prima ancora che fosse creata un’informatica basata sull’elettronica. Altre, come la matematica di epoca napoleonica Sophie Germain, hanno dovuto sfidare con caparbietà l’opposizione dei loro genitori alla carriera che si erano scelte.

Alcune, come l’astronoma Maria Winckelmann (scopritrice di astri e studiosa di fenomeni celesti), sono state costrette a combattere l’aperta misoginia di istituzioni che le volevano relegate a mansioni casalinghe; altre hanno potuto beneficiare della spinta rigeneratrice del movimento per i diritti civili, come la matematica Katherine Johnson, donna e nera, cresciuta nell’America segregazionista degli anni Venti e Trenta del Novecento, e arrivata a lavorare per la NASA (era lei a effettuare i calcoli sulla base dei quali volavano alcuni fra i primi astronauti nello spazio.

Soprattutto, però, raccontando queste storie, ci siamo accorti che tutte le scienziate prese in considerazione erano capaci di una dedizione assoluta e di una passione sconfinata per la propria disciplina, anche al di là delle difficoltà incontrate e dei torti subiti: Mileva Marić, la prima moglie di Albert Einstein, ad esempio, sapendo di avere poche chance di affermarsi autonomamente in quanto donna, accettò di mettere le proprie competenze di fisica al servizio del marito fornendo, senza ottenere alcuna visibilità, un apporto forse decisivo all’elaborazione degli articoli che nel 1905 trasformarono Einstein in una star.

La mite e stravagante Emmy Noether, che ad Einstein donò invece l’impalcatura algebrica necessaria a sostenere la Teoria della relatività generale, lavorò per molti anni nelle Università tedesche senza ricevere alcuna retribuzione, prima di essere costretta a emigrare, in quanto ebrea, dalla presa del potere da parte dei nazisti.

Rosalind Franklin, la “scienziata derubata”, la brillante chimico-fisica che contribuì in maniera decisiva alla definizione della struttura a doppia elica del DNA attraverso le sue scoperte poi utilizzate abusivamente dal gruppo di lavoro costituito da Wilkins, Watson e Crick, continuò a compiere studi sulla struttura dei virus fino a che la malattia, probabilmente contratta per via dell’utilizzo prolungato della tecnica della cristallografia a raggi X, gliene lasciò la forza.

Lise Meitner, che collaborò con i maggiori fisici del Novecento e grazie alla quale si arrivò alla scoperta della fissione nucleare, nonostante fosse stata proposta diverse volte per il premio Nobel, uscendo sempre sconfitta nel confronto con i colleghi maschi, non se la prese mai per i mancati riconoscimenti e si impegnò con modestia e costanza fino a un’età avanzata affinché le proprie ricerche sull’atomo trovassero un’applicazione in campo civile e non in ambito militare.

E Hedy Lamarr, nonostante la vita l’avesse condotta a diventare non una scienziata, ma una delle dive della Hollywood degli anni d’oro, coltivò privatamente la propria passione per la scienza fino ad arrivare a elaborare, negli anni Quaranta del Novecento, un sistema di trasmissione dei segnali radio che molti decenni più tardi sarà adottato dalla nascente telefonia mobile.

La mia speranza è che un po’ di questa contagiosa passione arrivi ai ragazzi, e soprattutto alle ragazze, che leggeranno questo articolo o il nostro libro; la passione e insieme la consapevolezza che in una formula, in un teorema, in una legge fisica o nella perfezione di un legame chimico – come realizzò fin da ragazza la matematica russa Sofia Kovalevskaya – ci può essere una bellezza capace perfino di regalare momenti di felicità.

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Laura Uva

neurobiologa, lavora da vent’anni come ricercatrice
presso l’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche.

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