Urss? No grazie, Putin sogna l’Unione Euroasiatica

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Vladimir Vladimirovic Putin ha più volte rassicurato l’Occidente di non aver alcuna intenzione di ricreare quella che fu l’Unione Sovietica. Gli basta essere il presidente – non per lavoro ma per destino come da lui stesso spiegato – di una Federazione Russa che per tornare a rivestire i panni di potenza globale deve risolvere complicati problemi interni e trovare una valida strategia per recuperare e mantenere l’influenza perduta nelle ex repubbliche sovietiche e non solo.

Il progetto di rimettere in pista una nuova versione dell’impero bolscevico appare oggi, in effetti, difficilmente realizzabile. Mosca ha innanzitutto bisogno di poter contare su una Federazione compatta ed efficiente. Su un paese che non poggi più la sua economia soltanto su gas e petrolio, ma che inizi a produrre e ad attrarre capitali stranieri. Per farlo occorrerà costruire le infrastrutture di cui l’immenso territorio ha bisogno, tamponare ed invertire il preoccupante calo demografico, snellire l’apparato burocratico di sovietica eredità, ridimensionare il fenomeno della corruzione e della criminalità organizzata, risolvere il conflitto a bassa intensità in atto da anni nella regione del Caucaso russo.

Alcune parti dell’ex impero sovietico sono irrimediabilmente perdute, se si sposta lo sguardo oltre i confini della Federazione. Parliamo dei paesi baltici – diventati oramai pienamente euroatlantici – e della Georgia, di fatto schierata al fianco dell’Occidente e profondamente ferita dalla guerra lampo del 2008 contro Mosca e dalla perdita effettiva di due porzioni del proprio territorio nazionale, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud.

Il resto delle ex repubbliche sovietiche, con diverse gradazioni di vicinanza/lontananza dal Cremlino, oramai non guarda più soltanto verso Mosca. E non ha nessuna intenzione di farlo. Si tratta di Stati con propri interessi nazionali e diverse opzioni per poterli soddisfare – leggi: altre potenze con interessi nelle varie regioni. Dove la Federazione Russa sta progressivamente perdendo anche quei legami culturali e linguistici costruiti nel periodo sovietico così importanti per mantenere alta l’attenzione verso le scelte del Cremlino.

Mosca, dunque, non pensa ad una nuova Urss russocentrica, ma a proporsi come potenza di riferimento eurasiatica per le ex repubbliche sovietiche e non solo. Un compito arduo che prevede alcune scelte obbligate, come riempire il vuoto geopolitico che si aprirà in Asia Centrale quando gli americani ritireranno definitivamente le loro truppe dall’Afghanistan. Un compito difficile ma necessario per tornare a contare nella regione e frenarne la rapida e incisiva penetrazione della Cina, al quale va aggiunto lo sforzo di bloccare l’avanzata euro-americana verso le frontiere occidentali della Federazione, soprattutto nel Caucaso meridionale e in Ucraina.

Per raggiungere quest’ultimo obiettivo, Mosca può contare su un governo che a Kiev è tornato a guardare con fiducia e interesse verso il Cremlino e sul presidio non solo armato delle due regioni autoproclamatesi indipendenti da Tbilisi, le citate Abkhazia e Ossezia meridionale. Mantenere smembrato un paese come la Georgia in odore di Nato e Unione Europea rimanderà a chissà quando il suo ingresso in Occidente.

Per cucirsi addosso l’abito di rinata potenza, Mosca ha intenzione di portare a termine il progetto di Unione Eurasiatica lanciato dal suo unico stratega il 4 ottobre scorso sulle pagine del quotidiano Izvestija. Per riscoprirsi ponte e centro di gravità geopolitica tra Europa e la frizzante regione dell’Asia Pacifico – quindi anche per le ex repubbliche sovietiche – Putin vuole unire un nuovo ed enorme spazio economico comune, un polo dinamico molto simile all’Unione Europea che un giorno potrà anche adottare una sua nuova moneta. “Per la prima volta dal collasso dell’Unione Sovietica”, spiega Vladimir Vladimirovic, “il passo iniziale è stato fatto per ripristinare i naturali rapporti economici e commerciali nell’ex spazio sovietico”. Affari dunque, e nessuna ideologia, per riaprire a Mosca l’imperiale giardino di casa e non solo.

Parlando del progetto appena descritto, il leader russo si riferisce al primo mattone fissato per la sua costruzione: quell’Unione doganale, entrata in vigore il 1 gennaio scorso tra Russia, Bielorussia e Kazakistan. Uno spazio economico eurasiatico di libero scambio che presto vedrà l’entrata del Kirghizistan (e più in là del Tagikistan, tra gli ex sovietici) e a settembre di un paese che con l’Urss non ha mai avuto a che fare: la “pacifica” Nuova Zelanda.

Ad anticipare la nuova adesione, tassello di prestigio che andrà ad accrescere la statura internazionale dell’Unione doganale perché di paese occidentale si tratta anche se agli “antipodi”, è stato il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. Il quale ha ricordato che il tutto accadrà durante il prossimo summit Apec di Vladivostok e che tra qualche anno a Wellington potrebbero seguire i paesi dell’Efta (Norvegia, Svizzera, Islanda e Liechtenstein) dopo la conclusione di negoziati già ampiamente avviati (iniziati nel novembre del 2010) e preceduti dal via libera dato dal rapporto del Joint Study Group messo in piedi da Russia ed Efta nel dicembre del 2007 .

Se l’entrata della Nuova Zelanda rappresenta gli interessi russi verso l’Asia-Pacifico, quella dei quattro paesi europei conferma la passione di Mosca per il Vecchio continente, il tutto nell’ampio quadro del progetto putiniano di Unione Eurasiatica. Ma l’attenzione russo-kazaka-bielorussa verso i paesi dell’Efta, e viceversa, si misura soprattutto sul rapporto che Mosca intende proseguire e sviluppare con Oslo e Berna. Due paesi strategici per gli interessi economici russi. Il primo, coinquilino delle fredde acque di quel Mar Glaciale Artico [carta] forziere di un favoloso Eldorado energetico ancora tutto da scoprire e sfruttare. Il secondo, ricco partner investitore e scrigno delle fortune di tanti oligarchi russi.

Dopo anni di dure battaglie e dissapori, Russia e Norvegia godono oggi di una fruttuosa cooperazione. Un rapporto ricucito due anni fa con l’accordo per la divisione della zona marittima a confine tra i due paesi nel Mar di Barents. Durata circa quattro decenni, la contesa territoriale ruotava intorno allo sfruttamento di circa 175 mila chilometri quadrati di acque pescosissime e ricche di idrocarburi. Nel 2010 Mosca e Oslo si sono accordate tracciando il confine che la zona in due parti pressoché equivalenti e decidendo di lavorare assieme all’esplorazione di giacimenti di gas e petrolio presenti a cavallo della nuova frontiera. Sempre in ambito artico, Russia e Norvegia hanno deciso in marzo di rafforzare la cooperazione politica e militare a dimostrazione di quanto sia necessaria ai due paesi la sicurezza e il controllo di una regione che rivestirà negli anni un valore strategico sempre maggiore.

Anche con la Svizzera il rapporto politico-economico non è mai stato così florido. La Confederazione elvetica è tra i principali paesi investitori di una Federazione russa carente di ogni tipo di infrastruttura, soprattutto in campo energetico. Mosca ha bisogno della conoscenza, dell’esperienza e dei mezzi delle aziende svizzere. Il presidente Medvedev è così il primo capo di Stato russo a recarsi in visita ufficiale in Svizzera, nel 2009. I progetti di modernizzazione del leader del Cremlino piacciono alle autorità e al mondo imprenditoriale elvetico. È la Russia questa volta ad essere vista come un Eldorado.

Berna segue una sua precisa strategia formulata nel 2006: puntare su accordi economici con i Brics, le potenze emergenti di cui Mosca fa parte. Ecco allora, nell’agosto del 2010, la firma del piano d’azione per la cooperazione economica tra i due paesi per il periodo 2011-2013, seguito dalla dichiarazione comune del luglio scorso per la modernizzazione economica. L’accordo promuove, tra le altre cose, investimenti e contatti economici tra Russia e Svizzera e alla firma del quale hanno assistito i presidenti dei due paesi, proprio per sottolinearne l’importanza.

Berna e le sue aziende potranno assistere gli sforzi russi tesi a sviluppare il settore energetico, nella costruzione di strade, porti e ferrovie. Potrà partecipare alla costruzione della Silicon Valley russa di Skolkovo, il cui presidente è Viktor Vekselberg – il magnate russo residente in Svizzera con partecipazioni nelle elvetiche Oerlikon, Sulzer e Zublin. Piccole e medie imprese svizzere parteciperanno alla costruzione delle infrastrutture necessarie allo svolgimento delle olimpiadi invernali di Soci del 2014, così come a quelle per i campionati mondiali di calcio in Russia del 2018 e di hockey del 2016, sempre ospitati da Mosca. Berna metterà a disposizione dei progetti russi di rinnovamento le sue conoscenze nel campo dell’ingegneria meccanica, delle nanotecnologie e in altri settori in cui la Russia è carente.

Per agevolare la penetrazione delle imprese elvetiche nella sconfinata Federazione russa, la Svizzera si è spesa più di qualunque altro paese affinché questa entrasse definitivamente nel Wto. A Berna è dovuto, infatti, il superamento dell’ultimo ostacolo posto sulla più che decennale corsa russa verso questo importante traguardo: il no della Georgia. La diplomazia svizzera è riuscita a mettere d’accordo due paesi che meno di quattro anni fa si erano resi protagonisti di una breve e sanguinosa guerra.

La presenza di Mosca nel Wto agevolerà le imprese svizzere nel mercato russo e darà una spinta ulteriore ai negoziati per l’adesione dei paesi dell’Efta allo spazio economico eurasiatico. Ma il compenso che la leadership elvetica chiede per il suo sforzo diplomatico è anche quello dell’appoggio russo per evitare di essere estromessa dal comitato esecutivo del Fondo monetario internazionale e per avere un ruolo produttivo nel G20, che il prossimo anno sarà presieduto proprio dalla Russia.

Mosca sembra aver scelto l’economia, lo sviluppo e l’interesse commerciale come armi per recuperare terreno nei confronti delle altre potenze planetarie e influenza in parte del perduto impero. Ovvero, per vestire i panni di principale e affidabile punto di riferimento eurasiatico. Nessuna riedizione di quella che fu l’Unione Sovietica: se la sua dissoluzione è stata secondo Putin la più grande catastrofe del XX secolo, pensare di ricostruirla, casomai con i carrarmati, sarebbe il maggior disastro strategico del XXI. Dell’impossibilità di realizzare un tale progetto – pure volendolo – il neopresidente russo è pienamente cosciente: perché altrimenti fermare nell’agosto del 2008 i suoi soldati alle porte di Tbilisi?

http://temi.repubblica.it/limes/urss-no-grazie-putin-sogna-lunione-euroasiatica/35550

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