Luciano Floridi, Professore Ordinario di Filosofia ed Etica dell’Informazione all’Università di Oxford, è un’autorità internazionale nell’ambito della filosofia dell’informazione. Già nel 1997 si era distinto in quanto autore di un breve libro introduttivo intitolato Internet, pubblicato da Il Saggiatore.
Tra i suoi incarichi più importanti, è Direttore del Digital Ethics Lab dell’Oxford Internet Institute, sempre all’Università di Oxford, è Turing Fellow e Chair del Data Ethics Group dell’Alan Turing Institute.
Nel 2014 ha attirato l’attenzione del pubblico su quella che lui presenta come una rivoluzione epocale, che renderà sempre più difficile distinguere tra vita on-line e off-line (La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, trad. it. di M. Durante, Raffaello Cortina, Milano 2017).
Dal 2011 è in corso di pubblicazione, presso la Oxford University Press, il capolavoro che lui stesso ha definito Principia Philosophiae Informationis. Si tratta di quattro volumi che, con sistematicità, sviluppano un vero e proprio sistema filosofico, rileggendo, alla luce della filosofia dell’informazione, i problemi classici dei principali ambiti della filosofia, dalla metafilosofia, all’ontologia, dalla gnoseologia, all’antropologia, fino all’etica. Il progetto è destinato a giungere, una volta ultimato, alla filosofia politica.
Sono appena usciti la traduzione italiana di parte del terzo volume: Pensare l’infosfera. La filosofia come design concettuale, trad. it. di M. Durante, Raffaello Cortina, Milano 2019, e il volume Il Verde e il Blu – Idee ingenue per migliorare la politica, sempre per Cortina, che è parte del quarto volume. Siamo onorati di averlo ospite de «La ricerca», per discutere di filosofia dell’informazione.
D: Professore, c’è un termine che sembra fare il paio con biosfera, cioè “infosfera”. Perché è utile questo neologismo? Cosa designa?
Luciano Floridi: Il termine circola da tempo. Io l’ho recuperato filosoficamente per parlare di due cose. Da un lato ci aiuta a definire l’ambiente in cui viviamo, fatto di informazioni, flussi di dati, interazioni con software e sistemi automatici, in un misto di analogico e digitale, e così via. In questo senso è un aggiornamento del vecchio termine “ciberspazio”. Qui l’utilità sta nell’abbandonare l’idea che ci siano spazi separati, come se l’infosfera fosse un luogo quasi alieno, diverso, innaturale, cioè “ciber”, in cui entriamo e usciamo come e quando vogliamo. In realtà, l’infosfera è l’habitat quotidiano per miliardi di persone, sempre di più, e sempre più comunemente. D’altro lato, ho usato il termine “infosfera” ontologicamente, per parlare della realtà in generale, in una metafisica che interpreta l’Essere in modo informazionale. Se, da un punto di vista informazionale, tutto può essere letto come fatto d’informazione (si pensi allo strutturalismo in filosofia della scienza), allora “infosfera” e “Essere” diventano co-referenziali. In questo caso, l’utilità sta nel poter presentare, con chiarezza e spero cogenza, una forma di Monismo relazionale che mi sembra più in linea con la nostra epoca: c’è solo un Essere, ma l’Essere è una rete (non un insieme di elementi, come mele nel cestino), in cui le relazioni costituiscono i nodi (le cose, che sono come le rotonde costituite dalle strade), con articolazioni (il molteplice) e trasformazioni (il divenire).
D: Lei ha coniato il termine onlife. Ce lo può spiegare?
Luciano Floridi: L’ho coniato per fare riferimento alla vita nell’infosfera, dove non ha più senso chiedere se si sia online oppure offline, connessi o non connessi. Si pensi a come il nostro cellulare ci geo-localizza continuamente, a come il nostro orologio misura le nostre attività fisiche, o al fatto che abbiamo a disposizione ogni informazione costantemente, solo a un click di distanza. La cucina è un luogo dove Alexa, o un orologio digitale che si aggiorna automaticamente con un segnale radio, convivono con sale e pepe. Come ho spiegato con una metafora, viviamo sempre di più alla foce del fiume, cioè onlife, dove chiedere se l’acqua sia dolce o salata (se si è online o offline) non ha senso, anzi significa non aver capito dove si è, perché lì l’acqua è salmastra.
D: Questi nuovi device – ha menzionato Alexa e gli orologi digitali – stanno cambiando la nostra vita. I cellulari, specie da quando sono evoluti negli smartphone, ci rendono sempre più reperibili ma anche, in qualche modo, ci forzano a essere a disposizione degli altri. Per fare un altro esempio, la facilità nella fotografia con gli smartphone consente la soddisfazione del desiderio di catturare l’attimo, ma rende anche difficile obliare l’evento. Stiamo insomma vivendo le gioie e le fatiche dell’infosfera. Verso dove stiamo andando? A cosa ci dobbiamo preparare?
Luciano Floridi: Si tratta di trasformazioni profonde, ma a volte anche difficili da percepire nella loro esatta natura. Prendiamo il caso della memoria e dell’oblio. Veniamo da un’esperienza millenaria, durante la quale il problema è sempre stato che cosa scegliere, preferire, selezionare, privilegiare affinché resti a “futura memoria”. Oggi sappiamo che, invece, il digitale si accumula come la polvere in casa, e la nostra cultura sembra sempre più una della cancellazione: che cosa rimuovere, editare, curare o semplicemente non registrare. Non è un passaggio lineare, da una cultura della memoria a una cultura dell’oblio, perché si aggiungono anche altre variabili, in particolar quella della fragilità della memoria digitale. In passato ho coltivato la passione per la storia della filosofia e nel corso di molti anni ho fatto ricerche e alla fine pubblicato un libro sulla tradizione manoscritta di Sesto Empirico. Ecco, quei manoscritti che ho consultato in tante biblioteche e archivi sparsi in Europa e negli Stati Uniti hanno una stabilità analogica che il digitale può solo invidiare. Le tecnologie diventano desuete, i supporti si smagnetizzano, il concetto di palinsesto ha una radicalità di riscrittura che nel caso del digitale e totale e spesso irreversibile. Sono felice di avere una copia cartacea delle mie tesi, perché so che quei floppy disk sullo steso scaffale sono ormai illeggibili. La vastissima memoria che stiamo accumulando è anche una memoria straordinariamente fragile. E questa dialettica tra memoria e oblio, tra quantità e fragilità di ciò che registriamo, è solo uno dei tanti aspetti della nostra vita culturale che il digitale sta trasformando. Per questo c’è tanto bisogno di una filosofia all’altezza delle nuove sfide: dobbiamo capire il presente in modo più approfondito per disegnare il futuro in modo migliore, non entrarci come se fossimo dei sonnambuli.
D: Si parla tanto di smartphone, di smartwatch, di sistemi intelligenti, insomma il tema dell’intelligenza artificiale è fondamentale per capire il mondo in cui viviamo. Quanto sono intelligenti le così dette “macchine intelligenti”? Soprattutto, la loro crescente intelligenza creerà in noi nuove forme di responsabilità?
Luciano Floridi: È vero, tutto viene etichettato come “smart” o come “deep”: deep learning, deep neural networks. Scherzando con i ragazzi a Oxford dico che noi non facciamo ricerca sull’ethics o sulla philosophy, quella la fanno tutti, noi facciamo ricerca sulla deep ethics e la smart philosophy.
Più seriamente, l’Intelligenza Artificiale (IA) è un ossimoro. Tutto ciò che è veramente intelligente non è mai artificiale e tutto ciò che è artificiale non è mai intelligente. La verità è che grazie a straordinarie invenzioni e scoperte, a sofisticate tecniche statistiche, al crollo del costo della computazione e all’immensa quantità di dati disponibili, oggi, per la prima volta nella storia dell’umanità, siamo riusciti a realizzare su scala industriale artefatti in grado di risolvere problemi o svolgere compiti con successo, senza la necessità di essere intelligenti. Questo scollamento è la vera rivoluzione. Il mio cellulare gioca a scacchi come un grande campione, ma ha l’intelligenza del frigorifero di mia nonna. Questo scollamento epocale tra la capacità di agire (l’inglese ha una parola utile qui: agency) con successo nel mondo, e la necessità di essere intelligenti nel farlo, ha spalancato le porte all’IA. Per dirla con von Clausewitz, l’IA è la continuazione dell’intelligenza umana con mezzi stupidi. Parliamo di IA e altre cose come il machine learning perché ci manca ancora il vocabolario giusto per trattare questo scollamento. L’unica agency che abbiamo mai conosciuto è sempre stata un po’ intelligente perché è come minimo quella del nostro cane. Oggi che ne abbiamo una del tutto artificiale, è naturale antropomorfizzarla. Ma credo che in futuro ci abitueremo. E quando si dirà “smart”, “deep”, “learning” sarà come dire “il sole sorge”: sappiamo bene che il sole non va da nessuna parte, è un vecchio modo di dire che non inganna nessuno. Resta un rischio, tra i molti, che vorrei sottolineare. Ho appena accennato ad alcuni dei fattori che hanno determinato e continueranno a promuovere l’IA. Ma il fatto che l’IA abbia successo oggi è anche dovuto a una ulteriore trasformazione in corso. Viviamo sempre più onlife e nell’infosfera. Questo è l’habitat in cui il software e l’IA sono di casa. Sono gli algoritmi i veri nativi, non noi, che resteremo sempre esseri anfibi, legati al mondo fisico e analogico. Si pensi alle raccomandazioni sulle piattaforme. Tutto è già digitale, e agenti digitali hanno la vita facile a processare dati, azioni, stati di cose altrettanto digitali, per suggerirci il prossimo film che potrebbe piacerci. Tutto questo non è affatto un problema, anzi, è un vantaggio. Ma il rischio è che per far funzionare sempre meglio l’IA si trasformi il mondo a sua dimensione. Basti pensare all’attuale discussione su come modificare l’architettura delle strade, della circolazione, e delle città per rendere possibile il successo delle auto a guida autonoma. Tanto più il mondo è “amichevole” (friendly) nei confronti della tecnologia digitale, tanto meglio questa funziona, tanto più saremo tentati di renderlo maggiormente friendly, fino al punto in cui potremmo essere noi a doverci adattare alle nostre tecnologie e non viceversa. Questo sarebbe un disastro. Ci sono due circostanze in cui un adulto parla come un deficiente: quando si rivolge a un neonato, e quando parla con Alexa. Il primo caso è giustificato dall’evoluzione, il secondo deve esser evitato dall’innovazione.
D: Di recente l’Oms ha parlato di “infodemia” riguardo alla diffusione di fake news sul Coronavirus. Sempre di più l’aumento di informazione genera insicurezza e timori. Come vivere la rivoluzione digitale non essendone sopraffatti e manipolati?
Luciano Floridi: Purtroppo l’eccesso d’informazione genera confusione. Se anche fossero tutte e solo informazioni corrette, la sovrabbondanza confonde. Si immagini di entrare in un bar dove dieci premi Nobel stanno tutti parlando insieme e a voce alta. Anche se tutti dicono cose ragionevoli e corrette, sarebbe difficile capirci qualcosa. C’è poi il fatto che il bar dell’informazione assomiglia molto di più a quello di Guerre stellari: non ci sono solo premi Nobel, ma manigoldi, imbroglioni, persone losche, bari, e anche tanta disinformazione. La soluzione è duplice. Si deve fare un po’ di pulizia, e per questo servono interventi socio-politici. Il bar da solo non si ripulisce facilmente. Fuor di metafora, servono regole e leggi ben fatte. Qui lo Stato e l’Unione Europea possono fare molto. E si deve preparare meglio tutti gli avventori. La formazione, la capacità critica, e un po’ di intelligenza nel capire che cosa vale la pena leggere o seguire, e che cosa è invece spazzatura, sono fondamentali, come saper attraversare la strada. Qui la scuola può aver un ruolo vitale.
D: La rivoluzione informatica sta cambiando la scuola. Non si tratta solo di disporre di nuove tecnologie e di avere un accesso facilitato alla conoscenza, si tratta forse soprattutto di affrontare nuove sfide educative. Ritiene che sia tempo ormai di ripensare alle priorità nell’insegnamento? In tal caso, quali passi andranno fatti, a suo giudizio?
Luciano Floridi: Credo di sì. Ho appena accennato al ruolo essenziale che la scuola può e deve avere nel preparare le persone a vivere bene onlife. Sarebbe anche utile se la scuola non fosse vista come una fase della vita (prima durante e dopo), ma come un’istituzione che accompagna tutta la vita, a latere. Oggi è ancora raro “tornare a scuola”. In realtà ci si dovrebbe “restare”. È la semplice idea della formazione permanente, dove il sistema scolastico, anche in collaborazione con il settore privato, potrebbe fare moltissimo. Quanto agli insegnamenti, dovremmo evitare di inseguire mode. Se oggi iniziassimo a discutere sull’insegnamento scolastico di Python (forse il più diffuso linguaggio di programmazione) non sarebbe un disastro, ma temo che non sarebbe la strategia migliore. Ricordiamoci che i tempi di trasformazione di un sistema educativo sono molto lunghi, dall’approvazione di una riforma, alla formazione degli insegnati, al loro impiego, passano molti anni. Se avessimo seguito le mode, oggi staremo insegnando, come competenza essenziale, html, cioè a fare pagine Web, qualcosa di cui non si sente molta necessità. In realtà, le priorità nell’insegnamento devono essere esattamente questo: prior, cioè anteriori e superiori a quanto richiesto dal mercato di oggi o di domani. Credo quindi che si debbano oggi insegnare sempre di più le varie materie non come fatti e informazioni (a questo ci pensa Wikipedia) ma come linguaggi dell’informazione. Dobbiamo insegnare alle ragazze e ai ragazzi a parlare, leggere, e scrivere i linguaggi della matematica e della storia, della musica e dell’informatica, della geografia e dell’economia, dell’arte e della chimica, della fisica e della letteratura, non solo la propria lingua madre (che è la lingua di tutte le lingue) e l’inglese. Se si conosce bene una lingua dell’informazione, in modo critico e articolato, non ha poi importanza quanto quella lingua evolva negli anni successivi, si resta un buon parlante, che sa esprimersi, e sa capire e comunicare in quella lingua. L’aggiornamento è semplice. Ogni linguaggio appreso, che abbiamo fatto nostro (in inglese si usa la bella espressione essere conversant con una disciplina), sarà un limite rimosso alla nostra capacità di essere protagoniste e protagonisti nella società dell’informazione. Per esempio, se non so leggere e scrivere il linguaggio della statistica o dei mass media, quei due mondi mi saranno sempre esclusi come attore, non solo da un punto di vista lavorativo, ma anche da un punto di vista socio-politico, perché sarò sempre al massimo solo un utente passivo, dipendente dalle competenze e dalle decisioni altrui. Per semplificare, bisogna insegnare a scrivere e correggere le voci su Wikipedia, non solo consultarle.
D: Proprio sul non dover inseguire la moda del momento si stanno misurando due sensibilità: quella dei novatori e quella dei conservatori, gli uni aperti e affascinati dal nuovo, gli altri legati alla tradizione e ai suoi valori. Cosa salverebbe della scuola tradizionale? E la filosofia?
Luciano Floridi: Credo che si possa conciliare innovazione e conservazione puntando su due fattori. Da un lato si dovrebbe far leggere molto di più i classici. Su questo spero che tutti possano essere d’accordo, almeno come orientamento generale. Se facciamo tradurre Tacito, o interpretare Dante, sarà bene far studiare Platone, Aristotele, Cartesio, Kant o Wittgenstein direttamente, sui loro testi, anche perché in molti casi i filosofi si sono sforzati di parlare a tutte le persone, in modo essoterico. D’altro lato, e mi accorgo che questo può essere più controverso, si potrebbe abbandonare l’insegnamento storicistico, per rivalutare l’insegnamento teoretico. Avere manuali per la scuola in cui i capitoli si intitolino metafisica, etica, filosofia politica e filosofia del diritto, epistemologia, filosofia del linguaggio, filosofia della mente, logica, filosofia della scienza e così via sarebbe bellissimo e permetterebbe alle studentesse e agli studenti di farsi veramente un buon quadro delle questioni filosofiche importanti e della strumentazione concettuale di cui c’è bisogno per affrontarle. Capirebbero che non è vero che la filosofia non risolve mai niente, ma che invece essa identifica e raffina le domande fondamentali che via via hanno preoccupato l’umanità nel corso della sua storia, per offrire uno spettro di risposte che, come le domande, evolvono con l’evolvere dell’umanità ma restano sempre aperte intrinsecamente al dibattito informato, ragionevole, e urbano. Potrebbero sviluppare un modo di pensare filosofico che guarda alle domande e alle risposte e a come si legano tra loro, non acquisire una competenza enciclopedia su chi ha detto cosa. Sarebbe un modo di insegnare filosofia che andrebbe d’accordo non solo con le discipline umanistiche, ma anche con quelle scientifiche. La filosofia a scuola potrebbe tornare a essere la padrona di casa di quel sapere che non conosce barriere, ma che ospita tutte le discipline, dando il benvenuto a tutti gli sforzi fatti dalla mente umana per capire qualcosa di più dei misteri che lo circondano. È di questa filosofia che c’è tanto bisogno oggi, anche per essere all’altezza delle sfide poste da digitale.