Docente di Storia contemporanea all’Università Roma Tre, autrice di documentari per Rai Tre (tra cui uno, recentissimo, su don Milani), Vanessa Roghi si è occupata già in passato della storia attraverso il punto di vista del ruolo e dell’attività degli intellettuali, di preti e donne in particolare, come dimostra l’edizione delle lettere di don Giuseppe De Luca e Romana Guarnieri (Tra le stelle e il profondo – carteggio 1938-1945, a cura di Vanessa Roghi, Morcelliana, Brescia 2010).
Tuttavia, non bisogna pensare che questo suo libro, appena pubblicato da Laterza, vada relegato nello scaffale dei volumi di storia del Novecento, né che interessi soprattutto o esclusivamente gli storici di mestiere. Il libro di Roghi, diciamolo chiaramente fin dal principio, è innanzitutto un libro sul 2017, l’anno della scomparsa di Tullio De Mauro, del cinquantesimo anniversario della pubblicazione di Lettera a una professoressa, dell’ascesa a Barbiana di papa Francesco, ma anche l’anno delle polemiche sul declino della lingua, della riforma dell’esame di Stato alla fine del primo ciclo e dell’introduzione della certificazione delle competenze.
L’autrice, che si definisce una “storica del tempo presente”, percorre a ritroso le vicende di don Milani e delle sue opere per ricostruire la genealogia di alcune idee che sono divenute moneta corrente – se non facili stereotipi – nel dibattito di questi ultimi anni, mesi, settimane: il donmilanismo, certo, ma anche il rodarismo, per citare due neologismi nati per mettere alla berlina l’idea di scuola democratica, inclusiva e antinozionistica che alcuni neoconservatori additano come la colpevole di tutti gli odierni mali della scuola e, quindi, della società italiana contemporanea.
Come se davvero la scuola italiana di oggi, quella stessa scuola che ha istituito il tempo pieno e abolito le classi differenziali (1971), che ha introdotto nella vita della scuola una rappresentanza dei genitori, del personale ATA e degli studenti (1974) e che poi, dopo aver prodotto e applicato i nuovi programmi del 1979 (scuola media) e del 1985 (scuola elementare), nel 1990 ha eliminato la figura del maestro introducendo una pluralità di insegnanti, fosse peggiore della scuola precedente, quella dei primi vent’anni dell’era repubblicana, o, addirittura, di quella fascista.
Come se la scuola italiana repubblicana e democratica fosse davvero in costante declino, e come se la responsabilità di questo declino – alla cui rappresentazione sociale contribuiscono ogni giorno polemisti di destra e di sinistra, indifferentemente – fosse da attribuire, appunto, a Lorenzo Milani, e poi a Gianni Rodari, a Tullio De Mauro e a tutti coloro che si sono impegnati, a volte con una dedizione totale, nell’ideazione, nella sperimentazione e nella diffusione di pratiche didattiche capaci di gestire il cambiamento della società contemporanea.
Come se le pratiche didattiche sperimentante da don Milani e, ancor più, da Gianni Rodari, da Mario Lodi o dai docenti del Giscel avessero davvero attecchito in tutto il Paese, in tutte le scuole e in tutte le classi italiane, e non fossero invece il patrimonio di gruppi sparuti di docenti che hanno tentato di fare del loro meglio per rendere la loro scuola e la loro aula un ambiente educativo degno di una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Il libro inizia dalla Costituzione. Dall’articolo 3, per la precisione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono [e non impediscano] il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Un articolo all’indicativo, come già aveva notato Tullio De Mauro e come avevano voluto i Costituenti, perché «gli ostacoli ci sono: eccoli lì, si vedono, non sono eventuali», scrive Vanessa Roghi, e sono «la miseria, materiale e culturale», che hanno origini lontane ma che sono anche causate, al tempo della stesura della Costituzione, dalle recentissima guerra e da vent’anni di dittatura fascista.
Ma se nel primissimo dopoguerra l’Italia sembra credere alla necessità e alla possibilità di rimuovere quegli ostacoli, nel 1948, con la vittoria della Democrazia cristiana e l’estromissione delle sinistre dalla compagine governativa, il Paese sembra aver “ripristinato il congiuntivo”. Dovranno passare molti anni prima che si arrivi alla legge sulla scuola media unica (1962) e all’abolizione dell’avviamento, che di fatto imponeva agli alunni di scegliere tra studio e lavoro fin dall’età di undici anni, alla fine della quinta elementare.
Nell’ottobre 1947 don Lorenzo Milani è nominato cappellano del parroco di San Donato di Calenzano, nella diocesi di Firenze. Qui avviene la sua conversione pedagogica: colpito dalla superficialità superstiziosa dei fedeli, i quali, pur frequentando la chiesa e il catechismo, non sono in grado di leggere e discutere i Vangeli, decide di fondare una scuola popolare serale per i giovani operai e contadini della parrocchia. Il “cattolico israelita” don Milani – secondo la definizione che di lui ha dato De Mauro – «col rigorismo intellettuale talmudico rabbinico e col profetismo della tradizione israelitica», comincia qui, a venticinque anni d’età, dopo un percorso scolastico poco brillante e disorientato seguito da una conversione religiosa fulminea e irrevocabile, un cammino di ricerca che lo porterà, nel giro di vent’anni, a divenire uno dei guru inconsapevoli del Sessantotto e oggi, dopo che ne sono passati settanta, un candidato alla santità.
Il primo e forse principale prodotto del suo percorso di ricerca è il libro intitolato Esperienze pastorali, pubblicato dalla Libreria Editrice Fiorentina nel 1958 e quasi immediatamente ritirato dal commercio per ordine del Sant’Uffizio. Si tratta, nota Federico Ruozzi nella sua edizione critica, del “primo e unico libro firmato da don Lorenzo Milani”: una vera e propria inchiesta sociale – una “etnografia della pietà popolare”, secondo la definizione di Roghi – scritta per comprendere ma anche per dare un senso a un’attività di evangelizzazione che presto ha dovuto prendere la forma di una scuola popolare, un percorso di alfabetizzazione reso necessario dalla presenza concreta di quegli “ostacoli di ordine economico e sociale” (analfabetismo, distribuzione disuguale delle risorse, disoccupazione) che di fatto “impediscono il pieno sviluppo della persona umana” e che vanno rimossi per realizzare, insieme a una comunità cristiana, anche una repubblica democratica.
Si legge nella prima parte delle Esperienze pastorali:
[…] nel giovane d’oggi c’è tutto uno stile che mi è estraneo: parla di sport e di cine senza domandarsi gli ultimi perché di interessi così insignificanti. Non vuol parlare di politica né di sindacato per non far fatica interiore. Parla della donna e della futura moglie solo col criterio sensuale. Vuol ignorare il dolore e la morte, considera prodezza l’arrischiar per gioco la propria e l’altrui vita sui motori. Parla del denaro come del bene supremo. Attende da una vincita al Totocalcio la soluzione di ogni problema. Considera il divertimento un diritto essenziale, anzi un dovere, una cosa sacra, il simbolo della sua era.
In conclusione, un forestiero, un sordomuto anche per me.
Non c’è nulla di più opposto alla fede di questo stile.
Su queste premesse, su queste fondamenta, non si può murare.
Ebbene, tutto questo mondo che pare così diverso da quello degli analfabeti di montagna, è invece secondo me tutt’uno e soffre del medesimo male: vacuità intellettuale e culturale.
Si crogiola in cose inutili solo perché non ha gustato pasto migliore.
[…] ebbene, a me pare che qui a S. Donato non ci sia sostanziale differenza di premesse. Prima che ci fosse la Scuola Popolare, mancava anche qui come là un substrato solido su cui fondare un discorso più alto.
Là ciò che mancava era addirittura la lingua degna di un uomo. Anche qui in parte, mancava la lingua, ma soprattutto mancavano gli interessi degni di un uomo.
L’una e gli altri si sono potuti creare solo con la scuola.
E perciò la scuola mi è sacra come un ottavo Sacramento. Da lei mi attendo (e forse ho già in mano) la chiave non della conversione, perché questa è segreto di Dio, ma certo dell’evangelizzazione di questo popolo.
È in questo contesto che nasce, in don Milani, l’esigenza di mettere al centro del suo lavoro pastorale la parola, il linguaggio, le competenze linguistiche che rendono le persone padrone di sé e membri attivi di una società. E uno dei meriti di La lettera sovversiva è proprio l’aver ricollocato Esperienze pastorali al suo posto nell’evoluzione del pensiero di don Milani e nella storia della letteratura e della società del Novecento.
Vanessa Roghi, che rivendica per sé e per la sua categoria la possibilità di raccontare la storia in prima persona, è interessata soprattutto a mostrare cosa, della lezione di don Milani – tramandata attraverso le opere sue e della Scuola di Barbiana, vero e proprio collettivo di studenti-autori, ma anche attraverso la testimonianza diretta di quanti, dopo la pubblicazione e la fama di Esperienze pastorali, sono andati a vedere coi loro occhi quell’esperienza educativa, – è davvero rimasto negli anni successivi, quali effetti ha avuto nella storia del Paese, sulle sue idee e sulle sue istituzioni.
Quando ero bambina a scuola il tempo pieno era un fatto nuovo. Ricordo una zia che mi spingeva ad andare a messa, ché non ero neanche battezzata, ed era preoccupata che al tempo pieno non si facessero i compiti. Che al tempo pieno non si facessero i compiti era una preoccupazione tutta inventata, alla scuola tradizionale dava fastidio la sola idea del doppio maestro, delle attività pomeridiane. Alla scuola tradizionale non andava giù il tempo pieno.
In questa scuola – siamo a Grosseto nel 1977 – c’è un sezione, la C, per i bambini di un quartiere più povero, situato all’estrema periferia della città. E c’è una maestra, la maestra di Vanessa, che si era formata grazie al dibattito sulla scuola degli anni Sessanta, “il movimento naturale di una Repubblica che anno dopo anno cercava, grazie al lavoro di tanti insegnanti, di rendere concreto il dettato costituzionale, magari facendo più attenzione alle condizioni di partenza e non al merito”. Questa maestra, ci vuol dire l’autrice, non è il frutto maturo dell’insegnamento indiretto di don Milani – il cui impatto effettivo sulla scuola degli anni Settanta va anche ridimensionato – ma di un più ampio contesto culturale nel quale vanno sicuramente inseriti Mario Lodi (a cui lo stesso don Milani deve molto, proprio per le sue esperienze di scrittura collettiva), Gianni Rodari, Bruno Ciari e poi ancora De Mauro, il Giscel e i tanti gruppi di insegnanti che si organizzano, studiano, conducono inchieste, e, infine, Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino e gli altri intellettuali italiani che in quegli anni hanno rimesso al centro del dibattito la questione della lingua.
Dal 1954 al 1967 don Lorenzo Milani vive e opera a Barbiana, il piccolo borgo del Mugello nel quale abita con alcune decine di famiglie che gli affidano i figli, prima per fare doposcuola, come a San Donato, poi, dal 1956, per frequentare una vera e propria scuola di avviamento professionale con indirizzo industriale e infine, dal 1963, per affrontare da privatisti quella scuola media unificata che respinge nei campi gli studenti giudicati meno meritevoli.
L’esperienza della scuola di Barbiana – guardata sempre con sospetto dalla diocesi fiorentina, che nonostante le insistenze di don Lorenzo eviterà di riconoscerne il valore – diventa famosa in Italia e nel mondo anche grazie alla scrittura e alla pubblicazione, nel 1965, di un testo scritto dal maestro coi suoi allievi: Ai cappellani militari che hanno sottoscritto il comunicato dell’11 febbraio 1965, che gli costerà una denuncia per aver sostenuto le ragioni dell’obiezione di coscienza, un processo e una condanna postuma per apologia di reato.
Don Milani, ammalato di leucemia fin dal 1960, è impegnato indefessamente nel suo lavoro educativo, che dura dalla mattina e alla sera e che richiede, tra l’altro, una continua opera di scrittura epistolare, utile a tenere i contatti con tutte le persone che possono avere qualcosa da insegnare ai suoi ragazzi e, anche, a trovare una loro sistemazione all’estero per esperienze estive di lavoro, fondamentali per l’apprendimento delle lingue straniere.
Lettera a una professoressa, pubblicata poco prima della sua morte, è il frutto più maturo del suo lavoro, sintesi perfetta dell’incontro tra un maestro coi suoi allievi, gestito grazie alla mediazione dello strumento più potente che conoscono: la lingua scritta. La lingua, scrive don Milani nel 1962, è l’ostacolo che ha trovato nel suo percorso di vita, durante la sua esperienza pastorale, e alla sua rimozione si è dedicato con tutta l’energia che ha avuto. Sempre pensando – è importante tenerne conto – di agire non per il bene di tutti, ma per quello dei suoi ragazzi e delle sue ragazze, proprio loro, esattamente quelli lì, quelli che per caso sono capitati sulla sua strada e ai quali decide di voler bene.
Ma la Lettera a una professoressa, subito dopo la morte di don Lorenzo, diventa il “libretto rosso di una generazione”, usato e brandito come un «libretto di aforismi piuttosto che come un modello di analisi da seguire» (p. 150). Ed è qui che la lettura del libro di Roghi si fa più avvincente – anche grazie a una capacità di montaggio narrativo da ricondurre senz’altro all’esperienza di documentarista e culminante nel sincopato finale del capitolo 9, intitolato Santo santino impostore, o del “donmilanismo”.
Don Milani inspiegabile, imbarazzante, santo, ma anche impostore, folle e pericoloso.
L’opera di demolizione di don Milani e della Lettera a una professoressa inizia negli anni Sessanta e non è mai terminata; ma se – in particolar modo dopo la pubblicazione delle Lettere – sono soprattutto riviste e quotidiani di destra a stroncarlo, a partire dagli anni Ottanta sempre più numerosi sono gli attacchi al priore di Barbiana e alla sua idea di scuola condivisi da intellettuali che si percepiscono come di sinistra o quanto meno progressisti.
Infine, dalla lettura di questo saggio si ricava l’impressione che sulla scuola italiana e sulla sua storia ci sia ancora molto da dire, oltre che da fare. Soprattutto, emerge con forza la necessità di ripartire dalla serietà e la severità del metodo di ricerca (in questo caso rigorosamente storico, ma potrebbe essere sociologico, filosofico, pedagogico), per sgombrare il campo dalle scorie lasciate da anni di narrazioni tossiche fondate sul disprezzo dei dati forniti dalle inchieste e dalle ricerche, dall’impressionismo e dall’approssimazione.
In questi stessi giorni, mentre in molti sembrano distratti dai problemi delle prove di latino e greco all’esame di Stato, dell’alternanza scuola-lavoro e dell’avversione nei confronti delle “competenze”, sarebbe invece utile fin da subito rimettere al centro alcune questioni sollevate alla fine degli anni Sessanta e mai davvero risolte, tra cui mi piace indicare:
– l’obbligo scolastico, prolungato a dieci anni senza aver riconfigurato l’impianto della scuola e, soprattutto, senza essersi resi conto che il primo biennio della scuola secondaria di secondo grado ha modificato (deve modificare!) il suo ruolo, il suo mandato sociale, e non può e non deve essere usato ancora oggi per selezionare gli studenti;
– le ripetizioni, vero specchio del rapporto tra scuola e famiglia, tra insegnamento e compiti a casa, e ancora oggi, come ha ben evidenziato Christian Raimo nel suo Tutti i banchi sono uguali (Einaudi, Torino 2017), uno dei peggiori sintomi e cause della disuguaglianza;
– la lingua, la lingua e ancora la lingua, oggi inscindibile dal problema dell’abuso di media e delle competenze digitali.
Nel frattempo, mentre studiamo da riformisti, ci accontentiamo, noi insegnanti-ricercatori, di aver trovato in questa “storica del tempo presente” una nuova compagna di strada.
[Foto e didascalie sono tratte da L’archivio don Lorenzo Milani della Fondazione per le scienze religiose di Bologna. Cronistoria di carte e ricerca, di Federico Ruozzi.]