Non sono cresciuto con un’idea alta o particolarmente prestigiosa della letteratura. La letteratura, per me e per coloro con cui ho condiviso il mio percorso di formazione, non ha rappresentato uno strumento di redenzione o d’innalzamento sociale, ma non è stata neppure, com’era per molti, un corpo estraneo, un nemico da frequentare solo nelle aule scolastiche o, peggio, un genere di consumo disponibile tra i tanti sul mercato. Nella mia esperienza umana la letteratura, prima di diventare un ‘mestiere’ – un mestiere anomalo, s’intende, che deve sporcarsi molto prima di dare un reddito – è stata ed è una semplice esperienza sociale con la quale dover fare quotidianamente i conti.
Un individuo entra in rapporto, attraverso l’atto della lettura, con l’espressione di un altro individuo per realizzare un incontro che ha l’effetto immediato di mettere in discussione le conoscenze del lettore, selezionandole, mettendole alla prova, modificandole. Che avvenga nel chiuso di una stanza, in una biblioteca o in un’aula scolastica, la lettura rimane sempre un’attività eminentemente sociale, in cui un individuo accetta di incontrare l’alterità, la diversità, l’estraneità di una pagina scritta.
Che io legga un testo antico o moderno, italiano o straniero, nel momento in cui cerco di comprenderlo, attivando le mie abilità e conoscenze linguistiche, metto in gioco la parte più relazionale di me. Perché è con la lingua e nella lingua che io penso e parlo, è con la lingua e nella lingua che io vivo la mia vita sociale e costruisco la mia identità. Analogamente, quando intraprendo una qualsiasi scrittura, mi muovo nel sistema sociale che è la lingua stessa, e attraverso di essa instauro una comunicazione a distanza, in differita. Comunico col mio futuro lettore, e sono costretto a immaginarlo, a immaginare gli effetti del mio scritto su di lui: costruisco, insieme al mio testo, il mio lettore, il lettore così come io lo penso. E scegliendo di adottare, per esprimermi, la lingua scritta, accetto di comunicare non solo con il destinatario ideale del mio testo, ma anche con chi prima di me ha scritto, coi miei modelli e con gli antimodelli, con altri scrittori e testi che conosco e con altri che non conosco ma che il mio lettore (un lettore concreto che leggerà la mia lettera, il mio libro) riporterà alla mente coinvolgendoli nella sua lettura.
Si è molto parlato, in questi ultimi decenni, di intertestualità, finendo per dare a questo termine un valore astratto e astraente. S’intende per intertestualità la rete infinita di rinvii e richiami da un testo a un altro, fino a immaginare una sorta di ragnatela onnicomprensiva che sorvola la realtà, di fatto escludendola. Ma il rapporto tra i testi, per quanto esso sia teoricamente infinito e vertiginoso, è incarnato nell’esperienza dell’autore o in quella del lettore in quanto uomini in carne e ossa, dotati di una memoria, di un bagaglio di esperienze prima che di un efficace sistema sensoriale.
La cosiddetta “morte della letteratura”, con queste premesse, non si dà se non nei termini di morte della lettura e della scrittura. Non sono possibili visioni apocalittiche, così come non sono ammesse nostalgie, rimpianti o azzeramenti, cancellazioni. Perché solo le psicosi hanno un simile potere, e noi possiamo anche, da intellettuali raffinati, mimare le psicosi, ma non possiamo poi, da uomini, viverle per finta. Non senza l’aiuto della chimica. Ma questo mi pare che sia proprio un altro discorso.
Leggere, scrivere, fare della critica letteraria, sono attività sociali prima che filosofiche o scientifiche. Sono esperienze condivise, incontri che suscitano altri incontri. Anche per questo motivo non credo di fare un lavoro molto diverso da quello mio di letterato quando scrivo un libro sul ruolo e l’identità del volontario nell’attuale situazione sociale e politica, oppure sull’agricoltura urbana e sociale, o quando gestisco le attività di una rete di associazioni che si occupano di microcredito, di tossicodipendenza, di nuove povertà, di adozioni internazionali, ecc. Né tantomeno credo di distrarmi dal mio ruolo d’insegnante, di lettore, di saggista, di ‘animatore culturale’ (se è lecito usare un’espressione tanto abusata e ormai riconducibile soprattutto agli organizzatori di sagre e di “eventi”), quando scrivo per La ricerca, prendendo parte a un progetto che si basa semplicemente sulla fiducia negli autori e sulla loro capacità e il loro desiderio di coinvolgere i lettori.
Senza compiti e argomenti prefissati, con l’intenzione esplicita di favorire la discussione per poi andare a vedere dopo, a cose fatte, se ha prodotto qualche cambiamento.
Mi pare semmai una preziosa occasione per verificare la possibilità di un impegno concreto, un engagement estraneo allo schema tradizionale che vede l’intellettuale schierato a far da cassa armonica al politico (e non sarebbe la situazione peggiore, poiché almeno si sfuggirebbe alla ben più temibile autoreferenzialità, o al familismo che è tipico anche dei critici). Sfiduciati ormai i politici come uomini di parte (e come casta) e gli intellettuali come amici degli uomini di parte (quindi come casta, naturalmente), forse non è impossibile almeno sperimentare, a partire dall’esperienza quotidiana, dal basso delle relazioni umane, forme nuove di critica e, perché no, di “fiancheggiamento” sociale, alla ricerca di un senso comune e al di là delle consuete parole d’ordine.
Al di fuori della letteratura, naturalmente, ma senza trascurare qualcuna delle sue lezioni: prima fra tutte l’invito costante all’apertura verso punti di vista “altri”, capaci di dischiudere nuovi spazi di azione e di pensiero.