Una questione lessicale, intorno a Huckleberry Finn

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Pubblichiamo una risposta all’articolo di Giusi Marchetta apparso su La ricerca e intitolato ” Censura non censura.”.

Questo contributo è stato pensato in risposta all’articolo di Giusi Marchetta sul tema Censura non censura. Devo precisare che sono una storica, che la mia esperienza di traduzioni è riferita a testi o documenti storici, e quindi spesso all’uso di citazioni. Sono però appassionata di letteratura, e ho letto molta letteratura americana in originale, incluso ovviamente The Adventures of Huckelberry Finn.

Prima di parlare del libro, vorrei però rispondere alla questione-chiave posta da Marchetta, ovvero se nelle traduzioni si possa usare o meno la parola “negro”, pur se contestualizzata da un’indispensabile introduzione (Marchetta usa la definizione n-word, e propone come alternativa ne*ro). La parola negro, riferita agli schiavi catturati in Africa, arriva nelle Americhe con i negrieri portoghesi e spagnoli, nelle cui lingue il termine (derivato dal latino niger) significava semplicemente il colore nero. Per arrivare a riappropriarsi di tale significato nella cultura statunitense, occorrono secoli di storia e trasformazioni culturali. Nella parlata incolta del Sud, il termine viene storpiato nella definizione derogatoria nigger, che però non viene usata abitualmente nei documenti, quali potevano essere i bandi per rintracciare gli schiavi fuggitivi, i registri delle piantagioni, o lettere in cui si usava spesso il termine negro, sia pure associato a “schiavo”.

Dopo la Guerra Civile, i neri americani adottarono come definizione, in segno di orgoglio razziale, il termine colored, che nel 1909 entrò nel nome della prima organizzazione per i diritti civili, la National Association for the Advancement of Colored People (NAACP), che tuttora mantiene questo termine per il suo valore storico e per la riconoscibilità che la sigla ha nel contesto sociale e politico americano (oggi è invalsa nel discorso pubblico anche la definizione people of color, più gradita di “minoranze”, e considerata rispettosa ed inclusiva di molti gruppi, dagli afroamericani ai nativi, ispanici, asiatici e nativi delle isole del Pacifico).

Negli anni Venti del XX secolo, il termine colored venne rimpiazzato da negro durante il periodo di grande vitalità artistica e culturale noto come Harlem Renaissance, proposto da due leader importanti, Booker T. Washington e W.E.B. Du Bois, che era stato fra i fondatori della NAACP e per decenni diresse la rivista The Crisis. Du Bois, un grande intellettuale del periodo a cavallo fra i due secoli, arrivò ad affermare che negro era preferibile ad altri termini “etimologicamente e foneticamente”, anche se nei suoi scritti usava spesso il termine black, come ad esempio nella sua fondamentale opera Black Reconstruction in America. Sulla spinta di questi intellettuali, nel 1930 il «New York Times» adottò a sua volta il termine Negro, con l’iniziale maiuscola, come chiedevano gli esponenti della nuova generazione, che ritenevano Negro con la maiuscola il termine adeguato a rappresentare la loro nuova consapevolezza politica e sociale. Il termine rimase in uso per decenni, fino a un dirompente discorso tenuto in Mississippi nel 1966 da Stokely Carmichael, che lanciò la locuzione black power. Da questo momento, indipendentemente dalle preferenze politiche, il termine black, nero, entrò nel linguaggio comune, quasi come riappropriazione del significato originale. Nel 1988, il leader Jesse Jackson propose African-American come alternativa preferibile per definire una popolazione che in realtà comprende molte sfumature di colore, derivanti da unioni forzose durante lo schiavismo, libere successivamente. Quest’ultima definizione ha forse meno presa sul pubblico, ma è entrata stabilmente in tutte le pubblicazioni accademiche.

È giunto il momento di occuparci di Huckelberry Finn, un testo molto apprezzato dagli scrittori americani, fra cui Hemingway, e che tuttora è oggetto di studi critici. Il libro uscì nel 1885, ambientando la vicenda negli anni Quaranta del XIX secolo, quando l’istituzione della schiavitù era molto vitale, e reagiva con forza alla propaganda abolizionista diffusa nel Nord. Invece nel 1885 la schiavitù era stata abolita da vent’anni, ma dopo il breve periodo della Ricostruzione, il razzismo tornava a cavalcare la scena nel Sud, con la progressiva istituzione di leggi segregazioniste, contro il vagabondaggio dei neri (spesso alla ricerca di lavoro), con l’uso dei linciaggi per intimorirli. È in questo contesto culturale che Twain, profondo conoscitore del Sud, pubblica quest’opera, che è intesa come un romanzo decisamente più serio che non The Adventures of Tom Sawyer, con una presa di posizione anti-razzista, venata di esplicito sarcasmo verso il sistema schiavistico. Nelle sue avvertenze, Twain precisa di aver usato diversi dialetti locali della zona in cui è ambientato il romanzo, fra cui il «Negro dialect of Missouri», rendendoci consapevoli che lui stesso non usava il termine nigger. Però il libro suscitò polemiche, venne vietato nelle scuole del Connecticut, ad anticipare le polemiche del XX secolo, in cui gli afroamericani chiesero ripetutamente il bando del libro, che fu censurato sul finire del secolo, quando si diffuse la pratica della political correctness, a cui mi sembra ispirarsi l’articolo di Giusi Marchetta, che propone alternative lessicali per rendere accettabile oggi questo romanzo. Personalmente non penso neppure che il libro sia adatto ai ragazzi, almeno prima delle superiori, sia per i temi trattati, sia per la necessità di una didattica che permetta una consapevolezza storica e culturale adeguata.

Il libro narra le avventure di Huck Finn, fuggito dal padre violento e dalla vedova che voleva “civilizzarlo”, e dello schiavo Jim, fuggito per timore di essere venduto nel Profondo Sud, dove le condizioni della schiavitù erano molto peggiori che in Missouri (il medesimo spunto narrativo di Uncle Tom’s Cabin). I due viaggiano su una zattera e nel corso del loro avventuroso viaggio, Huck ha modo di comprendere che Jim è un uomo coraggioso, saggio e generoso, al contrario di molti bianchi ritratti come stupidi, violenti ed egoisti. Lo scopo di Jim è di arrivare in un territorio libero sull’altra riva del Mississippi, per lavorare e poter riscattare la moglie ed i figli dalla schiavitù. Huck si interroga sull’istituzione schiavista, ipocrita ed ingiusta, pur se appoggiata dalla religione. Spesso prova rimorso per aver aiutato lo schiavo nella sua fuga, finché si arriva ad un momento cruciale, in cui Jim viene catturato e sta per essere venduto. Questo passaggio del Capitolo 31 è tanto significativo che molti anni fa venne proposto come tema da analizzare per l’ammissione ad un Dottorato di Studi Americani.

And at last, when it hit me all of a sudden that there was the plain hand of Providence slapping me in the face and letting me know my wickedness was being watched all the time from up there in heaven, whilst I was stealing a poor woman’s nigger that hadn’t ever done me no harm, and now was showing me there’s One that’s always on the lookout […]  I could to kinder soften it up somehow for myself by saying I was brung up wicked, and so I warn’t so much to blame […].

Alla fine, quando mi colpì all’improvviso che questa era la mano della Provvidenza che mi schiaffeggiava per farmi sapere che la mia malvagità veniva sempre osservata lassù in cielo, mentre io rubavo il nigger di una povera donna che non mi aveva mai fatto del male, e ora mi mostrava che c’era Uno sempre all’erta […] e potevo provare ad addolcirlo per me stesso dicendomi che ero stato cresciuto malvagio e non ero troppo da biasimare.

A questo punto Huck pensa di scrivere una lettera alla vedova per informarla che Jim è stato catturato, e che potrà riaverlo per la ricompensa da lei offerta.

I felt good and all washed clean of sin for the first time I had ever felt so in my life, and I knowed I could pray now. But I didn’t do it straight off […] and went on thinking. And got to thinking over our trip down the river; and I see Jim before me all the time […] and he was so grateful, and said I was the best friend old Jim had in the world, and the only one he’s got now; and then I happened to look around and see that paper (…)  I studied a minute, sort of holding my breath, and then I says to myself: ‘All right, then, I’ll go to hell’ – and tore it up. It was awful thoughts and awful words, but they was said. And I let them said; and never thought no more about reforming. I shoved the whole thing out of my head, and said I would take up wickedness again, which was in my line, being brung up to it, and the other warn’t. And for a starter, I would go to work and steal Jim out of slavery again; and if I could think up anything worse, I would do that, too; because as long as I was in, and in for good, I might as well go the whole hog.

Mi sentivo buono e ripulito dal peccato per la prima volta nella mia vita, e sapevo che ora potevo pregare. Ma non lo feci subito […] e continuai a pensare. Pensavo al nostro viaggio e vedevo Jim davanti a me tutto il tempo […] e lui era così riconoscente e diceva che io ero il migliore amico che il vecchio Jim aveva al mondo, il solo amico che avesse ora; e mi guardai intorno e vidi quella lettera […] Studiai un minuto, sorta di tenendo il fiato, e poi mi dico: ‘Bene, allora, andrò all’inferno’ – e la feci a pezzi. Erano pensieri orribili e parole orribili, ma sono state dette. E le lasciai dette, e non pensai mai più di convertirmi. Mi tolsi tutto dalla testa, e dissi che avrei ripreso con la mia malvagità, che era nella mia natura, per come ero stato allevato, e il resto non lo era. E per cominciare, mi sarei messo al lavoro per rubare Jim dalla schiavitù un’altra volta; e se avessi potuto pensare a qualunque cosa peggiore, avrei fatto anche quello; perché mentre c’ero dentro, e lo ero per sempre, tanto valeva andare fino in fondo.

Nelle parole del critico George Elliot, Huck «si trova ad attraversare una rara crisi morale, in cui deve scegliere tra la violazione dell’intero codice di comportamento sociale, religioso, convenzionale, di scelta fra giusto o sbagliato che gli è stato insegnato, e tradire la persona che ha più bisogno di lui e che lo ama di più, e che lui stesso ama di più». Il rovesciamento del senso comune che sta al cuore del romanzo va al di là di qualunque osservazione linguistica: non a caso ho usato il termine nigger nella mia traduzione, perché nella visione ingenua di Huck questo è il termine comunemente usato, e non toglie nulla all’affetto che prova per Jim. In quanto storica, apprezzo la filologia, se ben contestualizzata, e non penso che un insegnante consapevole possa far apparire violenta una semplice traduzione con la parola “nero”, del resto utilizzata abitualmente nella comunicazione in riferimento alla popolazione afroamericana. Diverso è il discorso se si parla delle popolazioni immigrate in Italia, per cui si impone un approfondimento geografico e culturale, che porti a distinguere ad esempio un somalo da un burkinabè.

Più in generale, non ritengo che l’aderenza al contesto storico dei testi sia una forma di conservatorismo. La letteratura occidentale è colma di riferimenti razzisti, colonialisti, sessisti, classisti o comunque derisivi o offensivi nei confronti si singoli o gruppi. È sempre necessaria la contestualizzazione, ma non credo che si possa metter mano a tutta la letteratura del passato per “attualizzarla” nel modo più corretto.

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Nadia Venturini

è stata professoressa associata di Storia del Nord America all’Università degli Studi di Torino. Ha pubblicato numerosi articoli e saggi, e i seguenti volumi: “Neri e italiani ad Harlem. Gli anni Trenta e la guerra d’Etiopia” (Edizioni Lavoro, Roma 1990), “Con gli occhi fissi alla meta. Il movimento afroamericano per i diritti civili, 1940-1965” (FrancoAngeli, Milano 2010), “La strada per Selma. La mobilitazione afroamericana e il Voting Rights Act del 1965” (FrancoAngeli, Milano 2015).

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