Una poesia per insegnare #5

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Valerio Magrelli ha pubblicato, nel 2006, una poesia dedicata alla prima e fondamentale forma di apprendimento: la lettura.
Klee Goldfish
Paul Klee, “Il pesce rosso”, 1925

Infanzia del lavoro

Guarda questa bambina
che sta imparando a leggere:
tende le labbra, si concentra,
tira su una parola dopo l’altra,
pesca, e la voce fa da canna,
fila, si flette, strappa
guizzanti queste lettere
ora alte nell’aria
luccicanti
al sole della pronuncia.

(da Disturbi del sistema binario, Torino, Einaudi, 2006, p. 35).

Il titolo, Infanzia del lavoro, lascia spaesati e costringe il lettore a passarvi sopra a volo radente e poi, eventualmente, a tornare in seguito su di esso, nel tentativo di comprenderlo a fondo. Che sia una metafora della lettura, intesa come, appunto, l’infanzia del lavoro, il suo momento originario? Come se imparare a leggere fosse all’origine di ogni successiva attività umana.
Così, un po’ incerti sul da farsi, affrontiamo la poesia: un unico blocco di dieci versi centrati su una sola immagine che il lettore è invitato a costruire nella sua mente con strumenti usati sapientemente dal poeta. Si comincia con un volitivo “Guarda” che ricorda da vicino i modi della poesia a cavallo tra Otto e Novecento e che costringe subito chi legge a prendere posizione e a collocarsi proprio lì, accanto al poeta che sta formulando il suo discorso e che, per assicurarsi che il suo lettore o la sua lettrice si collochino al suo fianco, aggiunge: “questa bambina”. Questa qui, appunto, non una qualsiasi. Come Dante che passeggia nell’inferno, come Ungaretti nelle sue poesie di guerra, Magrelli tende il più efficace dei tranelli narrativi utilizzati dai poeti – un banale aggettivo dimostrativo usato al momento giusto, nella giusta posizione – per portare i lettori all’interno del mondo possibile disegnato dal testo. Poi arriva il sostantivo, l’oggetto del discorso e la protagonista di questa microstoria in forma di ritratto: la bambina. Dev’esserci anche un libro da qualche parte, o almeno un foglio, un testo scritto, che non viene mai nominato ma che è implicito all’azione del secondo verso, sintatticamente collegato al primo.
Sono due settenari, il primo piano e il secondo sdrucciolo. Ed è curiosa la metrica libera di questa poesia, che vale la pena osservare da vicino proprio per coglierne la densità nella semplicità apparente: settenario, settenario sdrucciolo, novenario, endecasillabo, novenario, settenario, settenario sdrucciolo (“guizzanti queste lettere”). I primi sette versi disegnano nello spazio visivo e sonoro una figura triangolare, che dal settenario sale verso il vertice dell’endecasillabo e poi digrada di nuovo al settenario. A questi primi sette versi imparisillabi fanno seguito tre versi parisillabi, che segnano uno scarto, provocando un improvviso rallentamento al ritmo della lettura: senario, quadrisillabo e ottonario.
Ma veniamo al cuore della poesia, a quella straordinaria metafora del pescare le parole dalla pagina con la voce che “fa da canna”. Avviene tutto molto rapidamente e con grande semplicità. Siamo convocati, come lettori, a guardare una bambina che sta imparando a leggere, ed ecco dunque che ce la figuriamo nella mente, attingendo ai nostri ricordi di genitori, di maestri, di zii, di cugini, di fratelli e sorelle maggiori. La vediamo mentre “tende le labbra, si concentra”, e quindi, forse, aggrotta le sopracciglia, si protende verso la pagina che osserva intensamente. È a questo punto che succede qualcosa di importante. Le parole scritte sulla pagina salgono verso l’alto, si staccano dal foglio per uscire dalla bocca della bambina. Emergono, vengono alla luce. Esistevano già, certo, ma grazie a quella voce – la canna da pesca – sembrano acquistare una nuova vivacità: guizzano, luccicano, offrendosi a un nuovo sguardo e, si badi bene, non all’ascolto, come ci si aspetterebbe.

E proprio in questo gioco di associazioni tra ascolto e sguardo, tra vista e udito, tra occhio e bocca, è da cercare il senso di questa poesia, che mette in scena la duplicità del linguaggio, sempre in bilico tra scrittura e oralità, tra dentro e fuori, tra silenzio e suono, tra buio e luce, tra non-senso e senso.
La parola, scrive Magrelli in un manualetto sulla poesia che non a caso ha una versione scritta e una orale (libro + cd audio), “acquista senso soltanto sullo sfondo del non-senso che la precede, la segue, la avviluppa”. È una definizione assai efficace della strofa, intesa da Magrelli come “un’isola d’inchiostro, galleggiante nel mare della pagina”. La poesia, nella sua fisicità, emerge dalla pagina e si lascia osservare. E poi, grazie alla voce – e, quindi, alla lettura intesa come capacità di tradurre i segni visivi in suoni articolati – dalla pagina trascorre all’orecchio, offrendosi all’ascolto: una catena di suoni che emerge dal silenzio.
Ancora in questo aureo manualetto scritto-orale intitolato Che cos’è la poesia? La poesia raccontata ai ragazzi in ventuno voci (Roma, Sossella, 2005), Magrelli riprende un ragionamento di Paul Valéry sugli “elementi fisici” per sostenere che la poesia è paragonabile alla “fatta”, parola utilizzata per designare le feci di un animale (la usa Fucini in un suo racconto in cui alcuni cacciatori si trovano a discutere intorno alla “fatta” di un animale che non riescono a riconoscere). La poesia, d’altronde, è un “fare”, un agire del proprio corpo. E ciò che esce dal corpo – sostiene Magrelli usando le argomentazioni di Valéry – dovrebbe essere considerato “il purissimo, raffinato, sapiente prodotto di una complicata lavorazione”. La merda, dunque, come creatura, come opera del corpo che ha urgenza di venire alla luce: “una materia che scappa”.
Dev’essere per questo che la lettura ad alta voce – una delle pratiche umane più nobili e utili – ancora sembra spaventare molti; mette in difficoltà, imbarazza. Eppure, cosa ci può insegnare di meglio una poesia, se non ad apprezzare il valore delle parole che attraversano il nostro corpo e, rimanendo intatte, divengono mie, fatte da me, esposte, pubblicate, pronte a essere di nuovo pescate, mangiate e digerite.

Per approfondimenti online: http://www.letteratura.rai.it/articoli/valerio-magrelli-la-poesia-spiegata-ai-ragazzi/13896/default.aspx

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Simone Giusti

ricercatore, insegna didattica della letteratura italiana all’Università di Siena, è autore di ricerche, studi e saggi sulla letteratura italiana, sulla traduzione, sulla lettura e sulla didattica della letteratura, tra cui Insegnare con la letteratura (Zanichelli, 2011), Per una didattica della letteratura (Pensa, 2014), Tradurre le opere, leggere le traduzioni (Loescher, 2018), Didattica della letteratura 2.0 (Carocci, 2015 e 2020), Didattica della letteratura italiana. La storia, la ricerca, le pratiche (Carocci, 2023). Ha fondato la rivista «Per leggere», semestrale di commenti, letture, edizioni e traduzioni. Con Federico Batini organizza il convegno biennale “Le storie siamo noi”, la prima iniziativa italiana dedicata all’orientamento narrativo. Insieme a Natascia Tonelli condirige la collana scientifica QdR / Didattica e letteratura e ha scritto Comunità di pratiche letterarie. Il valore d’uso della letteratura e il suo insegnamento (Loescher, 2021) e il manuale L’onesta brigata. Per una letteratura delle competenze, per il triennio delle secondarie di secondo grado.

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