Quattordici versi sono pochi e tuttavia sufficienti a formare un blocco di testo omogeneo, un rettangolo verticale a sua volta formato da quattro rettangoli orizzontali, disposti uno sopra l’altro. Stampati, entrano in una pagina, e, circondati dal bianco della carta, danno un’impressione di stabilità, di sicurezza.
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Le rime, piazzate spesso agli angoli di ciascuna strofa-pilastro, contribuiscono a tenere insieme le parti, come dei tiranti. E poi ci sono altri trucchi meno visibili, percettibili a un occhio e a un orecchio allenati: parole che si richiamano da una strofa all’altra, versi che si slanciano nel verso successivo e pause dove servono le pause, a segnare il confine e la chiusura di una parte rispetto alla seguente.
Se ne scrivono da ottocento anni, di sonetti, uguali e ogni volta diversi, unici nella molteplicità e varietà di soluzioni metriche, di temi, di lingua. Se ne scrivevano in siciliano, originariamente, e poi in bolognese, in fiorentino e poi in francese, in inglese, in castigliano, e in romanesco anche, di bellissimi, e in italiano, naturalmente, anche oggi che non è più il “fiorentino delle classi colte”, come si spiega ancora a chi ha bisogno di un corso di dizione. Se ne scrivevano nell’epoca delle forme chiuse, quando la poesia era in versi e quando i versi erano quelli codificati dalla tradizione: endecasillabi rimati organizzati generalmente in due quartine e due terzine a rime alternate, baciate o incrociate. Se ne scrivono oggi, nell’epoca del verso libero e della poesia in prosa, scegliendo consapevolmente di collocarsi in una precisa tradizione, che può essere evocata in modo ironico e giocoso, ma anche seriamente, per scrivere poesie impegnate e, appunto, solide, capaci di ancorarsi nella memoria del lettore e, contemporaneamente, nella memoria di una comunità letteraria – principalmente europea – che da secoli si riconosce in questa forma.
L’inglese Tony Harrison è uno degli autori più fecondi di sonetti. Scrive, naturalmente in lingua inglese, sonetti italiani, composti, nella loro forma canonica, da due quartine e due terzine rimate, sonetti inglesi o shakespeariani, composti da tre quartine e un distico rimati, e sonetti meredithiani, quattro quartine rimate. Il verso è la pentapodia…
Dalla fine degli anni Settanta Harrison sta pubblicando, di volta in volta ampliandola, una raccolta in progress di soli sonetti, intitolata From the School of Eloquence: un progetto ambizioso di cui questo sonetto rappresenta uno dei pezzi migliori.
Timer
Gold survives the fire that’s hot enough
to make you ashes in a standard urn.
An envelope of coarse official buff
contains your wedding ring which wouldn’t burn.
Dad told me I’d to tell them at St James’s
that the ring should go in the incinerator.
That ‘eternity’ inscribed with both their names is
his surety that they’d be together, ‘later’.
I signed for the parcelled clothing as the son,
the cardy, apron, pants, bra, dress –
the clerk phoned down: 6-8-8-3-1?
Has she still her ring on?(Slight pause) Yes!
It’s on my warm palm now, your burnished ring!
I feel your ashes, head, arms, breasts, womb, legs,
sift through its circles slowly, like that thing
you used to let me watch to time the eggs.
Che in italiano, senza neanche tentare di riprodurre le rime alternate dell’originale, suona all’incirca così:
L’oro sopravvive al fuoco, caldo abbastanza
da ridurti in cenere dentro un’urna standard.
Una busta di carta giallastra
contiene la tua fede che non brucia.
Papà mi disse di dir loro al Saint James
che l’anello doveva andare nell’inceneritore.
Quell’eternità inciso con entrambi i nomi
è la sua certezza si sarebbero incontrati, “più tardi”.
Io come figlio firmai per il vestiario impacchettato
il cardigan, grembiule, mutande, vestito, reggiseno –
il commesso telefonò di sotto: 6-8-8-3-1?
Ha ancora l’anello? (Breve pausa) Sì!
È sul mio caldo palmo adesso, il tuo anello lustro!
Io sento le tue ceneri, testa, braccia, seni, utero, gambe
setacciate nel suo cerchio lentamente, come in quell’oggetto
che lasciavi io usassi per cronometrare le uova.
Il narratore – così si chiama, anche se è un poeta – si rivolge alla madre, destinataria del discorso, per comunicarle una scoperta: l’oro dell’anello nuziale non brucia nell’inceneritore, ma viene recuperato dagli addetti alla cremazione e restituito ai parenti chiuso dentro una busta di camoscio che in questo momento si trova proprio tra le sue mani. Poi, nella seconda strofa, il narratore racconta l’antefatto. Era stato il padre a chiedergli di lasciare l’anello nell’inceneritore: il simbolo del loro amore doveva rimanere con sua moglie, con la quale si sarebbe sicuramente incontrato “più tardi”. La terza e quarta strofa, apparentemente “frammentate” (ma in realtà tenute insieme dalle rime che ne rivelano lo schema), raccontano come poi è andata a finire, tornando circolarmente al punto di partenza. Il narratore, figlio della donna appena morta e cremata, firma per il ritiro del vestiario e poi dell’anello che, deposto sulla mano, si trasforma nella sua mente – straordinaria rivelazione – in una clessidra.
E il cerchio si chiude.