Dal 2003 a oggi mi risuonano in testa – e in questi giorni si sono riaffacciati con prepotenza alla memoria – due versi che condensano in due proposizioni il senso profondo della crisi culturale del nostro tempo: “tu vedi grandi numeri / ma io vedo la polvere”. Due settenari sdruccioli a ritmo giambico, quasi carducciani… (“rossi d’inferno i baratri”, “fascia di tedio l’anima”… da In una chiesa gotica). Sono versi di una canzone di Filippo Gatti, Requiem per i grandi numeri, tratta dall’album Tutto sta per cambiare (Epic-Sony, 2003), un’opera composta da nove canzoni che a pieno titolo possono essere annoverate tra le poesie civili più interessanti degli anni zero, composte in seguito ai famigerati fatti di Genova (2001), in un momento storico – e esistenziale – che richiedeva, e forse richiede ancora, d’interpretare i cambiamenti in corso e, soprattutto, le spinte contrarie, le innumerevoli forze che ai cambiamenti opponevano una strenua resistenza. Sull’esempio di Bob Dylan, che nel 1964 aveva pubblicato The Times They Are a-Changin, Gatti rappresenta in forma artistica il momento esatto dello stallo tra le forze in campo e della crisi personale di chi si trova sul confine tra due mondi, fermo ad osservare gli altri che si agitano e consapevole dell’importanza di conservare memoria di sé nel nuovo mondo che è ancora da costruire.
Quello che sai
dimenticalo ancora
la strada è più difficile
la notte fa paura
tu vedi grandi numeri
ma io vedo la polvere
Sembrano sempre attenti
le tigri di cartone
dietro una faccia e un nome
la libertà coi denti
mettiamoci d’accordo
quanto vorrai costare?
molti costano poco
la libertà col sale
Sei solamente giovane
non diventare pazzo
non alzare le mani
la libertà col cazzo
non alzare le mani
non alzare le mani
E ora è giorno quando parliamo
e io ti passo il bicchiere
è pieno e tu mi guardi
è giorno
e ora stiamo parlando
è giorno
è giorno e stiamo parlando.
Il testo si apre con un invito a dimenticare. Il destinatario – il tu sottinteso che solo alla fine diventa un noi – è indefinito e non è importante scoprire di chi si tratti: ci basti sapere che ciascun pezzo dell’album utilizza la seconda persona singolare, anche se di volta in volta sembra si tratti di interlocutori diversi. Di certo questa formula è efficace nel rendere la scrittura necessaria, perché destinata sempre a qualcuno (che il lettore potrebbe illudersi d’essere lui stesso). Dimenticare le conoscenze – non è secondario ricordare il valore della dimenticanza nel buddismo, uno dei punti di riferimento culturali dell’intero album – fa pensare qui a un alleggerimento del bagaglio necessario ad affrontare un cammino che si fa più difficile e un momento che diventa sempre più spaventoso.
E poi, d’improvviso, arrivano i due versi citati, i quali, calati nel contesto della strofa e dell’intero testo, sembrano voler rappresentare due visioni contrapposte del mondo: da una parte l’interlocutore, colui che dovrebbe dimenticare ciò che sa per affrontare la situazione, il quale “vede grandi numeri”, cioè sembra prestare attenzione alla quantità (i “grandi numeri”); dall’altra il poeta, per il quale i grandi numeri altro non sarebbero che “polvere”: una massa indistinta in cui non è possibile distinguere i granelli.
La seconda strofa utilizza una scrittura più ellittica, scorciata e analogica, che procede per accostamenti di frasi che celano i loro collegamenti logici con ciò che le precede e le segue. Ci sembra di capire; le singole frasi – che coincidono perlopiù con i versi – si presentano con un significato, a volte anche due, senza che il lettore, grammatica alla mano, possa svelare a se stesso il loro senso esatto. Rimane la sensazione di assistere a un discorso importante, urgente e necessario.
Le “tigri di cartone” fanno pensare alla metafora dei paper tigers, le “tigri di carta”, usata da Mao Tse Tung per definire i reazionari e, in generale, quei nemici che sembrano terribili ma non sono poi così potenti. Ci sono, dunque, dei nemici in agguato, delle persone che vogliono far paura ma che non possono produrre eccessivi danni. In assenza di punteggiatura, come è tipico di molta poesia novecentesca, è difficile stabilire un collegamento logico-sintattico tra questi due versi e quello che segue, “dietro una faccia e un nome”, che potrebbe essere legato al successivo o irrelato. In questo modo, supportati anche dallo schema delle rime e delle assonanze, abbacdcd, che a sua volta articola la strofa in due parti, sarebbe possibile leggere i versi a coppie: “Sembrano sempre attenti / le tigri di cartone”, a cui segue “dietro una faccia e un nome / la libertà coi denti” e poi la più comprensibile coppia “mettiamoci d’accordo / quanto vorrai costare?” cui segue la risposta “molti costano poco / la libertà col sale”.
Nella terza strofa si scopre che questo interlocutore, minacciato nella sua libertà, al quale sembra il poeta voglia dare conforto e supporto con i suoi consigli, è giovane e presumibilmente avventato, capace di fare gesti che, anziché proteggerlo, lo esporrebbero a dei rischi.
Infine, con lo sciogliersi e l’aprirsi dei versi, nell’ultima strofa si respira un clima più sereno, come se fosse d’improvviso terminato un assedio. I due, il poeta e il suo interlocutore, stanno parlando in un clima conviviale, col primo che offre un bicchiere al secondo. Siamo in un interno, una casa forse, e il giorno sembra contrapporsi alla notte che, pochi versi prima, faceva paura.
E a questo punto possiamo rileggere il testo, rivederlo in mente, come la trascrizione di una conversazione tra amici davanti a un bicchiere di vino. Due visioni del mondo a confronto, una comune paura per il domani sullo sfondo, uno che ospita, dona e consiglia, l’altro che ascolta, forse reagisce, scalpita. E poi ci siamo noi, lettori e ascoltatori, che ormai non possiamo più dimenticare che laddove ci sono grandi numeri, è inevitabile, c’è anche molta polvere.