Ho provato a dimostrare, ricorrendo ad argomenti prelevati dall’estetica, dalle scienze sociali e dalla poetica cognitiva, che per rinnovare davvero la riflessione sulla poesia – e, quindi, il suo ruolo sociale e politico, la sua didattica – occorre cambiare prospettiva, smettendola di domandarsi che cosa renda poetica la poesia e interrogandosi invece sull’esperienza che il lettore in carne e ossa fa della poesia, con la poesia. Qual è il valore d’uso di quelle particolari opere dell’ingegno che chiamiamo poesia?
Per questo, ho detto in conclusione del mio ragionamento, a me non interessa molto la critica di poesia, mentre mi piacerebbe andare a casa dei lettori di poesia, di tutti, uno per uno, e vedere con loro quello che leggono, come lo leggono, cosa se ne fanno. Perché la poesia che mi serve non è quella che leggo per scrivere un saggio critico o per comporre un’antologia, ma è quella che mi fa fare un’esperienza significativa per la mia vita, un’esperienza estetica, appunto.
Sulla strada del ritorno, durante il viaggio in treno, ho poi sfogliato un libro appena uscito, La poesia italiana degli anni Duemila. Un percorso di lettura (Carocci, Roma 2017), di Paolo Giovannetti, uno degli organizzatori del convegno, studioso di poesia contemporanea tra i più esperti degli ultimi decenni.
A pagina 12 trovo questa poesia di Anna Maria Carpi intitolata Un altro mondo?, tratta dal libro E io che intanto parlo. Poesie 1990-2015, Marcos y Marcos, Milano 2016.
UN ALTRO MONDO? È assodato, non c’è.
E la morte? Sst, non se ne parla.
Il più tardi possibile,
tutti la vogliono rapida e indolore
un colpo e via.
Ma io la vorrei lenta – ho bisogno di confort.
Una notte d’inverno,
il fresco del lenzuolo sotto il mento
luce sul comodino voci in casa.
Di là c’è festa.
La porta è aperta, dalla stanza accanto
qualcuno che s’affaccia:
stai bene? vuoi qualcosa?
Non ridere: vorrei
essere una pastiglia effervescente
in un bicchiere colmo fino all’orlo.
Naufraga lenta e poi è una bevanda
che piace a tutti e fa passare i mali.
«La mescolanza di serietà e svagatezza è ciò che mi intenerisce in questa poesia», confessa Giovannetti. E continua: «L’amarezza e l’ironia, anzi il sarcasmo dell’avvio; e poi la strana dolcezza di una morte assaporata con gli amici, che vengono a trovarti fino all’ultimo, mentre sei lì che ti spegni. Socialità e individualismo, miracolosamente, vanno d’accordo. Ed è una cosa così rara nel mondo – il nostro – dei selfie; tanto più che a permetterlo è una pronuncia “lirica”, che per definizione reputiamo privata, solipsistica, individualistica, ecc. Eppure. Nel maggio di quest’anno l’ho letta in pubblico, questa poesia, l’ho commentata con convinzione, l’ho spiegata a un uditorio che almeno un po’ ama questo genere. Davanti a me, e anche al mio fianco (non ero il solo a “spiegare”), qualche sguardo di sufficienza, di compatimento, esplicite obiezioni contro qualcosa che era sentito come troppo facile, troppo vecchio, troppo tradizionale. Paradossalmente, quella (almeno per me) bella poesia di Anna Maria era troppo “poesia”. E io la stavo imponendo a persone che nella poesia cercavano e cercano altro.»
E voi, cosa cercate nella poesia? E, soprattutto, anche voi trovate qualcosa di importante in questa poesia? Anche voi, come me adesso, proprio in questo preciso momento, vorreste essere lenti e desiderabili come una pastiglia che danza sciogliendosi in un bicchier d’acqua appoggiato su un comodino?