Le credenziali dei vari siti e portali internet a cui devo accedere quotidianamente sono diventate un’ossessione, e io rifuggo ormai da qualsiasi servizio online mi venga offerto. La burocrazia dematerializzata, che cerca di entrarti in casa invadendo gli spazi privati, è un nemico da combattere con il silenzio e la disconnessione. Specialmente in Italia, dove le reti funzionano poco e male, i grandi portali delle pubbliche amministrazioni si impallano sempre sul più bello, i servizi di assistenza online sono quasi sempre fasulli.
Valerio Magrelli, il poeta che più di ogni altro ha manifestato il suo odio per la burocrazia, è riuscito a scrivere una poesia – la più recente tra quelle edite, tratta dall’ultima raccolta Sangue amaro, Einaudi, Torino 2014 – che riesce miracolosamente ad affrontare il tema della morte attingendo ai linguaggi della narrazione biblica e della tecnica bancaria, costruendo endecasillabi solenni, e ternari e settenari, coi materiali di risulta del lessico quotidiano: cc (conto corrente, da pronunciare “cici”), password, computer, bonifico.
Questa è la mia preghiera del mattino:
controllo il mio cc ma come password
ogni volta ritrovo la tua data
di nascita.
Passo l’intero giorno senza pensarti mai,
eppure non c’è alba in cui dolente
tu non mi vieni incontro,
mentre effettuo un bonifico,
come un Lazzaro uscito dalla tomba.
Ti levi dal sepolcro del computer
e mi saluti per rimproverarmi
con l’amarezza, con quell’astio dei morti
di cui portavi in te il seme profondo
già viva. Che vogliono i morti?
Che vogliamo dai morti, per chiamarli,
con un turpe cinismo mnemotecnico?
Io sfrutto il tuo ricordo per sistemare i conti,
mentre tu torni a me, la tua figura dura,
per fare i conti con la mia tortura.
Non ci sono indizi puntuali per stabilire chi sia con esattezza il destinatario, il “tu”, di questa poesia. Si capisce che è una donna (“già viva”), ma io sono certo che si tratti della madre del poeta. Sto resistendo alla tentazione di chiederlo a Magrelli stesso. Un po’ perché mi vergogno della mia indiscrezione, e poi perché ho paura di essere smentito.
Ho riflettuto molto su questa mia convinzione, sulla sua origine.
È quel ritratto in versi. La figura di lei che si leva dal sepolcro del computer e saluta per rimproverare, “con l’amarezza, con quell’astio dei morti / di cui portavi in te il seme profondo / già viva”. È mia madre, penso. Mia madre viva, che poi, un giorno, dopo la morte, tornerà anche lei in una qualche forma, all’improvviso, “per fare i conti con la mia tortura”.
Il brano è tratto dal libro in uscita Cambio verso. La poesia che ci serve a sopportare l’Italia (Effequ).
È dedicato a Sandro Invidia.