Dopo secoli di predominio – almeno nelle civiltà letterarie della penisola italiana – dei generi della poesia, sembra che l’industria dei contenuti sia ormai dominata dai prodotti degli storytellers, i narratori, fabbricanti di storie in forma di romanzo, di sceneggiatura, di spot, di film, di serie tv, e poi di videogioco, di gioco di ruolo, ecc. In quanti, oggi, tra i milioni di lettori italiani, conoscono il nome di Derek Walcott, per citare uno degli ultimi poeti vincitori del premio Nobel – anch’esso destinato principalmente ai narratori – o di Valerio Magrelli? Mi auguro in molti, visto che si tratta di personalità di indubbio spessore, che da molti anni ci mettono a disposizione degli utilissimi strumenti per potenziare la nostra mente e dare un senso al mondo; tuttavia non nascondo che vorrei fossero ancora più riconosciuti e che i loro testi, insieme a quelli di molti altri poeti contemporanei, circolassero nelle scuole, nelle aule docenti prima ancora che nelle aule scolastiche, ad arricchire il kit professionale degli insegnanti dei diversi ordini di scuola e classi di concorso.
In questo articolo, che vorrebbe essere il primo di una serie, propongo la lettura di una poesia breve, dall’andamento lineare e dal lessico quotidiano, sostenuta da poche rime facili, per lo più grammaticali (colpire, finire, patire) e da un ritmo piano:
Vorrei parlare a questa mia foto accanto al pianoforte,
Al bambino di undici anni dagli zigomi rubizzi
Dire non è il caso di scaldarsi tanto
Nei giochi coi cugini,
Di seguirli nel bersagliare coi mattoni
Le dalie dei vicini
Non per divertimento
Ma per sentirti davvero parte della banda.
Davvero parte?
Vorrei dirgli, lasciali perdere
Con i loro bersagli da colpire,
Tornatene tranquillo ai tuoi disegni
Alle cartine da finire,
Vincerai tu. Dovrai patire.
Sono parole semplici, com’è tipico dello stile dell’autore del testo, il poeta e traduttore Franco Buffoni, madrelingua milanese che programmaticamente riesce a fare poesia con un repertorio lessicale e sintattico tipico dell’italiano standard, senza nulla cedere alle tentazioni della variatio, per privilegiare la precisione e la razionalità del linguaggio.
Prima di illustrare il contesto in cui va collocata la poesia e poterne cogliere appieno le sfumature di significato, rimaniamo sulla superficie, cercando di capire il funzionamento del testo. La situazione è abbastanza precisa: un uomo – che è automatico identificare con il poeta che scrive, Franco Buffoni – osserva una foto di se stesso bambino, all’età di 11 anni. Dalla foto, che rappresenta il bambino dagli zigomi rubizzi, scaturisce nella mente del poeta un’intera scena, un pezzo di storia autobiografica: egli si rivede, e lo racconta, giocare con i cugini, prendere parte a giochi scalmanati ai quali, lascia intendere, non partecipava volentieri, o, almeno, non per divertimento, “ma per sentirsi davvero parte della banda”. E si tratta di una consapevolezza maturata nel tempo, acquisita dall’adulto che si rivede bambino e che, per quanto sappia che è inutile, che non si può modificare il passato, vorrebbe ora aiutare quell’undicenne. Dirgli di non preoccuparsi tanto dell’opinione degli altri, di non partecipare a quei giochi semplicemente per essere accettato dal gruppo: se è lo studio la sua passione (le cartine, i disegni…), che torni pure alle sue occupazioni, non importano i patimenti, le sofferenze – causate dalla solitudine, s’immagina, dell’esclusione dalla “banda” –, che soffra pure, che patisca, poiché è destinato a vincere. E non è chiaro, sintatticamente, se esista un legame logico tra la vittoria e la sofferenza. Quel che è certo è che l’adulto – che è il punto di arrivo dell’autobiografia – guardando se stesso bambino capisce di aver vinto e che, si intuisce, la vittoria non è stata possibile grazie a quella finzione infantile, a quei giochi coi cugini. Ora lo sa: avrebbe potuto fare a meno di loro, di quei giochi rituali; non avrebbe avuto bisogno del “branco” per raggiungere la vittoria.
È una poesia quasi leopardiana, di un Leopardi modernizzato e scarnificato, che non usa il trucco di parlare a Silvia per poi rivolgersi a se stesso e dire “Io gli studi leggiadri / talor lasciando e le sudate carte…”, ma, nel tempo della riproducibilità delle immagini, ricorre a un altro stratagemma: la fotografia. Ma la filosofia di Buffoni è, potremmo dire, il contrario esatto della leopardiana, perché mentre quest’ultimo, nel rivedere se stesso, lancia un grido di dolore per aver perduto le speranze dell’infanzia (quando ancora il mondo – la natura – sembrava promettere tanto), il primo, nel rivedersi affannato a rincorrere il consenso degli altri, il riconoscimento del gruppo dei pari – si direbbe oggi col linguaggio della pedagogia – sembra essere finalmente appagato, nonostante il dolore che ha dovuto soffrire (o, forse, proprio a causa di esso, non possiamo capirlo).
Non so se sono riuscito a far compiere ai miei lettori un percorso analogo a quello proposto dalla poesia: dall’adulto al bambino e ritorno. Mi piacerebbe che qualcun altro provasse – come a me è capitato – a fare esperienza di questo rispecchiamento e, soprattutto, del dialogo che della riflessione è diretta conseguenza. Cosa avremmo da dire, noi, al noi stesso di allora? Quali rassicurazioni, quali consigli, per evitare a noi stessi non tanto le sofferenze – quelle sono inevitabili – quanto semmai i sacrifici inutili, le rinunce ai propri bisogni e ai propri desideri compiute per troppa acquiescenza.
Ho poco da aggiungere, se non che è importante dire – a qualche giorno dal Giorno della Memoria – che il libro da cui è tratta la poesia, Il profilo del rosa (Milano, Mondadori, 2000) è concepito dal suo autore come “un viaggio, un attraversamento, sia della sua vita, sia dei luoghi dove essa principalmente si è svolta”, e che il titolo rinvia, contemporaneamente, alla sagoma del monte Rosa e al triangolo rosa sulle casacche nei Lager nazisti, usato per contrassegnare i prigionieri omossessuali.