Una lezione difficile

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Dante è un maestro severo e non accomodante. Il suo declino inizia subito, quindi continua in epoca umanistica e si consolida con Bembo. All’unanime consenso nel periodo risorgimentale segue, dopo l’Unità, una faticosa 
affermazione nel corso del Novecento: il Dante di Aldo Palazzeschi nella Grande Guerra e di Primo Levi nel campo di Auschwitz.

 

“La Divina Commedia”, opera musical, Teatro Politeama, Genova 2020

Dante è un maestro severo, per niente morbido e accomodante, per niente conciliativo, negato ai compromessi e agli accordi dietro le quinte. Negato a ogni rapporto di servilismo verso il potere economico e politico. Perciò la sua è una lezione inattuale e difficile, sul piano etico, civile, letterario. Non crede nella funzione strumentale della letteratura e si scaglia contro quanti «non si deono chiamar letterati, perocché non acquistano la lettera per lo suo uso, ma in quanto per quella guadagnano danari o dignità» (Convivio, I, 9, 3-4). Ritiene che si debba studiare per educazione interiore, non per acquistare ricchezza o prestigio sociale1. Rifiuta la poesia come evasione tra le nuvole. Insegna l’amore per la propria terra in prospettiva non municipale2 e sente come patria il mondo3, senza però farsi illusioni sul rapporto tra etica e politica. Questo rapporto lo vede spezzato e non confida molto sull’«Universale amore», irriso da Leopardi (Palinodia, v. 42).

Invita a considerare con sospetto la figura di Narciso, ovvero a guardare con distacco il predominio dell’io, che invece risulta dominante nella nostra letteratura (e non solo nella nostra), tanto che in pieno Novecento un narratore come Gadda non s’è potuto trattenere dall’inveire contro l’io, il «più fanfaronesco dei pronomi di persona»4, «il più lurido di tutti i pronomi»5.Dante mostra con la Commedia che il parlare di sé, ovvero la lirica, come interpretazione del reale vincolata dal punto di vista dell’io soggettivo (la fase della Vita nuova), non esaurisce in alcun modo le potenzialità conoscitive della poesia, dove importa anche il punto di vista degli altri. Quell’ostacolo che Italo Calvino ha chiamato «l’ingombro dell’io», che impedisce il distacco necessario a una visione pluriprospettica del mondo, è da Dante abolito nel momento in cui avvia l’impresa della Commedia.

Dante si lascia alle spalle la questione, anch’essa determinante, dell’«antilingua» (come l’ha definita Calvino in un memorabile articolo del 1965): il linguaggio artificiale e artefatto, libresco e intellettualistico, di quanti (professionisti, avvocati, tecnici, giornalisti, redattori di telegiornali, addetti all’ufficio stampa dei gabinetti ministeriali) non sanno dire «ho fatto», ma devono dire «ho effettuato», invece di dire «accendere la stufa» si sentono in dovere di dire «eseguire l’avviamento dell’impianto termico»6. Non è solo un malvezzo formale, ma un vizio: comporta deformazione delle cose, insincerità, doppiezza.

Dante ha insegnato che, oltre all’amore, altri temi urgono per la sopravvivenza della «nostra riverita specie» (Fermo e Lucia, II, 1). L’esperienza dell’esilio, patito come pena inflitta a un innocente («exul inmeritus», Epistula V), sposta l’attenzione di Dante verso il tema cardine della giustizia, che s’impone come questione primaria nell’universo della Commedia. Cosa altro significa l’incontro di Dante personaggio con la popolazione dell’aldilà se non l’immediata visualizzazione degli effetti d’una infallibile giustizia divina? E chi altri, se non il poeta, si è assunto il diritto/dovere di formulare la sentenza di assoluzione o di condanna? Il poeta ha fatto propria la prospettiva giudicante divina. La poesia diventa suprema espressione d’un verdetto. La vicenda dell’esilio, la coscienza dei soprusi sofferti, il contatto quotidiano con la corruzione sociale e politica fanno sì che lo scrittore affidi alla propria opera il ruolo di ideale ricostituzione dell’ordine, il riscatto della giustizia violata. Cielo e terra si saldano in nesso unitario: la terra umanizza il cielo e il cielo spiritualizza la terra (giusto il parere di De Sanctis).

La vicenda dell’esilio rende ragione dell’odio-
amore per Firenze e dell’identità del poeta, radicato nella sua città e insieme cittadino del mondo. Pur con questa guardatura antimunicipale («florentinus natione non moribus», Epistula XIII), Dante resta uomo di passione politica legato a Firenze con forte sentimento di appartenenza identitaria. Ne discendono due aspetti fondamentali. Il primo è la scelta linguistica. La nuova lingua della realtà e della poesia è per Dante il volgare della sua città, non il latino. La lingua viva dell’uso, non un’antilingua intellettualistica. L’altro aspetto è lo sperimentalismo espressivo: nelle vicende dell’esule, l’aspro mordente dello scontro con la contingenza dell’attualità politica educa la necessità d’una scrittura sperimentale, cioè intesa come continua ricerca di nuove chiavi interpretative del reale. Nell’otium sereno fiorisce la scrittura come ossequio all’eleganza e alla perfezione. Lo sperimentalismo (quando non sia moda da salotto) si nutre di lotta.

Un maestro severo e una lezione difficile. Bisogna dire chiaro che il declino di Dante inizia subito. Radicamento cittadino in prospettiva universale, scelta del volgare come lingua viva, sperimentalismo conoscitivo sono tre componenti determinanti, tutte e tre smentite da Petrarca (apolide e cittadino della Roma classica, scelta del latino, tensione non verso lo sperimentalismo ma verso la perfezione, donde la mistica della raffinatezza). Il declino del rozzo Dante continua in epoca umanistica e si trasforma in esilio con la canonizzazione di Bembo nel 1525, che ufficializza il modello petrarchesco. A far data dal 1494 («funesto», come lo battezza Carducci), l’Italia diventa terra di conquista. Di fronte all’invasione franco-spagnola e alle guerre da Machiavelli dette «horrende», la medicina di Bembo, cioè l’unità territoriale della lingua letteraria, con insostituibile valore identitario, risulta necessaria e preziosa. Ma è pagata a caro prezzo.

Dante esce di scena e il nuovo modello s’impone con fulmineo e formidabile successo. La bellissima giovane donna, dallo sguardo ammiccante, del celebre ritratto di Andrea del Sarto, conservato agli Uffizi, tiene in mano un «petrarchino» (aperto ai sonetti CLIII e CLIV) e risale al 1528, soltanto tre anni dopo le Prose di Bembo. Naturalmente legge Petrarca anche l’affascinante e austera Laura Battiferri, nel ritratto di Bronzino che si trova a Palazzo Vecchio, di circa un ventennio successivo. Il modello petrarchesco imprime alle nostre lettere un sigillo inconfondibile: primato della lingua scritta di contro alla lingua dell’uso (che si rifugia nelle letterature dialettali); primato della lirica, della soggettività, dell’io (discredito della poesia come narrazione, satira, educazione morale, denuncia civile, parodia); primato della sublimazione tragica (e discredito della commedia); primato della prosa d’arte (e discredito del romanzo); primato della perfezione con conseguente culto della forma.

“La Divina Commedia”, opera musical, Teatro Politeama, Genova 2020

La svolta radicale rispetto a questa linea ufficiale vigente fino al Settecento avviene con la dignità assegnata da Manzoni alla lingua dell’uso, ormai in età risorgimentale, quando si tocca con mano un dato incontrovertibile: il significato simbolico di Dante nella storia italiana, come barometro sensibilissimo per cogliere il clima di un’epoca. Così accade all’alba della moderna fortuna dantesca, alla fine del Settecento, quando l’autore della Commedia esce da un isolamento secolare per conquistare a fatica, nelle vicende risorgimentali, il ruolo di padre della patria. In quell’ultimo Settecento si fanno sentire da noi gli effetti della Rivoluzione di Francia attraverso una nuova idea di letteratura pressata dall’urgenza dei tempi, pronta a lasciare i salotti e le accademie per scendere in piazza. L’uomo di lettere è stanco di fare passare il tempo a «quella classe d’uomini» che nella vita «non fa quasi altro che divertirsi» (Fermo e Lucia, II, 1).

Ecco che Dante sale alla ribalta. Il poeta che ha viaggiato nell’aldilà si avvia a essere il patrono dell’epica risorgimentale: è il Dante, con le debite distinzioni, di Monti e di Foscolo (il grande Dante di Foscolo), di Manzoni e di Leopardi, di Mazzini e di Gioberti, di Guerrazzi, di D’Azeglio e di Nievo, di Berchet, di Mameli, di Tommaseo. Ciò che colpisce è l’unanimità del consenso, al di là dei differenti schieramenti di militanza letteraria, oltre le divisioni della lotta politica. Una specie di governo tecnico di emergenza e di unità nazionale. Il consenso tiene insieme (miracolosamente) neoclassici, romantici e classicisti, puristi e antipuristi, reazionari e liberali, dialettali e autori in lingua, neoguelfi e neoghibellini, da Balbo (Vita di Dante, 2 voll., 1839) a Guerrazzi («il divino Alighieri», evocato nel cap. XXIX della Battaglia di Benevento). È il Dante patrono dell’Unità, poi monumentalizzato nel 1865 a Firenze, in Santa Croce.

Si tratta d’un capitolo di storia politica e insieme di storia letteraria, a conferma del vincolo stretto tra Dante e l’Italia, del rapporto che unisce la rilettura d’un poeta e le sorti d’una nazione. L’Alighieri paladino dell’Unità, con la benedizione degli eroi risorgimentali e di Francesco De Sanctis, assegna al nuovo Stato credenziali vitalissime: di giustizia, di dignità, di orgoglio nazionale nel concerto europeo. «E questa volta non dobbiamo trovarci alla coda, non a’ secondi posti», proclama De Sanctis in chiusura della Storia della letteratura italiana, anno 1870.

Passata l’emergenza, finisce la coesione del governo tecnico e Dante esce ancora una volta di scena. D’ora innanzi deve conquistarsi a fatica, metro per metro, il rispetto che la sua difficile lezione comporta7. Le belle parole e le belle speranze all’indomani dell’Unità si sono volatilizzate. Le cose hanno preso un’altra piega. Non soltanto hanno deviato dalle fulgide premesse della Nuova Italia, ma sono andate a precipizio, sull’onda di euforie estetizzanti e superomistiche, con due guerre mondiali, intervallate da vent’anni di dittatura: una sorta di nuova e devastante guerra dei Trent’anni, iniziata nel 1915 e terminata nel 1945. Un percorso lastricato di sofferenze. Dice bene il Quasimodo pentito del secondo dopoguerra, quando nel 1952, a metà secolo, in una fase incline ai bilanci (è l’anno della morte di Croce, di Momigliano, di Pancrazi, l’anno della prolusione pavese di Caretti, Filologia e critica), afferma che gli «italiani» hanno lasciato Dante «in esilio»8, lo hanno relegato nell’ombra.

Tra i poeti nuovi, prima di Montale, chi percepisce come necessaria la voce di Dante è Saba, insofferente nei riguardi del primato della lirica e del conseguente culto della forma: «mi soffermai […] su quel pericoloso restringimento di un concetto letterario per cui si fa coincidere la poesia con la lirica […]. A questo punto mi colse un senso di soffocazione, e anche un impeto di ribellione; e, per liberarmene, per respirare più largo e placarmi, mi guardai in giro, nel pomeriggio splendido, e pensai a Dante; che nessuno potrà mai – io credo – misurare con simile metro»9. Nel vasto campo novecentesco, mi limito a due esempi.

Meritevoli di memoria sono i poeti che desideriamo avere vicini nei momenti più seri della vita. Durante il fascismo, per molti scrittori (non tutti…) che, nel silenzio delle loro case, avvertivano la spinta a esprimere le irrequietezze dell’anima, rimosso Dante, funzionavano bene altri modelli tratti dalla nostra tradizione e dalla modernità francese. Però alla resa dei conti, all’inizio e alla fine di quella nuova guerra dei Trent’anni che incendiava l’Europa, nella tragedia del Carso e nell’orrore di Auschwitz, non meraviglia se troviamo in primo piano Dante.

Al termine di questo drammatico percorso, nel 1945, Dante è salutato come simbolo di sopravvivenza nell’inferno dello sfacelo mondiale, per tentare di salvare almeno un barlume di umana dignità. Siamo al Dante di Primo Levi, in Se questo è un uomo (1947), nel cap. XI, il Canto di Ulisse. Levi rilancia la semplice citazione dell’Ulisse dantesco, per di più riproposto a pezzi slegati, però la particolarissima situazione nella quale è ripensato, la terribile contestualizzazione in cui l’episodio è rivissuto, caricano quelle parole di Ulisse d’un valore inedito e sorprendente. «Ma misi me per l’alto mare aperto»: l’espressione è acuminata; «è», avverte Levi, «un vincolo infranto, è scagliare sé stessi al di là di una barriera»10. Significa spezzare il filo spinato. Nessuno aveva mai estratto da quell’endecasillabo questo significato. I due giovani protagonisti poco più che ventenni, un francese e un italiano, Levi e il suo amico alsaziano, in terra polacca sotto dominio tedesco, sequestrati, umiliati e offesi, avvertono con acuta coscienza che i versi di Dante riguardano «tutti gli uomini in travaglio», al di là dei confini nazionali.

Meno noto, ma non meno istruttivo, all’inizio del percorso nel 1915, è il Dante di Aldo Palazzeschi. Il poeta «saltimbanco» è cresciuto in via Calimala, tra Ponte Vecchio e Piazza della Signoria, a due passi dalla casa di Dante e da Orsanmichele, dove si celebra il rito solenne delle Lecturae Dantis. Nella bellissima prosa Dante in famiglia (1956), Palazzeschi si prende gioco della casa del sommo poeta («una casina stretta stretta e di un’austerità feroce»), del «vecchino» che ne è il custode e della poltrona con il sedile logorato «dalle natiche» del Vate immortale; si prende gioco delle letture in Orsanmichele, affollate da un pubblico di anziane signore sedotte dalle conferenze d’un monsignore fiorentino che «secondo la tomistica di san Tommaso, spiegava un arduo canto del Paradiso ch’era tanto più bello avere udito senza avere capito un’acca»11. I frizzi investono il cerimoniale turistico, scenografico, salottiero, mondano. Non toccano la poesia dantesca.

Qual è il Dante di Palazzeschi nell’emergenza della Grande Guerra? Il padre di Perelà non ha conosciuto il fronte del Carso, ma l’ansia cupa delle retrovie, la disperazione dei compagni in attesa di partire per la prima linea. Ne rende testimonianza in Due imperi… mancati (1920), a tu per tu con giovani militari che non vogliono essere eroi, figli d’un’Italia povera e onesta che si trovano in mezzo al «macello» senza sapere perché. Di qui, verso la loro paura e la loro fragilità, un moto di fraterna comprensione. Questa vicinanza d’affetti è espressa con disagio e pudore, per timore che le parole tradiscano l’autenticità del sentire e cadano nell’effusione patetica. Ecco allora la conclusione magistrale del libro, ecco Dante in fine, presente con la citazione dei primi ventisette versi dell’ultimo canto del Paradiso, la preghiera a Maria, invocazione assoluta, che culmina nell’elogio d’una misericordiosa bontà: «In te misericordia, in te pietate, in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate»12. Una semplice citazione, come nel caso di Primo Levi. A frenare la terribilità delle tenebre, risuona una voce intensissima di luce e di speranza. Tra i militari in grigioverde, questo Dante, introdotto nel congedo di un’opera irriverente e polemica (come Due imperi… mancati) che documenta tante umane miserie, è straordinario, al pari delle parole di Ulisse risillabate nel fango di Auschwitz.

 

NOTE

  1. «Né si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade sì come sono li legisti, li medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano, ma per acquistare moneta e dignitade; e chi desse loro quello che acquistare intendono non sovrastarebbero a lo studio […]; la filosofia è vera e perfetta che è generata per onestade solamente, sanza altro rispetto, e per bontade de l’anima amica» (Convivio, III, 11). Ma così andavano le cose, direbbe il narratore dei Promessi sposi, nel lontano Trecento; oggi invece…
  2. Il rifiuto del municipalismo risalta bene nel De vulgari eloquentia (I, 6): «Quicumque tam obscoenae rationis est, ut locum suae nationis delitiosissimum credat esse sub sole… », «Chiunque ragiona in modo così ripugnante da ritenere che il luogo dov’egli è nato sia il più delizioso che esista sotto il sole…».
  3. «Nos […] cui mundus est patria velut piscibus aequor», «Noi che abbiamo per patria il mondo, come i pesci il mare» (De vulgari eloquentia, I, 6).
  4. C.E. Gadda, Emilio e Narcisso (1949), in I viaggi la morte, Garzanti, Milano 1958, p. 219.
  5. Id., La cognizione del dolore (1963, 1970), con un saggio introduttivo di G. Contini, Einaudi, Torino 19776, p. 123.
  6. I. Calvino, L’antilingua (1965), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980, pp. 122-26.
  7. «Su questo punto non s’insisterà mai abbastanza. Tutti abbiamo letto Dante a scuola con poco frutto. Del resto è vero che dal Trecento in poi, nella lingua e nella letteratura, l’Italia petrarchesca è prevalsa su quella di Dante» (C. Dionisotti, Per un taccuino di Pavese [1991], in Ricordi della scuola italiana, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1998, p. 514).
  8. S. Quasimodo, Dante (1952), in Il poeta e il politico e altri saggi, Schwarz, Milano 1960, p. 83.
  9. U. Saba, Storia e cronistoria del Canzoniere (1948), in Tutte le prose, a cura di A. Stara, con un saggio introduttivo di M. Lavagetto, Mondadori, Milano 2001, p. 331.
  10. P. Levi, Se questo è un uomo (1947), Einaudi, Torino 1963, p. 143.
  11. A. Palazzeschi, Dante in famiglia (1956), in Il piacere della memoria, Mondadori, Milano 1964, pp. 570-76.
  12. Id., Due imperi… mancati, Vallecchi, Firenze 1920, p. 216.
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Gino Tellini

è professore emerito di Letteratura italiana all’Università di Firenze. Dal 1994 tiene corsi estivi alla Italian School di Middlebury College (Vermont e California). Tra i suoi libri più recenti: Svevo (2013); Alle origini della modernità letteraria. La poesia a Firenze tra Ottocento e Novecento (2013); Natura e arte nella letteratura italiana (2015); Verga e gli scrittori. Da Capuana a Bufalino (2016); Storia del romanzo italiano (2017).

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