Un Seneca… prevedibile

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Sempre rischioso il toto-versione, anche se non certo impossibile qualche pronostico dato che negli ultimi vent’anni abbiamo avuto per quattro volte Tacito (temutissimo) e per tre Seneca, mentre Quintiliano e l’evergreen Cicerone hanno avuto una sola presenza.

 

Pronostico indovinato

Comunque, durante un webinar Loescher di preparazione alla Seconda prova, Gisella Turazza e io avevamo proposto come principale esempio un testo di Seneca, e avevamo visto giusto: infatti la scelta ministeriale è caduta quest’anno su un passo delle senecane Lettere a Lucilio, in particolare dall’epistola 94 del quindicesimo libro, intitolato Chi è saggio non segue il volgo.

Come al solito non indulgo in questa sede nella traduzione, che – per quanto concerne la parte di testo latino da tradurre e analizzare – propongo nella versione di Mario Scaffidi Abate (Newton Compton), che ho nel mio pc in versione digitale:

Non est per se magistra innocentiae solitudo nec frugalitatem docent rura, sed ubi testis ac spectator abscessit, vitia subsidunt, quorum monstrari et conspici fructus est. Quis eam quam nulli ostenderet induit purpuram? Quis posuit secretam in auro dapem? Quis sub alicuius arboris rusticae proiectus umbra luxuriae suae pompam solus explicuit? Nemo oculis suis lautus est, ne paucorum quidem aut familiarium, sed apparatum vitiorum suorum pro modo turbae spectantis expandit. Ita est: inritamentum est omnium in quae insanimus admirator et conscius. Ne concupiscamus efficies si ne ostendamus effeceris. Ambitio et luxuria et inpotentia scaenam desiderant: sanabis ista si absconderis. Itaque si in medio urbium fremitu conlocati sumus, stet ad latus monitor et contra laudatores ingentium patrimoniorum laudet parvo divitem et usu opes metientem. Contra illos qui gratiam ac potentiam attollunt otium ipse suspiciat traditum litteris et animum ab externis ad sua reversum.

La solitudine non è di per sé maestra di onestà, né la frugalità ce la insegna la campagna, però quando non ci sono testimoni e spettatori i vizi si attenuano perché non possono più pavoneggiarsi. Non si indossa una veste di porpora se non c’è qualcuno a cui mostrarla, chi è solo non mette tutte le vivande in stoviglie d’oro. Chi mai fa sfoggio della sua ricchezza quando se ne sta solo in campagna disteso all’ombra di un albero? Nessuno sfoggia per il piacere dei propri occhi, di poche persone o di quelli dei familiari, ma tutti sfoderano il repertorio dei loro vizi in rapporto al numero di persone che li guardano. E così: lo stimolo a tutte le nostre follie è la presenza di qualcuno che ci ammiri e ci faccia da testimone. Se ci si toglie la possibilità di ostentazione anche il desiderio se ne va. L’ambizione, la magnificenza, la sfrenatezza hanno bisogno di un pubblico: se le terrai nascoste ne guarirai. Perciò se ci troviamo in mezzo al frastuono delle città ci stia accanto uno che ci ammonisca e che a dispetto di chi loda i grandi patrimoni lodi chi è ricco con poco e misura le sue ricchezze in base all’uso che ne fa; che a dispetto di chi esalta la popolarità e il potere, ammiri la vita ritirata dedita allo studio e l’animo che dalle cose esterne rientra in sé stesso. (trad. M. Scaffidi Abate, Newton Compton)

Riflessioni sui quesiti di comprensione, analisi, approfondimento

La lettera è in realtà lunghissima e l’estratto proposto arriva dopo una serie di esempi e di argomentazioni varie. Io però, preferisco parlare solo della porzione oggetto dell’esame e suggerire qualche spunto per le possibili risposte alle domande che il Ministero pone all’attenzione degli esaminandi.

Il tema è uno dei più cari a Seneca e consiste nel suggerire all’amico e discepolo Lucilio un ritorno alla vita secondo natura, alla luce dei precetti dello stoicismo, ma soprattutto una riscoperta della propria interiorità, della vita appartata (otium) che specialmente nell’ultima fase della sua vita il filosofo stesso ha dovuto forzatamente praticare e che non è estranea (anzi…) alla tradizione epicurea. Insomma, il «sugo» della risposta al primo dei tre quesiti formulati in calce al testo – quello di comprensione – è la contrapposizione tra una vita fatta di esteriorità, ostentazione, o comunque pubblica esposizione, che piace ai più ed è per gran parte del «volgo» gratificante, e invece l’idea che il «saggio» non abbia bisogno del «pubblico». Non solo perché conosce il valore dell’interiorità, ma anche perché è ben conscio dei rischi della tentazione: infatti Seneca ricorda al suo interlocutore che «lo stimolo a tutte le nostre follie è la presenza di qualcuno che ci ammiri e ci faccia da testimone. Se ci si toglie la possibilità di ostentazione anche il desiderio se ne va».

Il secondo quesito – quello di analisi – è relativo allo stile e alle modalità argomentative di Seneca. Appare subito, con la presenza di tre interrogative dirette introdotte da quis l’eredità della diatriba cinico-stoica e delle sue forme di comunicazione immediata della precettistica filosofica. Il tutto corroborato dall’abbondanza – che è diatribica ma di ambientazione tipicamente romana – di exempla di vita più o meno quotidiana, o comunque realistica. Ciò avviene con l’allusione alla porpora della toga senatoria, all’ostentazione quasi trimalchioniana (Petronio, Satyricon) di vivande e stoviglie lussuose, contrapposte all’immagine di chiara derivazione virgiliana di chi se ne sta – nuovo Titiro (Eclocae, 1) – alicuius arboris rusticae proiectus umbra ed è quindi immune dal contagio dei vizi. Non è questa, a mio avviso, l’unica allusione letteraria del passo: infatti più avanti troviamo la dittologia Ambitio et luxuria che non può non rimandare al moralismo sallustiano. Ma, d’altronde, la prosa di Seneca è un mix (non sempre omogeneo) di argomentazioni filosofiche, immagini realistiche, rimandi letterari: una prosa che Quintiliano suggeriva ai maestri di non sottoporre agli allievi troppo giovani che avrebbero provato a imitarla con risultati probabilmente disastrosi.
Il passo d’esame, comunque, non credo sia stato percepito dai maturandi come troppo difficile: è a mio avviso – come spesso dicono loro – “abbordabile”, anche se non privo di qualche insidia in particolare nella ricerca di un’adeguata resa lessicale.

Per quanto concerne il terzo quesito – il cosiddetto approfondimento – in esso si chiede di riflettere sulla tematica del rapporto tra otium e negotium, vita contemplativa e vita attiva. Di tale relazione si suggerisce – alla luce del testo senecano – una chiave di lettura precisa, in quanto «il saggio si dedica all’otium» mentre «il volgo segue onori ed ambizioni»; proprio muovendo da ciò – afferma la consegna – lo studente dovrebbe argomentare «in riferimento a quanto studiato o al tuo sguardo sul mondo». È ben chiaro come si tratti di una domanda alla quale si può rispondere in modi e forme diverse, anche alla luce di quello «sguardo sul mondo» che di certo non può essere lo stesso tra il prof ultrasessantenne che qui scrive e un ragazzo di diciotto anni.
Mi permetto però di ricordare che – per quanto concerne letterati (saggi? Chi può dirlo…) che i nostri studenti hanno affrontato a scuola (e parlo ad esempio di Cicerone, lo stesso Seneca, in parte Dante, di sicuro Machiavelli) – la scelta di una vita appartata, lontana cioè dal negotium, è stata il più delle volte forzata, obbligata, e nient’affatto libera. Ciò non toglie che sia stata proficua, dal punto di vista intellettuale, ma non si è originata dalla loro volontà, anzi. E così potrei dire per molti altri.
Insomma, come giustamente affermava Francesco Guicciardini, che non era certo un grezzo esponente del «volgo», l’aspirazione a una certa popolarità, al successo, alla ricchezza – vizio o virtù? – è tipica della natura umana; è però il «saggio», questo sì, che si accorge come molto spesso queste cose non diano piena soddisfazione. Lo fa nel suo famoso (e bellissimo) Ricordo 15:

Io ho desiderato, come fanno tutti gli uomini, onore e utile; e n’ho conseguito molte volte sopra quello che ho desiderato o sperato; e nondimeno non v’ho mai trovato drento quella satisfazione che io mi ero immaginato; ragione, chi bene la considerassi, potentissima a tagliare assai delle vane cupidità degli uomini.

Con tale, modestissima, nota concludo questa semplice riflessione, fatta – lo confesso – mentre sto sorvegliando un compito di Matematica: contrappasso di sapore dantesco per il vostro indefesso latinista!

Manca, come vedete, una valutazione complessiva del valore etico-pedagogico del brano, come quelle che i commentatori più seri di me fanno sempre, affermando che da questo o da quest’altro testo latino o greco i ragazzi possono nutrirsi di immortali precetti, funzionali alla loro formazione umana e civile. Ma ciò – chi scrive lo sa bene – vale (speriamo…) per i passi letti durante gli anni scolastici, e non per quello da tradurre all’Esame. Qui l’unico pensiero dei nostri allievi è quello di non fare troppi disastri e portare a casa le penne. Non so è un atteggiamento da «saggio» o da «volgo», ma vi garantisco che è così.

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Mauro Reali

Docente di Liceo, Dottore di Ricerca in Storia Antica, è autore di testi Loescher di Letteratura Latina e di Storia. Le sue ricerche scientifiche, realizzate presso l’Università degli Studi di Milano, riguardano l’Epigrafia latina e la Storia romana. È giornalista pubblicista e Direttore responsabile de «La ricerca».

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