Devo ringraziare l’autore di questo Racconto dell’Orlando Furioso per avermi regalato qualche ora di lettura piacevole e utile al mio lavoro di insegnante, e, soprattutto, per avermi spinto a indagare e a riflettere su quella stagione di riscritture delle storie cavalleresche che in Italia ha coinvolto, tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta del Novecento, scrittori come Italo Calvino, Gianni Celati, Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Giorgio Manganelli e, successivamente, Gesualdo Bufalino.
Una stagione feconda, che seguiva – chissà quanto casualmente – il successo di L’armata Brancaleone di Monicelli (scritto insieme a Age e Scarpelli: un capolavoro della lingua italiana) e che accompagnava da vicino l’esordio teatrale dell’Orlando furioso di Ronconi e Sanguineti (a Spoleto nel 1969, dato alle stampe nel 1970 e portato in televisione nel 1975), la prima di Mistero Buffo di Dario Fo (1969) e, a seguire, l’uscita della Trilogia della vita di Pier Paolo Pasolini: Il Decameron (1971), I racconti di Canterbury (1972) e Il fiore delle Mille e una notte (1974).
Galeotta fu la radio, in ogni caso, che nel 1968 cominciò le trasmissioni dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino (ora disponibile online), cui seguirono quelle dedicate alla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso raccontata da Alfredo Giuliani (raccolte in volume da Einaudi nel 1970) e al Morgante Maggiore raccontato da Manganelli (raccolte in volume solo nel 2006, a cura di Graziella Pulce, edizioni Socrates).
Una storia a parte, poi, è quella del Guerrin meschino di Gesualdo Bufalino (uscito in forma semiclandestina nel 1991 e pubblicato da Bompiani 1993), riscrittura della favola cavalleresca di Andrea da Barberino, e dell’Orlando innamorato raccontato in prosa di Gianni Celati (Einaudi 1994), che mi pare sia il frutto più maturo del grande lavoro culturale di quegli anni.
Il professor Mugnai, che è storico di formazione e docente di storia e di lingua e letteratura italiana nella scuola secondaria, ha dunque anche il merito di avermi ricondotto a questi maestri con naturalezza, e di avermi aiutato a chiarire qualcosa che mi ronzava in testa da alcuni anni e che ho ritrovato, magistralmente pensata e scritta, nella Premessa di Celati al suo Orlando (p. VII):
Un tempo i poemi cavallereschi si recitavano ad alta voce in vari posti, ed erano raccontati in vari modi. Si recitavano ad alta voce nei Maggi dell’Appennino, ma anche come intrattenimento serale o nelle pause del lavoro, perché c’erano appassionati lettori popolari che riunivano intorno a sé i compagni di lavoro o i vicini di casa. E poi si recitavano più o meno adattati nei teatri dei pupi siciliani e napoletani, ed erano raccontati oralmente, ad esempio nei cortili siciliani, e raccontati in prosa nei libri popolari che esponevano le antiche storie dei paladini.
Quindi, dopo aver espresso il desiderio di ricominciare a raccontare questi poemi nuovamente in prosa (“per tenere aperta la memoria d’una tradizione, e per dare aria a un istinto narrativo che la letteratura industriale rischia di soffocare del tutto”), lo stesso Celati spiega (p. X) cosa vuol dire tornare a raccontarli: cosa cambierebbe, o, meglio, cosa dovrebbe cambiare, nella cultura dei lettori/ascoltatori:
Allora per raccontare questi poemi bisogna abbassare le nostre pretese, rinunciare a molte superbie intellettuali, e smetterla di fare come i critici che vorrebbero eliminare ogni ingenuità di lettura. Se dovessimo togliere di mezzo ogni ingenuità dalla nostra lettura, ogni emozione, sorpresa, meraviglia per trasformare tutto in «consapevolezza critica», non si capisce davvero come verrebbe voglia di seguire le fantasie scatenate da un poema cavalleresco. Del resto la boria critica è proprio ciò che ti toglie la voglia di raccontare storie per immaginare una piccola patria di sopravvivenza. Mentre questi stralunati poemi fanno venire in mente che tutto è sempre da immaginare, anche la tua patria; e che c’è sempre un gran bisogno di questa facoltà immaginativa; e che per forza bisogna correre dietro a incanti e illusioni, come quei cavalieri incantati che si disperdono nel mondo.
Ecco il grande segreto di Mugnai, dunque, e di tutti coloro che hanno osato confrontarsi con le opere della tradizione – di questa tradizione – per reimmeterle ogni volta in circolazione, traducendole per la loro generazione di lettrici e di lettori, ascoltatrici e di ascoltatori: l’abolizione (almeno temporanea) di quella “boria critica” tipica di chi preferisce vedere nell’insegnante di materie umanistiche un “intellettuale” e non – come a volte si usa dire, non senza una connotazione dispregiativa – un “giullare”. E invece a me il giullare (“saltimbanco, buffone, acrobata, esperto nei modi di divertire il pubblico con il canto, con i suoni, con la danza, con la recitazione” dice il dizionario Treccani) fa pensare all’idea di un insegnante in grado di lavorare con la letteratura, ovvero con un corpus di canti e racconti, al fine di farli funzionare nella mente e nel corpo degli allievi. Un insegnante-giullare che, anche attraverso l’uso della narrazione orale, riesce ad attivare i testi – anche quelli della tradizione più illustre – nella mente e nel corpo degli alunni.
Aggiungo dunque questo libro accanto a quelli che dovrò rileggere ogni volta che vorrò allenarmi, prima di una lezione, a raccontare l’Orlando Furioso. Un racconto che farei prima per intero, in un’unica campata, partendo dalla descrizione dei personaggi e dell’ambiente, come a illustrare un vero e proprio scenario di gioco – e quanto avrebbe giovato a questo libriccino la presenza di carte geografiche! –; poi per episodi, uno alla volta, rispettando le regole dell’entrelacement e della suspense. Il libro di Mugnai, in questo senso, mi pare più utile dell’Orlando raccontato da Calvino, perché più sintetico e, alla maniera di Celati, più aderente ai canoni della narrazione orale. È anche molto adatto anche alla lettura ad alta voce o ad altre forme di lettura in comune, come può dimostrare questo breve passo (p. 77):
Vagò per il bosco, quindi tornò alla grotta ricoperta di scritte d’amore.
Lì diede sfogo alla sua rabbia e con la Durlindana spaccò tutto: rami e ceppi e tronchi e sassi e zolle non cessò di gittar ne le bell’onde.
Quindi si distese e rimase immobile, senza dormire né mangiare, per tre giorni e tre notti.
Il quarto giorno si alzò, si tolse l’armatura e così, completamente nudo,
cominciò la gran follia.
Prima sradicò gli alberi, grandi o piccoli; pini, querce e vecchi olmi; faggi, orni, elci e abeti.
Gli uomini della zona accorsero a vedere quale fosse la ragione di tanto fracasso: ma non si resero conto di nulla, che già Orlando li aveva fatti volare, a pedate o a spintoni, lontano da lui.
SI SALVI CHI PUÒ!!!!!
Diventò il grido disperato degli sventurati che si trovavano sul suo percorso.
Ben presto si parse la voce, e arrivò, portata da un messo, la nefasta notizia anche a Carlo Magno….
David Mugnai, Il racconto dell’Orlando furioso, con illustrazioni di Leo Magliacano, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 2017